Marco Respinti presenta le “Lettere da Babbo Natale”

Ogni dicembre ai figli di J.R.R. Tolkien arrivava una busta affrancata dal Polo Nord. All’interno, una lettera dalla calligrafia filiforme e uno splendido disegno colorato. Erano le lettere scritte da Babbo Natale, che narravano straordinari racconti della vita al Polo Nord: le renne che si sono liberate sparpagliando i regali dappertutto; l’Orso Bianco combinaguai che si è arrampicato sul palo del Polo Nord ed è caduto dal tetto direttamente nella sala da pranzo di Babbo Natale; la Luna rottasi in quattro pezzi e l’Uomo che ci abitava caduto nel retro del giardino; le guerre con le moleste orde di goblin che vivono nei sotterranei della casa! Dalla prima lettera scritta al figlio maggiore di Tolkien nel 1920 all’ultima, toccante, del 1943, per la figlia, questo libro raccoglie tutte quelle lettere e tutti quei disegni bellissimi in una unica edizione.

[Dalla quarta di copertina, la presentazione de Le lettere da Babbo Natale]

Recentemente, Bompiani/Giunti ha ripubblicato la celebre raccolta delle lettere che ogni anno J.R.R. Tolkien scriveva per i figli, simulando che provenissero niente meno che dal Circolo Polare Artico e che fossero vergate da Babbo Natale in persona: a volte giungevano in risposta alle letterine dei bambini, altre volte li anticipava con curiosi racconti di avventure e vicissitudini. Le lettere manoscritte erano riccamente calligrate e illustrate, nella miglior tradizione del Professore. Il nuovo volume è sempre a cura di Marco Respinti e nell’edizione 2017 riprende la copertina della corrispondente tiratura inglese. Un breve stralcio della prefazione illustra puntualmente le caratteristiche salienti di quell’esperienza:

«Per i figli di J.R.R. Tolkien, l’interesse e l’importanza di Babbo Natale [Father Christmas] andava ben oltre il fatto che egli riempisse le loro calze la Vigilia della Notte Santa; ogni anni, infatti, Babbo Natale spediva loro una lettera in cui descriveva, con parole e con immagini, la sua casa, i suoi amici e gli eventi, divertenti o inquietanti, che si svolgevano al Polo Nord. La prima di queste lettere arrivò nel 1920, quando John, il maggiore dei figli di Tolkien, aveva tre anni e per più di vent’anni, durante tutta l’infanzia degli altri fratelli Michael, Christopher e Priscilla, le lettere continuarono ad arrivare puntualmente ogni Natale. A volte le buste, spolverate di neve e affrancate con i bolli postali del Polo, venivano trovate in casa il giorno seguente la visita di Babbo Natale; altre volte le consegnava il postino; e le letterine che invece erano i bambini a scrivere scomparivano dal caminetto quando la stanza in cui erano state messe era completamente vuota.»

– Introduzione di Baillie Tolkien (2a moglie di Christopher Tolkien) a “Le Lettere di Babbo Natale”.

Dunque il momento intimo, speciale e suggestivo, in cui la famiglia si riuniva per leggere queste curiose narrazioni univa alle sensazioni tipiche del Natale anche gli spunti di riflessione offerti dalle visioni di Tolkien; educando i figli al fatto che nemmeno la casa di Babbo Natale fosse immune da disavventure, li istruiva a considerare che al mondo non vi è nessuna zona immune dal male e che bisogna sempre essere pronti ad affrontare difficoltà e imprevisti in ogni momento.
Si tratta dunque di un’opera particolare, apparentemente più “leggera” rispetto ad altri scritti del corpus ma in effetti non meno ricca di elementi degni di nota. In merito abbiamo rivolto alcune domande proprio al curatore, Marco Respinti, giornalista e saggista con all’attivo una non comune esperienza proprio riguardo a Tolkien e alle sue opere, per avere le impressioni di chi a questo volume ha contribuito in modo diretto.

