Viste le scempiaggini che girano sul mio conto, cui ho comunque dedicato qualche nota,
ripropongo uno degli unici due articoli che abbia mai scritto e pubblicato su Leo Strauss.
Questo è di 11 anni fa
È quella sorta di seconda giovinezza che in Italia sta attraversando Leo Strauss (1899 -1973) che ci ha fatto riflettere al punto da spingerci a titolare così il nostro primo, balbettante tentativo di rispondere a una domanda che sempre più ci ronza nella testa: ma cos’è tutto questo cancàn attorno a un filosofo della politica tedesco-americano ed ebreo, più oscuro che no, a tratti involuto e ad altri un po’ deludente, spesso sfuggente e sovente ermetico, oggetto quasi di culto per gli straussiani (divisi peraltro in molte e diverse scuole, fra loro litigiosissime), e perennemente difficile da cogliere sul fatto (e con questo gli abbiamo fatto il maggior complimento che si potesse tributare a un vero e proprio vate della reticenza, dell’esoterismo metodologico e della scrittura fra le righe)?
Ma anzitutto chi è Strauss? Un ebreo imbevuto del pensiero sincretista del filosofo e scienziato arabo di origine turca Fārābī, sul quale pesa, e molto, il retaggio sia della cultura ebraica – biblica, talmudica e pure un po’ cabalistica –, sia l’idea di considerarsi in qualche modo “eterodosso” proprio dell’ebraismo. In lui Platone, Aristotele, Senofonte, Tucidide, Mosè Maimonide, Niccolò Machiavelli e Thomas Hobbes forniscono spunti di riflessione profondi. Ma se il sionismo è per lui un tipico prodotto del fallito liberalismo dei “moderni”, lo Stato d’Israele è di per sé una grande testimonianza morale e il miglior avamposto dell’Occidente in Medioriente. Enigmaticamente muto sulla Shoà, Strauss ha peraltro autorevolmente intuito e interpretato la crisi teologica del giudaismo, meditando seriamente sul prometeismo di certa tecnologia.
Diritto naturale e storia non è certo stato il suo primo libro, ma il primo a comparire in traduzione italiana sì. Pubblicato originariamente nel 1953 (ma, raccolta delle Walgreen Lectures pronunciate all’Università di Chicago, i suoi contenuti erano già noti agli studiosi sin dal 1949), l’editore veneziano Neri Pozza lo rese disponibile agl’italiani nel 1957. Come ricostruisce Guido Alpa nella introduzione alla nuova edizione di quel libro importantissimo – realizzata, dopo più di trent’anni, dalla genovese “il melangolo” nel 1990 –, il mondo accademico italiano non ha accolto Strauss con particolare affetto. Dal 1957 al 1990 le traduzioni italiane di opere di Strauss si erano sì moltiplicate, eppure si era dovuto attendere il 1983 perché in Italia comparisse la prima monografia critica a lui dedicata. E di alcune parti di quel pur pregevole Leo Strauss e la filosofia politica moderna (Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli) è lo stesso autore, Raimondo Cubeddu, a rammaricarsi oggi, e pubblicamente, perché al tempo (dice) giovane e non così addentro come poi alle straussiane cose.
Relegato dunque nelle oasi ben protette degli addetti ai lavori, Strauss è tornato a far parlare di sé, anche in Italia, nel 2003. Era l’anno del trentesimo anniversario della sua scomparsa e subito gli si appiccicò addosso l’etichetta (più spesso l’accusa) di essere il padrino (per taluni il mandante) dei neoconservatori statunitensi, i falchi guerrafondai votati alla conquista del mondo che (sempre per quegli stessi taluni) vivrebbero ben protetti nelle stanze dei bottoni di Washington.
Quando “straussiano” è un insulto
Peraltro, l’avara letteratura scientifica italiana su Strauss non ha impedito la pubblicazione di uno studio breve e sapido, oggi datato ma ancora utile, pubblicato da quella che fu la casa editrice del Partito Comunista Italiano da una ricercatrice dell’Università di Pavia indifferente ai sinistrismi. Leo Strauss e la destra americana (Editori Riuniti, Roma 1993) di Germana Paraboschi fu infatti prezioso per valutare il peso avuto dal filosofo nel variegato ecumene del conservatorismo nordamericano. Ma evidentemente le sue non sono state pagine compulsate a lungo dai professionisti nostrani della comunicazione mass-mediatica i quali preferiscono invece sfogliare, costa poca fatica, le pagine dei grandi quotidiani statunitensi e riprodurre da noi dibattiti piuttosto stranieri e però efficaci nel rifornire la faretra delle invettive antiamericane di qualche strale polemico in più. E così “straussiano”, al pari di neocon, è diventato, come in realtà davvero non dovrebbe, un termine di polemica giornalistica.
