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Dieci anni fa, il 5 giugno 2004, si spegneva a 93 anni Ronald Reagan, che (per le sfide senza precedenti che fronteggiò) diversi tra biografi, collaboratori e commentatori definiscono il più importante presidente degli Stati Uniti d’America. Molti sono i suoi gesti passati alla storia, gli aneddoti, persino le battute; ma due frasi ne catturano rotondamente lo spirito, condensandonel’eredità. La passione serena con cui il 12 luglio 1987 intimò alla Porta di Brandeburgo: «Signor Gorbačëv, abbatta questo muro!» e, a monte, la sua famosa denuncia dell’«impero del male».
Oggi sembra preistoria, ma allora l’incubo sovietico era concretissimo; e fu Reagan a dissolverlo, perseverando fedele a una precisa visione della realtà. Per lui, infatti, il senso della vita degli uomini è diventare ciò che Dio vorrebbe che ogni uomo diventasse; per questo è compito unico della politica garantire all’uomo la possibilità di scegliere: la libertà che realizza l’umanità o la spersonalizzazione che disumanizza. La libertà, cioè, o il comunismo; la libertà o lo statalismo; la libertà o l’esproprio fiscale; la libertà o la tirannia dei “pensieri deboli”.
Il momento della scelta (come suona il titolo di un suo noto discorso di allora) per Reagan venne nel 1964. Alle elezioni presidenziali di quell’anno, il 3 novembre, il senatore dell’Arizona Barry Goldwater (1909-1998) cercò di ribaltare una volta per tutte il tavolo della politica remissiva, piccina piccina, asfittica; quella che alla prepotenza sovietica sapeva opporre, in politica interna e in politica estera, soltanto una rosa di misure parasocialistiche incapaci di sfondare, che aveva smarrito il senso della nazione, che non avendo più memoria non sapeva immaginarsi il futuro. Lo fece lanciando una sfida fatta di princìpi non negoziabili e di libertà economica, cioè orgogliosamente conservatrice, e perse clamorosamente. Ebbe contro nemici implacabili, e subì pure il fuoco cosiddetto amico, ma a raccogliere il suo testimone, mentre molti già abbandonavano la barca, trovò quel giovane Reagan con Hollywood alle spalle e la politica nel cuore.
Ci vollero 16 lunghi anni di semina, predicazione e lavoro duro sul territorio, durante i quali l’ex giovane Reagan si affermò sul proscenio nazionale guidando uno degli Stati più popolosi, vasti e ricchi (e di media piuttosto progressisti) dell’Unione nordamericana, cioè la California. Ma alla fine il vecchio verbo goldwateriano, sconfitto eppure mai cancellato, sempre uguale e nondimeno rinnovato, trionfò alla Casa Bianca nel 1980 con un Reagan oramai maturo, primo presidente a non vergognarsi di essere conservatore. Né di pensare (sono tutte altre sue frasi famose) che lo Stato è spesso il problema e non la soluzione; che tutti quelli che vogliono l’aborto sono persone vive, vegete e già nate; che aumentare le tasse significa deprimere una nazione; che dimenticando Dio sopra il Paese finisce sotto; e che sì, il nemico sovietico si può anche battere.
Anche questa era una vecchia idea mutuata da Golwater, per la precisione dal suo libretto smilzo e sapido del 1963 intitolato Why Not Victory? Già, perché non vincere invece di scendere a patti? Per Reagan era giunto il momento di dispiegare con coraggio al mondo la propria filosofia di vita e di governo, mostrandone la bontà e l’efficacia. Il bene intrinseco nella libertà meritava la sconfitta dell’«impero del male».