 

La raccolta delle Lettere da Babbo Natale è un’opera particolarissima, non solo nel novero della produzione tolkieniana, ma anche in senso più generale. C’è qualche aspetto di Tolkien che può colpire l’appassionato, così come l’estimatore, che traspaia essenzialmente leggendo queste pagine?

La risposta è certamente sì, ma occorrono due brevi premesse.
La prima è che il volume pubblicato in italiano da Bompiani nel dicembre 2017 con il titolo Lettere da Babbo Natale è la terza edizione riveduta e accresciuta del libro. L’originale inglese è stato pubblicato nel 1976 a cura di Baillie Tolkien con il titolo The Father Christmas Letters. Su questa edizione è stata condotta la versione italiana di Francesco Saba Sardi (1922-2012), pubblicata a Milano da Rusconi con il titolo Le lettere di Babbo Natale nel 1980. Nelle ristampe successive, il volume originale inglese ha mutato titolo, diventando Letters from Father Christmas e aggiungendo nuovi materiali nell’edizione del 1999. Tenendo conto di questa versione, ho realizzato la nuova traduzione italiana pubblica da Bompiani nel 2004, che dunque costituisce la seconda edizione italiana rifatta e aumentata, ma senza riuscire a far modificare il titolo sul modello di quanto fatto, da anni, nelle edizioni in inglese. La storia editoriale di questo volume è del resto parecchio complessa e ancora sub iudice, come dettagliatamente ha esposto il 6 novembre 2012 la bibliografa inglese Christina Scull [link_ https://wayneandchristina.wordpress.com/2012/11/06/the-father-christmas-letters-4/%5D, tra le massime autorità tolkieniane mondiali in questo campo. Finalmente, nel 2017 Bompiani ha provveduto a una nuova edizione del libro, che si è rivelata più che opportuna. La versione dei testi già tradotti per l’edizione italiana del 2004 è stata infatti riveduta, ritoccata e sistemata; alcuni nuovi materiali pubblicati nelle edizioni in inglese successive a quella del 1999 su cui tradussi per la seconda edizione italiana del 2004 sono stati tradotti ex novo; il nuovo volume contiene dunque anche nuove immagini rispetto alla seconda edizione italiana del 2004; sono stati corretti errori testuali presenti nell’edizione inglese del 1999 e intercorsi nella seconda edizione italiana del 2004 (i testi di alcune lettere erano state mescolate) poiché allora, in assenza di alcuni facsimile delle lettere, non era stato possibile verificarne le trascrizioni, errori che pertanto permangono nelle versioni in inglese e di cui ho informato l’editore britannico HarperCollins ricevendone l’assicurazione che in futuro si procederà alla correzione anche degl’impaginati e delle trascrizioni in inglese; e il titolo è stato modificato da Le lettere di Babbo Natale a Lettere da Babbo Natale, fedele all’originale inglese. Quella attuale è dunque appunto la terza edizione italiana riveduta e accresciuta, che con la modifica del titolo fuga un dubbio importante cui la prime titolazioni italiane e pure la prima titolazione inglese davano adito: non si tratta, genericamente, di “lettere di Babbo Natale”, tra le quali potrebbero dunque esservi anche delle “lettere a Babbo Natale”, ma esclusivamente di “lettere da Babbo Natale”. Quelle cioè che Babbo Natale ha scritto ai piccoli di casa Tolkien, e solo quelle: evidentemente in risposta (e lo si evince chiaramente dal testo) alle letterine scrittegli da quei bimbi, che però non esistono più (o che comunque non sono mai state pubblicate). Insomma, di queste “lettere” non esiste ancora un’edizione completa e critica nemmeno in inglese, e spesso le trascrizioni omettono particolari…