La questione l’avevano peraltro già risolta da un lato la figlia del filosofo, Jenny Strauss Clay – docente di Discipline classiche all’Università della Virginia di Charlottesville –, con l’articolo The Real Leo Strauss, pubblicato su The New York Times del 7 giugno 2003; dall’altro Steven Lenzner e William Kristol – due esponenti di punta del mondo neoconservatore, soprattutto il secondo, direttore del settimanale The Weekly Standard – con il saggio What Was Leo Strauss Up To?, pubblicato nel fascicolo dell’autunno 2003 di The Public Interest e offerto in traduzione italiana da il Foglio del 25 maggio.
A riportare però oggi, anno Domini 2005, l’attenzione su Strauss è Giuliano Ferrara, il quale, dedicando al pensatore ben sette paginoni de il Foglio (il 21, 24, 25 e 26 maggio), sceglie di dare un risalto, inusitato dal punto di vista strettamente giornalistico, al convegno Leo Strauss: l’uomo, il suo pensiero e la politica globale contemporanea, svoltosi a Roma il 24 e 25 maggio sotto gli auspici del Centro Studi Americano in collaborazione proprio con il Foglio, oltre che con la John Cabot University e la St. John’s University. Del resto, che Strauss sia un’autorità filosofica decisiva per Ferrara (già fra l’altro autore della presentazione al libro di Strauss, Scrittura e persecuzione, trad. it. Marsilio, Padova 1990) non è certo uno scoop.
Resistere, resistere, resistere
In Italia, insomma, Strauss va sui giornali quando c’è da sparlare dei neocon, oppure quando Ferrara decide di parlarne bene. Ora, si potrebbe consegnare serenamente il tutto agli appassionati della cronaca culturale, ma non accade tutti i giorni che un quotidiano di opinione, per elitario (e volutamente) che sia, scelga l’impopolarità più sfrontata decidendo di travolgere sin dal mattino, e a più riprese, i propri ignari acquirenti con colate di piombo fitte fitte e irte di ragionamenti complessi su quello che anche per la media del lettore colto resta poco più di un Carneade. Ed è per questo che noi, che la mera cronaca culturale ci fa un baffo, abbiamo drizzato le antenne. Nella pretesa, anzi con la pretesa, di avere capito perché a Ferrara piace Strauss e quindi di avere compreso perché Strauss è davvero maledettamente importante (e viceversa).
I nodi centrali sono tre, e già non è poco: la filosofia che si scrive sotto copertura come azione di un commando di resistenti passivi contro la tirannia che tutto schiaccia; la controversia sulla Modernità; e il ritorno del diritto naturale.
I filosofi, dice Strauss, vengono perseguitati dal potere che li uccide o li ostracizza giacché irriducibili per vocazione, qualsiasi sia il contenuto del loro filosofare. Per questo elaborano un codice segreto di comunicazione che disseminano, nascondendolo accortamente, nella propria scrittura la quale cela quindi esotericamente la verità sotto le mentite ed essoteriche spoglie di un testo solo apparentemente palese. È una forma, anzi la forma della tragica ma non disperata resistenza di un pusillus grex che, scosso dai marosi delle tempeste, usa la reticenza e il dire fra le righe per lanciare messaggi di sopravvivenza da una trincea posta nel cuore di un territorio nemico e inospitale. Per Strauss, infatti, il potere è così di suo: persecutorio e violento da quando, nella Modernità, si è fatto espressione concreta e coercitiva di un diritto soggettivo illimitato – “liberale” – e non più raffrenato dal divino.
E il secondo nodo straussiano è proprio quello della Modernità intesa come un uso della ragione antitetico a ogni spirito di filosofia. Qui Strauss si sofferma a lungo su Baruch Spinoza, additandolo come l’inizio di quell’emancipazione dell’etica dal trascendente che polverizza ogni autentica radizione religiosa. Da cui, secondo Strauss, la minaccia duplice che la Modernità pone all’uomo. L’individualismo che, fattosi razionalismo, illuminismo e idealismo, diviene relativismo radicale, e quindi la sua incarnazione politica in quella democrazia liberale che si costruisce a partire da un diritto soggettivo illimitato e che si costituisce come la somma dei diritti soggettivi illimitati dei singoli come volto secolare (e sempre coercitivo) di una divinità ormai impersonale.