Lo si ricorda poco, e forse nemmeno molti lo sanno, ma quella famosissima frase fu un’intuizione straordinaria. Era l’8 marzo 1983; parlando a Orlando, in Florida, d’un tratto Reagan abbandonò il testo scritto, cesellato diplomaticamente assieme ai suoi speech-writer, e a braccio forgiò quell’espressione epocale. Mezzo mondo raggelò, udendo già tintinnare le sciabole. Reagan, invece, viaggiava a un’altra dimensione; non iperuranica, ma più profonda. Usò quelle parole perché sapeva che l’uditorio, l’Associazione nazionale dei cristiani evangelical, era in grado di comprenderle appieno, in rappresentanza di un Paese intero, magari di tutto il “mondo libero”. Aveva appena finito di citare non un capo di Stato maggiore, non un boss del controspionaggio, non un esperto di missilistica, ma uno degli apologeti più amati dai cristiani di ogni razza, C.S. Lewis, quello delle Cronache di Narnia e de Le lettere di Berlicche. Poco dopo citò il “maestro dei conservatori” Whittaker Chambers (1901-1961), l’ex spia sovietica che, passato all’Occidente, aveva scatenato uno dei maggiori processi del secolo denunciando l’infiltrazione comunista nelle alte sfere di Washington, e lo citò là dove scrive «che la crisi del mondo occidentale esiste nella misura in cui l’Occidente è indifferente a Dio, nella misura in cui esso collabora al tentativo comunista d’isolare l’uomo privandolo di Dio». Come vincere la terza guerra mondiale, insomma, con genio e talento sia in casa sia in trasferta. Fantasia al potere; o, come diceva il padre dei conservatori, Edmund Burke (1729-1797), immaginazione morale. Con la stessa fermezza con cui spinse l’Unione Sovietica all’implosione, nel 1981 Reagan aveva già ridotto, come mai nessuno nella storia americana, quella micidiale pressione fiscale che nelle democrazie è lo strumento principe dell’«impero del male». Era un cow-boy, Reagan, e non ha mai sbagliato un colpo.
Marco Respinti
Pubblicato con il titolo Reagan contro tasse e impero del male.
Il cowboy che non sbagliava un colpo
in Libero quotidiano [Libero], anno XLIX, n. 131, Milano 4-06-2014, p. 28
Una delle figure meno appariscenti e “pubbliche” (nel senso mass-mediatico delle due espressioni), ma certamente più profonde, influenti, significative e determinanti di quella che gli storici del conservatorismo statunitense definiscono “Old Right” postbellica è certamente stato Henry Regnery (1912-1996).
Nato a Hinsdale, nell’Illinois, si diploma in Matematica al Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston nel 1934 e in Economia nel 1938 all’Università Harvard di Cambridge, nel Massachusetts. Fra il 1934 e il 1936, studia in Germania, all’Università di Bonn. Ma la sua vera vocazione è quella della scrittura e dell’editoria, ed è con queste che Regnery offre un contributo imprescindibile alla cultura conservatrice certo non solo americana. Nel 1947 fonda la “Henry Regnery Company”, poi divenuta “Regnery”, quindi “Regnery-Gateway” e infine “Regnery Publishing, Inc.”, una divisione dell’“Eagle Publishing”, man mano che l’etichetta si è negli anni spostata da Chicago a South Bend nell’Indiana e da ultimo a Washington. Con essa Regnery pubblica alcune delle pietre miliari del conservatorismo nordamericano, fra cui senz’altro God and Man at Yale (1951) di William F. Buckley, Jr. (1925-2008) [linkare a: http://www.lanuovabq.it/it/archivioStoricoArticolo-william-buckley-il-demiurgo-dei-conservatori-4697.htm%5D e The Conservative Mind: From Burke to Santayana (1953) di Russell Kirk (1918-1994) [linkare a: http://www.comunitambrosiana.org/index.php/rubriche/usa-e-non-getta/513-il-lascito-di-russell-kirk-a-vent-anni-dalla-scomparsa%5D, oltre a opere importantissime di James Burnham (1905-1987), John Dos Passos (1896-1970), Wilmoore Kendall (1909-1968), James Jackson Kilpatrick (1920-2010), Frank S. Meyer (1909-1972), Felix Morley (1894-1982), Albert J. Nock (1870-1945), Eliseo Vivas (1901-1993) e Richard M. Weaver (1910-1963), ovvero la crème della “vecchia guardia” del conservatorismo classico, ma anche testi di autori europei di prima grandezza. Il suo fiuto (peraltro “isolazionista”) di talent scout ha infatti il merito storico di aver fatto conoscere all’America Settentrionale rigorosamente monolingue autori come Konrad Adenauer (1876-1967), Raymond Aron (1905-1983), Max Picard (1888-1965), Ernst Jünger (1895-1998), Wilhelm Röpke (1899-1966) ed Eric Voegelin (1901-1985), e di aver dato spazio a firme come quelle di Roy Campbell (1901-1957), Ezra Pound (1885-1972) e Wyndham Lewis (1882-1957).