La seconda premessa è che Lettere da Babbo Natale non è un “libro”. Non lo è nel senso che le pagine di cui si compone non sono state pensate per la pubblicazione. Sono testi in qualche modo “ritrovati” diversi anni dopo la loro scrittura, e persino dopo la scomparsa di Tolkien, e sistematizzati al meglio per cercare di offrire uno spaccato particolare della famiglia Tolkien, dunque della personalità dello scrittore-filologo. Si tratta del resto solo di una scelta di scritti (e dunque di disegni, nel libro riprodotti in facsmile). Lo stato attuale di questa raccolta non presenta dunque una visione narrativa organica, che forse la sequenza di queste “lettere” nemmeno ha per intero. Pertanto, le sue pagine vanno sfogliate con timore e tremore, con la delicatezza, se non persino la riservatezza di chi sta entrando nell’intimo della famiglia Tolkien senza essere stato invitato… Sì, dirà il lettore, che siamo stati invitati; ci ha invitati Baillie Tolkien: ma è lo stesso qui pro quo dai Nani della compagnia di Thorin Scuodiquercia invitati a Casa Baggins non certo da Bilbo, quanto da Gandalf…
Ciò premesso, le “lettere” presentano ugualmente alcuni punti di forza notevoli. Evoco i principali.
Anzitutto, quell’“urgenza” creativa apparentemente insopprimibile che porta Tolkien, ogniqualvolta prenda in mano la penna, a “subcreare” mondi. Mondi secondari animati, abitati, potenzialmente coerenti. Il mondo del Babbo Natale tolkieniano è un mondo vivo, “affollato”, ricco. Il Babbo Natale di Tolkien non prende forma “di maniera” o “di occasione” soltanto qualche giorno prima del 25 dicembre, e soltanto per via di quella faccenda ‒ che potrebbe pure finire per farsi triviale ‒ dei regali, ma vive appieno la vita e con lui la vivono i molti suoi amici del Polo Nord: Orso Bianco del Nord, il cui vero nome è Karhu (cioè “orso” in finlandese), i suoi nipoti cuccioli Paksu e Valkotukka, suo cugino Grande Orso, l’elfo segretario Ilbereth, gli Uomini-neve, gli Orsi delle Caverne, gli Gnomi Rossi, il “fratello verde” di Babbo Natale, Nonno Yule, e così via. È un mondo che vive avventure tutto l’anno, ogni tanto affronta pure difficoltà, esplora l’Artico…
In secondo luogo, questo mondo affollato parla lingue e si esprime attraverso alfabeti, e questo ci riporta direttamente al centro del Tolkien “maggiore” che conosciamo. Due esempi: i segni pittografici con cui i goblin imbrattano i bei disegni rupestri lasciati dagli Orsi arcaici del Polo che Orso Bianco trasforma in alfabeto fonetico e la lingua natale sempre di Orso Bianco, cioè l’Artico, che in artico si chiama Arktik. Del primo Lettere da Babbo Natale offre una tavola completa e del secondo fornisce una frase: «Mára mesta an ni véla tye ento, ya rato nea», ovvero «Arrivederci alla prossima volta, che spero venga presto».
La notizia più importante è che l’Artico assomiglia straordinariamente, o addirittura coincide, con il Quenya, anzi con il Qenya, cioè l’“elfico-latino” nella sua forma originaria. Gli esperti statunitensi di linguistica tolkieniana Carl F. Hostetter e Patrick H. Wynne hanno definito la lingua di Orso Bianco come «Q(u)enya artico» sulle pagine di Vinyar Tengwar, la pubblicazione linguistica della Elvish Linguistic Fellowship. E qui c’è spazio per una suggestione importante: forse il Polo Nord del tempo successivo alla Terza Era tolkieniana, cioè quello del nostro tempo, ha conservato la memoria dell’elfico mitico (in specifico dell’“alto elfico”). È un elemento flebile, che non va troppo “tirato per i capelli”, ma la presenza di elementi mitici di Arda nel nostro tempo storico ci riconnette a uno dei nodi narrativi che personalmente ho sempre ritenuto più affascinanti dell’intera opera tolkieniana. La connessione (tentata) tra il nostro mondo storico e quello mitico delle Tre Ere di Arda. Tolkien ha sondato questi percorsi attraverso le figure di Aelfwine l’anglosassone, Alboin Errol (Alboino) e il professor Alwin Arundel Loudham che compare in The Notion Club Papers. Sono percorsi difficili, irti d’insidie, che Tolkien ha non mai portato a termine, ma che restano un punto narrativo-filosofico di notevole rilevanza. Nelle Lettere da Babbo Natale ve n’è forse traccia.