Perché il terzo nodo è appunto quello del diritto naturale. Nello stigmatizzare la tirannia della Modernità, Strauss contrappone gli “antichi” ai “moderni” e si schiera con i primi, difensori del diritto naturale, contro i secondi, adepti del relativismo nichilista. Peculiare al suo pensiero è allora la distinzione fra diritto naturale classico e moderno, dove il secondo, svuotato dell’idea di una giustizia indipendente dal potere e dai “diritti”, coincide con le formulazioni politiche, ideologiche, giuridiche o pure epistemologiche che i “moderni” ne danno. È Immanuel Kant, afferma Strauss, che sancisce il divorzio fra giustizia e natura slegando ciò che è razionale da ciò che è naturale.
Così Strauss decide di appropriarsi dei termini messi a disposizione dalla lingua inglese e di caricarli di significati intenzionali: tra right e law, Strauss sceglie (sin nel titolo originale di Diritto naturale e storia, cioè Natural Right and History) di utilizzare il primo quando tratta della norma pre-razionalista e antirelativista che ritrova e apprezza negli “antichi”, e il secondo quando denuncia l’atteggiamento dei “moderni” che trasformano lo ius naturale in “diritti naturali” e dunque questi in quella volontà di potenza illimitata che politicamente si organizza nella democrazia liberale. È una sua scelta, una scelta linguistico-concettuale tutta straussiana; ma è una scelta densa di significati. Usando natural right in relazione agli “antichi”, Strauss mira infatti a sottolineare il concetto di “ciò che è giusto (right) per natura” contro il soggettivismo eretto a sistema dal potere politico.
La questione cristiana
Ma, nella sfida tra “antichi” e “moderni”, Strauss s’incaglia nel pensiero cristiano, in specie medioevale, confessando, pur tra le righe, la propria impossibilità filosofica ad ammettere la possibilità della Rivelazione divina incarnata. Per il pensatore tedesco-americano, infatti, ciò che è naturale si oppone a ciò che è mitico, e per lui l’incarnazione divina appartiene senza dubbio al mito nella misura in cui va oltre la natura e quel tipo di religione che essa è in grado di concepire.
Quando però, tra anni Quaranta e Cinquanta, una volta tornata a usare positivamente il termine “conservatorismo”, una certa cultura statunitense ha preso a interrogarsi, implicitamente ed esplicitamente, su cosa vi sia da conservare davvero e così ha incrociato proprio le rotte battute da Strauss, anzitutto e soprattutto filosofo della politica (cioè dell’organizzazione della vita comunitaria degli uomini). Mentre autori fondamentali quali Richard M. Weaver, Russell Kirk, John H. Hallowell e Peter J. Stanlis producevano studi fondamentali attorno alla questione giusnaturale come fondamento del vero conservatorismo e di un’autentica filosofia politica, Strauss
pubblicò Diritto naturale e storia. Nel 1953. Lo stesso anno – sottolinea con passione oggi Giuliano Ferrara – in cui i professori Francis Crick e James Watson scoprivano il DNA, la natura biologicamente normativa della persona umana.
Ebbene, se invocando il natural right contro i “moderni” Strauss entrava di fatto, anche se dissimulatamente, in polemica con quel pensiero giudeo-cristiano che fu e sempre più diverrà il cuore del conservatorismo statunitense, non di meno quel giudeo-cristianesimo che nel tempo ha fornito le risposte più intelligenti alla domanda “cosa conservare” deve non poco di sé anche alla sfida lanciata dal paradosso straussiano.
Noi scommettiamo che è per motivi così che Giuliano Ferrara s’interessa a Leo Strauss e, per suo paradossale tramite, al conservatorismo d’Oltreoceano.
Marco Respinti
Versione completa e originale dell’articolo pubblicato con il titolo
Perché Leo Strauss è importante (e perché piace a Giuliano Ferrara)
in Il Domenicale. Settimanale di cultura, anno 4, n. 23, Milano 04-06-2005, p. 3
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.