È però alla coraggiosa pubblicazione di testi controcorrente sulla Seconda guerra mondiale (1939-1945) e sul socialcomunismo che Regnery deve la propria fama: per esempio, le opere di Charles C. Tansill (1890-1964), George N. Crocker (1906-1970) e William Henry Chamberlin (1897-1969), nonché l’imprescindibile Witness (1952) di Whittaker Chambers (1901-1961) [linkare a: http://www.comunitambrosiana.org/index.php/rubriche/usa-e-non-getta/486-contro-rivoluzione-a-stelle-e-strisce?highlight=WyJ3aGl0dGFrZXIiXQ==%5D, ovvero una “testimonianza partecipativa” dell’infiltrazione comunista nelle massime sfere della politica statunitense. All’entusiastico sostegno di Regnery si deve inoltre la realizzazione del progetto elaborato dallo storico delle idee Russell Kirk per dare vita a un periodico culturale che fosse ricettacolo e veicolo delle idee della Destra tradizionalista. La pubblicazione, a cadenza trimestrale, che inizialmente avrebbe dovuto chiamarsi The Conservative Review, esce per la prima volta nel 1957 con il titolo (non esente da ironia) Modern Age: oggi Modern Age: A Quarterly Review è considerato il miglior periodico della Destra culturale statunitense.
La felicità compositiva di Regnery ‒ grande amante di Wolfgang Johann Goethe (1749-1832) e della musica classica (suonava il violoncello) ‒ è testimoniata dai suoi libri, a cominciare dall’autobiografia Memoirs of a Dissident Publisher (1979) per arrivare a The Cliff Dwellers: The History of a Chicago Institution (1990) e Creative Chicago: From the Chap-Book to the University (con una introduzione di Joseph Epstein, 1993), nonché dalle due raccolte postume di saggi, una del 1996, A Few Reasonable World: Selected Writings (con una introduzione di George A. Panichas [1930-2010]) e l’altra del 1999, Perfect Sowing (a cura e con una introduzione di Jeffrey O. Nelson).
I libri di Regnery rappresentano esattamente quei “libri di libri” di cui parlava lo scrittore argentino Jorge Louis Borges (1899-1986) e anche “libri di scrittori”, fitti come sono di pagine ricolme di ricordi, bozzetti, ritratti e profili inanellati in maniera affatto intellettualisticamente erudita (come a dar sfoggio di un sapere enciclopedico fine a se stesso), ma sempre precisamente riferiti a un contesto, a una situazione e soprattutto a persone incontrate, per esempio Winston Churchill (1874-1965), Hermann Schnitzler (1905-1976), Richard Strauss (1864-1949), Thomas Stearns Eliot (1888-1965), Pound, Wyndham Lewis, George F. Kennan (1904-2005) e Aleksandr I. Solzenicyn (1918-2008). Con i preziosissimi ricordi raccolti nei libri di Regnery, gli storici della mentalità e del costume hanno a disposizione un fecondissimo archivio con cui ricostruire — attraverso le testimonianze impagabili offerte da uno dei suoi maggiori protagonisti — la temperie culturale, la visione del mondo e l’autocoscienza di un movimento di pensiero importantissimo.
Uomo del Midwest ‒ di cui conservava e coltivava tutte le caratteristiche umane e culturali ‒, Regnery non fu cattolico. Ma si segnalò come grande editore di opere cattoliche, convinto com’era del debito di civiltà che l’Occidente tutto deve alla Chiesa universale di Roma. Fece tradurre e pubblicare Louis Bouyer (1913-2004), Paul Claudel (1868-1955), Jean Daniélou (1905-1974), Gertrud von Le Fort (1876-1971), Gabriel Marcel (1889-1973), Edith Stein (1891-1942), opere di santi e di Padri della Chiesa, e perfino otto volumi di Romano Guardini (1885-1968) ‒ fra cui Il Signore (1937) ‒ e tre di san Tommaso d’Aquino. Insomma, un vero dissidente della Modernità.