Il lettore del Tolkien “maggiore” trova poi altri elementi familiari. Anzitutto il goblin, che negli scritti riguardanti Arda dapprima sostituisce poi affianca il successivo orc (sempre sciaguratamente tradotto in italiano con “orco”): dato che lo stesso Tolkien dà goblin e orc per sinonimi, il primo essendo un vocabolo “inglese” e il secondo il suo equivalente anglosassone, ciò significa che, oltre all’“alto elfico”, anche il goblin/orc dell’epoca mitica di Arda è sopravvissuto nel nostro tempo storico. Poi l’elfo Ilbereth, in cui è impossibile non vedere una parentela con Elbereth, il nome dato dagli Elfi a Varda, regina delle Valier. Quindi, il fatto che gli abitanti del Polo Nord siano trascinati dai goblin in una battaglia da cui dipende la sopravvivenza del loro mondo, che l’esito dello scontro sia tutt’altro che scontato, ma che alla fine tutto si volga per il meglio è un elemento che non trascurerei. Infine, Babbo Natale stesso.
Leggendo le lettere che egli scrive ai piccoli di casa Tolkien non si può non convincersi del fatto che, una volta recapitate, esse dovessero venire lette ad alta voce al cospetto di tutta la famiglia (qualcosa di simile doveva accadere prima, quando erano i piccoli Tolkien a scrivere a Babbo Natale). Ovvero che l’arrivo di una lettera dal Polo Nord fosse l’occasione per pomeriggi o serate di racconti e discussioni su quanto avveniva tra i ghiacci lassù, su chi è chi, con i piccoli che ponevano mille domande, e via discorrendo. Fra le righe, lo si evince dalle lettere stesse, che parlano davvero poco di doni e di regali. Trova così giustificazione piena il fatto che, ancora una volta, per iscritto, Babbo Natale torni a identificarsi ai piccoli con precisione: nella lettera datata 24 dicembre 1930, Babbo Natale dice di chiamarsi «[…] Nicola in onore del santo che portava quel nome (la sua festa cade il 6 dicembre), il quale un tempo portava segretamente dei regali alle persone, a volte addirittura gettando attraverso le finestre alcune borse colme di denaro dentro le case». Lì e altrove si firma del resto «Babbo Nicola Natale». Tolkien, cioè, spiega con precisione ai propri figli che Babbo Natale altri non è che san Nicola, vescovo di Myra, vissuto nella Licia anatolica a cavallo dei secoli III e IV, noto per la sua ricchezza e per la sua generosità verso i poveri, spesso in forma anonima, e, come raccontano le pie leggende, per avere persino risuscitato tre bambini, motivo per cui è da sempre associato ai doni e ai più piccoli. Nell’Inghilterra tolkieniana il suo nome è Father Christmas, ma anche il nome Santa Claus ‒ più in uso negli Stati Uniti d’America ‒ comunica la stessa identità, essendo la forma anglicizzata del vezzeggiativo fiammingo Sinterklaas che rimanda appunto a Sint-Nicolaas cioè a san Nicola. Ancora oggi il 6 dicembre, in molte città dell’Europa Settentrionale, anche del Benelux che ha “inventato” Santa Claus, i bambini per la strade ricevono doni e dolciumi dal “santo” con tanto di mitria, pastorale e manto rosso (da cui la livrea anche del Babbo Natale “della Coca-Cola” per intenderci…), e così pure a Londra: certamente i piccoli Tolkien lo avranno visto e poi ritrovato nelle sue lettere.
