Un po’ Gilbert Keith Chesterton (1874-1936) si sentiva vittoriano. Per questo il suo L’età vittoriana nella letteratura (Adelphi, pp. 212, € 14,00) è una specie di “libro delle confessioni”. L’impossibilità di sintetizzare un testo di apoftegmi e massime rafforza l’idea. L’incedere tumultuoso rievoca una passerella di celebrità: Jeremy Bentham e Thomas Hardy, Robert Browning e John Ruskin, le sorelle Brontë e Robert Louis Stevenson, William Morris e Matthew Arnold seguiti da decine di altri, su tutti svettando Charles Dickens. È critica letteraria fatta per ondate e piene che affolla la mente d’immagini disordinate e scomposte. Quando la quiete succede alla tempesta, la risacca lascia sul terreno alcuni concetti-chiave. Non necessariamente sincronici, ma utili a segnare punti fermi.
Il primo è un’idea tanto bizzarra quanto suggestiva: «[…] l’evento più importante della storia inglese fu un evento che non ebbe mai luogo: una Rivoluzione inglese sull’onda di quella francese». Per Ian Ker, estensore dell’autorevole G.K. Chesterton: A Biography (Oxford University Press 2011), è la frase più celebre di tutto questo libro. Probabilmente è la più ambigua, come lo fu l’ammirazione di Chesterton per la Rivoluzione Francese giacché la Rivoluzione Francese che egli lodava in nome della distribuzione democratica della proprietà non assomiglia in nulla a quella scoppiata nel 1789. Ebbene, la rivoluzione inglese che non avvenne nelle strade avvenne per Chesterton nelle lettere, con i vittoriani nella parte dei radicali scagliati contro gli oligopoli.
Il secondo punto fermo è il concetto di “compromesso vittoriano”, quel patto normalizzatore con cui le classi sociali pur tra loro in lotta scelsero di stendere sopra le piaghe della miseria materiale il velo illusorio di un’idea infinita e indefinita di progresso. The Victorian Age in Literature uscì nel 1913 (in italiano nel 1945 da Bompiani e nel 2013 per Fuorilinea di Monterotondo, in provincia di Roma). Si è dovuto aspettare il 2001 per disporre di un’analisi imprescindibile come Inventing the Victorians (St. Martin’s Press, New York) con cui Matthew Sweet ha avuto il coraggio di dirci che tutto quanto abbiamo sempre creduto di sapere sui vittoriani è semplicemente falso. Chissà come l’avrebbe presa Chesterton, spirito controcorrente per eccellenza.
Il terzo è l’età vittoriana intesa come guerra civile fra il pensiero utilitaristico-razionalista dominante e i suoi più acerrimi nemici: anzitutto il Movimento di Oxford e John Henry Newman, quindi Dickens e infine i nuovi protestanti romantici Thomas Carlyle, John Ruskin, Charles Kingsley, Frederick D. Maurice e forse anche Alfred Lord Tennyson.
L’ultimo punto è invece una profezia. Attorno al 1870, nel cuore del mondo vittoriano, Chesterton vede annullarsi a vicenda le due forze che si sono contese l’Occidente, il cristianesimo e la posterità del giacobinismo. Una civiltà giunta al capezzale delle proprie illusioni che annaspa e lotta senza sapere cosa ci sia dopo. Come oggi.
Marco Respinti
Versione originale dell’articolo pubblicato
con il medesimo titolo in Libero [Libero quotidiano],
anno LII, n. 89, Milano 31-03-2017, p. 24
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