Marco Respinti
Ultima opera dello scienziato e filosofo della politica statunitense (ma oriundo tedesco) Gerhart Niemeyer (1907-1997), Within and Above Ourselves: Essays of Political Analysis è stato pubblicato (Intercollegiate Studies Institute, Wilmington [Delaware]) nel 1996 con introduzione di Marion Montgomery (1934-2002), uno dei grandi letterati “sudisti” del Novecento, studioso raffinato di Eric Voegelin (1901-1985), Flannery O’Connor (1925-1964), T.S. Eliot (1888-1965), Aleksandr Solzenycn (1918-2008). Lo stesso Niemeyer è stato allievo diretto, e quindi interprete attento, di Voegelin.
Quel suo ultimo libro annuncia sin dal titolo le cifre del pensiero del beato Giovanni di Ruysbroeck (1293-1381), mistico fiammingo del secolo XIV secolo di cui Niemeyer scelse parole a prima vista strane per battezzare un volume di analisi politica. “Dentro e sopra di noi”: queste, secondo Niemeyer, sono infatti le coordinate della vera filosofia politica intesa come ratio dell’organizzazione della civitas humana (per dirla con l’“economista dal volto umano” Wilhelm Röpke [1899-1966]). “Dentro di noi”, perché la politica è morale sociale e perché la civiltà si regge sull’intima connessione (non identità stretta) fra ordine interiore e ordine della res publica. “Sopra di noi”, perché l’ordine temporale è preceduto da un ordine spirituale che il primo può assecondare o contestare in radice, originando quindi da una la filosofia conservatrice e dall’altro l’opzione rivoluzionaria, ma mai ignorare.
Niemeyer si riconosceva nella prima, conosciuta, studiata e apprezzata negli Stati Uniti d’America (dove emigrò all’avvento del Terzo Reich). Il suo debito nei confronti di Voegelin è dichiarato. Niemeyer ‒ che a quasi novant’anni si mise a studiare la lingua italiana a Parma, riuscendo in tempo piuttosto breve a padroneggiarla discretamente ‒ è infatti stato uno dei massimi interpreti, analizzatori e continuatori delle speculazioni del grande studioso dello gnosticismo moderno, ai cui insegnamenti egli ha pure saputo unire le sapide lezioni desunte dalla filosofia classica e medioevale, dalla tradizione costituzionale britannica, dal pensiero del citato Solzenicyn e da quello di Albert Camus (1913-1960).
Within and Above Ourselves è una densa e significativa raccolta di saggi che si divide nelle quattro parti in cui la lettura niemeyeriana dell’indagine voegeliniana articola la “distinzione nell’unito” della vera filosofia. La prima prende in considerazione la natura, la storia, la fede e i rapporti che legano fra loro queste diverse realtà; la seconda indaga il quadrinomio Dio e uomo, mondo e società; la terza s’incentra sulle credenze dell’uomo e sulle strutture del suo vivere comunitario; la quarta s’interroga sulla pluralità delle culture e delle ideologie umane, nonché ‒ specularmente ‒ sulle concezioni di ordine che alla disgregazione del relativismo si oppongono con forza. Un vero testamento.
Niemeyer ha svolto per anni attività di analista politico per una serie d’istituzioni private e di organismi ufficiali del governo statunitense, scandagliando nei minimi particolari la mentalità dell’agire comunista ‒ sovietico in particolare ‒ per discernere con chiarezza nell’oscurità delle sue pieghe e dei suoi anfratti quel seme ideologico distintivo che ha fatto del marxismo-leninismo il vertice della Modernità politica. È certamente a uomini come lui che si deve l’atteggiamento “maccartista” e “goldwateriano” di una certa parte degli Stati Uniti ‒ e delle loro Amministrazioni politiche ‒, decisi a non fermarsi al contenimento del nemico sovietico, ma a puntare al suo completo annientamento militare ed economico in quanto (come dirà Ronald W. Reagan [1911-2004] negli anni 1980) «impero del male».