Ora, in inglese la firma «Babbo Nicola Natale» fa un certo effetto: «Father Nicholas Christmas». Senza evidentemente togliere nulla alla profondità del vocabolo «Natale» nella lingua italiana, l’espressione inglese «Christmas» impatta, a voce e per iscritto, certamente in maniera ancora più forte nella misura in cui pronuncia esplicitamente il nome di Cristo e fa riferimento palese alla liturgia. Letteralmente, infatti, «Christmas» significa «Messa per Cristo». La forma attuale «Christmas» ‒ e Tolkien lo sapeva perfettamente ‒ deriva dal medio inglese «Cristemasse», che a propria volta deriva dall’anglosassone «Crīstesmæsse» ‒ «Crīstes» è il genitivo di «Crīst» ‒, espressione attestata per la prima volta nel 1038. Esiste anche la versione arcaica «Christenmas» derivata dal medio inglese «Cristenmasse», cioè «Messa cristiana». Nelle lettere, Babbo Natale evoca il proprio “fratello verde”, ovvero la personificazione del Natale tipica del folclore inglese che affonda le radici anche nelle festività di stagione dell’epoca precristiana e di cui ritroviamo un’ultima incarnazione letteraria nello Spirito del Natale presente posto dallo scrittore inglese Charles Dickens (1812-1870) al cuore del Canto di Natale del 1843. Il Babbo Natale tolkieniano evoca pure Nonno Yule, ovvero la personificazione del solstizio invernale (Yule) dei popoli germanici precristiani di cui si dice nipote. Il Babbo Natale di Tolkien non rinnega né l’uno né l’altro (anzi, nella lettera succitata dice che anche Nonno Yule fa Nicola di nome proprio). Sono persino suoi parenti, a cui è molto affezionato. Ma lui non è loro. Lui è (san) Nicola Natale (di Cristo). Il nome vero del Natale italiano è «diem natālem Christi», ma in italiano qualcosa si è perso per strada, e quel qualcosa l’inglese «Christmas» invece lo conserva. Con la consueta delicatezza che lo contraddistingue nel trattare i simboli, Tolkien sta qui dando una nozione importantissima.
Colleghiamo tutto questo ai versi conclusivi delle sua poesia perduta Noel e fortunatamente di recente ritrovata, e di cui speriamo si possa avere presto una versione critica. Le lettere scritte da Babbo Natale ai piccoli Tolkien abbracciano un arco di tempo che va dal 1920 al 1943. La poesia è stata pubblicata nel 1936 nell’Annual (l’annuario) della Scuola di Nostra Signora (Our Lady’s School) di Abingdon, un collegio femminile nei pressi di Oxford. I versi conclusivi recitano: «Suonano ora le campane del Paradiso/ insieme alle campane della Cristianità,/ e Gloria, Gloria canteremo/ poiché Dio è venuto sulla Terra».
Il senso del Father Christmas di Tolkien è ‒ giocondo e facondo come dev’essere giustamente il personaggio di storie per ragazzini ‒ tutto lì. Ma anche per i “grandi” c’è un richiamo. Ne Il Signore degli Anelli, conclusosi il Consiglio di Elrond, la Compagnia dell’Anello lascia Granburrone per la missione ultima e ultimativa il 25 dicembre 3018 della Terza Era secondo il Calendario della Contea (quello degli Hobbit, strettamente imparentati con gli Uomini) concludendo il cammino con la vittoria finale tre mesi esatti dopo, il 25 marzo 3019. Il quest de Il Signore degli Anelli ‒ il quest supremo ‒ parte cioè a Natale e si conclude vincitore il giorno dell’Incarnazione. Questa seconda, nel cristianesimo, è una solennità ancora più importante del Natale poiché è il momento in cui Dio entra davvero, ancorché invisibile a occhio umano, nella storia. Gesù è già vero uomo sin da quel momento, è già sulla Terra, nel grembo di Maria, nove mesi prima della nascita. Si celebra con (giusta) enfasi il Natale perché è il giorno della nascita di Gesù, l’avvenimento pubblico al quale da ogni dove accorrono genti umili (i pastori) e persone potenti (i magi), mentre l’Incarnazione è un fatto “privato” di cui si sa solo a posteriori. Tra uno e l’altro corrono del resto nove mesi esatti, e la scienza storica più accurata ha confermato che Gesù è sul serio nato il 25 dicembre, non solo per modo di dire. La missione della Compagnia dell’Anello “scompagina” allora il calendario ridando priorità mitica all’Incarnazione, ma, nel suo piccolo, il Father Christmas di Tolkien celebra con enfasi la gioia del Natale storico ‒reso possibile dalla vittoria ai Cancelli di Mordor?…

 

Prima delle Lettere da Babbo Natale è stata la volta de Il Silmarillion. In base a queste due importanti esperienze professionali, quali sono le difficoltà maggiori che s’incontrano nel curare un libro di Tolkien?

Rispondo con un’altra premessa. Io non ho tradotto Il Silmarillion, e nemmeno l’ho ritradotto. Ho ritoccato qua e là la traduzione pre-esistente, limitandomi a correggere, visto il tempo limitatissimo messomi a diposizione, alcune questioni macroscopiche. A rigore di termini, non si può dunque nemmeno parlare di una vera e propria “revisione”. La traduzione, quindi, resta ancora, per la maggior parte, quella originaria, ovvero assolutamente bisognosa di un rifacimento approfondito.
Ebbene, le difficoltà nel tradurre Tolkien sono molte: la necessità di rimanere fedele al suo stile, anzi agli stili che egli adopera di volta in volta, pur producendo un risultato finale italiano gradevole e sensato; l’uso peculiare che talora egli fa di vocaboli e di locuzioni; il rispetto delle sue costruzioni sintattiche… Ma questo è in parte vero per ogni autore e per ogni traduzione. Là dove con Tolkien le difficoltà aumentano sono i nomi (propri e generici) e i toponimi, a volte ponendo degli scogli insormontabili. Da un lato occorre infatti avere sempre presente l’orizzonte indicato da Tolkien stesso ai traduttori nella famosa (ma i traduttori l’hanno mai studiata e meditata sul serio?…) Guide to the Names in “The Lord of the Rings”, nota poi come Nomenclature of “The Lord of the Rings”, che non è certo un trattato organico, ma che offre indicazioni esaurienti della logica che deve sottostare a ogni traduzione tolkieniana; dall’altro lato bisogna contemperare quanto lì detto con il buon senso e soprattutto con il tentativo di non tradire i testi, riproducendo in ciascun contesto linguistico-culturale, nel nostro caso quello italiano, l’effetto narrativo che Tolkien produce scrivendo per un pubblico anglofono in un inglese che abbonda di reperti (anche mascherati) di altre lingue. Più la lingua in cui si traduce si allontana storicamente e filologicamente da quella di Tolkien, più le difficoltà aumentano. In italiano queste difficoltà sono già in numero sufficiente a disarmare…
Mi rendo conto che più che rispondere direttamente alla domanda postami sto riflettendo per iscritto… Fare esattamente quanto ho appena affermato è infatti letteralmente impossibile, specialmente appunto in italiano. Faccio un esempio a casaccio. Come si fa a inserire il nome non inglese Gandalf, con tutte le suggestioni, le evocazioni e le assonanze che esso comunque ha per un lettore anglofono, in uno scritto in una lingua neolatina e pretendere di suscitare un effetto sonoro-memoriale identico?…
Tornando a Il Silmarillion, la prima difficoltà è quella di rendere in italiano l’incedere “biblico” del testo e l’atmosfera “nordica” delle sue pagine senza strafare (come invece mi sembra sia stato fatto…) e senza però nemmeno perdere nulla. Certo, oggi il traduttore è aiutato moltissimo dalla grande opera filologico-critica messa a disposizione dalla messe d’inediti e d’incompiuti pubblicati sia da Christopher Tolkien sia da uno stuolo di studiosi di grande valore e personalità in mezzo mondo, Italia non esclusa. Senza loro, le difficoltà rimarrebbero forse invincibili. Ma più procedo nello studio anche linguistico-letterario di Tolkien e più mi convinco che ogni traduzione sarà sempre e solo un compromesso: il segreto è raggiungerlo nel modo più trasparente, onesto ed equilibrato possibile, rimandando sempre il lettore all’inglese originale di Tolkien –e a una buona dose di altre letture di conforto che permettano di assaporarne il più possibile gli aromi linguistico-contenutistici. Il più delle volte, infatti, è questione di palato, come per un buon vino, non di sola grammatica razionalizzata, disseccata.

 

Negli anni la popolarità delle opere di Tolkien è ulteriormente aumentata e, grazie ai film, è uscita dalla nicchia (già di suo piuttosto ampia, invero) degli appassionati per raggiungere il cosiddetto “grande pubblico” e diventare addirittura un elemento di cultura pop, con citazioni in romanzi, in altri film o serie televisive, in quiz a premi e perfino facendo timidamente capolino in qualche testo scolastico. Inevitabilmente questo ha fatto sì che le aspettative e le reazioni dei lettori siano mutate nel tempo. Com’è cambiato il modo di proporre e raccontare Tolkien e le sue opere, da quando queste sono giunte in Italia?

Il modo di proporre e di raccontare Tolkien e le sue opere in Italia non è cambiato: è cambiato il pubblico. E il pubblico è cambiato principalmente perché… crede di essere cambiato (e a furia di sentirselo ripetere, ha finito per crederci). Mi spiego. Ovvio: il pubblico italiano di oggi non è più quello di prima di Internet, di prima del cinema CGI, del tempo in cui uscì la prima edizione italiana de Il Signore degli Anelli. Io stesso, allora giovanissimo, ignaro di tutto, la prima volta che ebbi per le mani (ma non lessi), più o meno 15enne, Il Silmarillion fresco di stampa, avendo gettato solo una rapida occhiata al risvolto di copertina pensai che l’autore, nato in Sudafrica, e non sapendo io nulla nemmeno del Sudafrica, fosse un narratore di colore… Non cadiamo però nei sociologismi da biscottino della fortuna… Il Signore degli Anelli è uscito in Gran Bretagna tra 1954 e 1955: quando lei e io lo abbiamo letto, e così migliaia di altri italiani, eravamo già diversi da quel mondo. Insomma, davvero non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume. Ma il punto non è questo. Il punto è che il fiume resta sempre lo stesso, e bagna sempre. Semmai oggi la difficoltà è quella di fare arrivare al pubblico il Tolkien autentico, dovendosi aprire la strada con il machete nella selva intricata d’inutilità, disordini, distrazioni e caricature che si sono incrostate sopra la sua letteratura. Questo è però già capitato a Omero, Virgilio, William Shaskespeare, tutti i nostri grandi padri trattati con il medesimo bon ton dispiegato dal Barbariccia dantesco che «[…] avea del cul fatto trombetta» (Inferno, XXI, 139). Occorre dunque sforzarsi per riportare al pubblico il Tolkien vero, quello dei libri (non per feticismo, ma per completezza e ricchezza), quello della subcreazione, quello che si è fatto seppellire con il nome di Beren, accanto alla moglie Edith con il nome di Lúthien, non perché fosse un invasato che aveva perso le coordinate della realtà, ma perché era un uomo di carattere conscio che sul palcoscenico della vita occorre indossare la maschera giusta, cioè, alla greca, essere la persona che si deve essere. Non ci sono film o gadget che tengano: se esponiamo l’uomo, il ragazzo di oggi alle tempeste del Tolkien vero, questi dovrà correre a trovarsi subito un riparo perché quella è pioggia che bagna davvero. E così, anche nel mondo 2.0, ognuno che incidenti nel Tolkien autentico saprà allora firmarsi Beren.

Pubblicato sul sito della Società Tolkieniana Italina con il medesimo titolo il 24-12-2017

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