Alle analisi del comunismo «intrinsecamente perverso» (per riprendere una famosa espressione di Papa Pio XI [1857-1939 nell’enciclica Divini Redemptoris, del 1937]), Niemeyer ha dedicato volumi, tempo, sudore e passione nemmeno sognate dalle derisioni della “sindrome di Rambo” nordamericana in cui un po’ tutti, prima o dopo, cadiamo. Per lo studioso tedesco-americano, infatti, la base ultima e fondante della guerra senza quartiere in cui necessariamente l’Occidente doveva impegnarsi contro l’Est è stata di natura etica, filosofica e addirittura teologica. Una sorta di guerra di religione. Dicendo che il “maccartismo” e il “goldwaterismo” sono stati tagliati dal tessuto niemeyeriano non si getta affatto discredito su un pensatore di alto rango quale è stato l’autore di Within and Above Ourselves, ma si conferisce dignità nuova a due fenomeni ‒ epifanie di una “fede” certa ‒ tanto importanti quanto travisati. In Niemeyer, l’intransigenza dell’analisi filosofica si accompagnava a una dolcezza di animo davvero singolare.
Un provincialismo culturale di antica origine ideologica ha per decenni permesso che autori e commentatori di prima grandezza come Gerhart Niemeyer scomparissero senza quasi batter colpo nel nostro Paese. Filosofo dell’Essere e dell’Ordine dalla straordinaria fecondità intellettuale, lo studioso tedesco-americano meriterebbe davvero ‒ anche post mortem ‒ di entrare in dialogo con certi stantii intellettuali di professione di casa nostra.
Niemeyer era un gran cultore dell’opera dello scrittore, critico letterario e apologeta irlandese anglicano C.S. Lewis (1898-1963). Negli Stati Uniti, Niemeyer riscoprì (dopo un abbaglio “socialistico” di gioventù) la fede cristiana e la prese tanto sul serio da diventare diacono (sposato, con figli) della Chiesa episcopaliana. Ricordo ancora benissimo la sera in cui, in un ristorante di cucina tradizionale lombarda, nel cuore della mia Milano, città in cui si trovava per conferenze, Niemeyer mi comunicò, con le gote un poco arrossate, di essersi convertito al cattolicesimo. Aveva 86 anni. Brindammo con dell’ottimo vino.
Marco Respinti
Non sono una couple (coppia) bensì una “throuple” (intraducibile) perché sono tre. Tutte donne, ovviamente lesbiche, “sposate”. Fra loro. Si chiamano Doll, Kitten e Brynn; 30 anni la prima, 27 la seconda, 34 la terza. Di cognome fanno tutte Young, visto che sono una “famiglia”. E visto che sono una “famiglia”, adesso aspettano pure un figlio. Delle tre, quella incinta è Kitten, e lo è per essersi sottoposta a fecondazione eterologa mediante inseminazione da un donatore anonimo. Il parto è previsto a luglio. Ma siccome nel trio vige il femminismo e l’egualitarismo più assoluto, i piani per il futuro contemplano altra prole, fino a un totale di tre. Un figlio per ciascuna. Ci scherzano sopra dicendo che il numero dei loro eredi non dovrà mai superare quello dei “genitori”. Una delle idee cui stanno pensando è che sia comunque sempre Kitten, anche in futuro, a condurre le gravidanze, usando cellule uovo prelevate dalle sue due “mogli” da unire ad altro seme maschile anonimo; assicurano però che sono al vaglio pure altre soluzioni. Della “famiglia” Young circola in rete anche un video. È il primo caso al mondo di poligamia di fatto legalizzata in uno Stato di diritto occidentale.
Accade infatti nel Massachusetts, e il ménage delle tre è scrupolosamente sorvegliato da un avvocato, specializzato in diritto di famiglia… Brynn e Kitten sono “sposate”, “regolarmente” secondo quanto consente la legge del Massachusetts, il primo Stato dell’Unione americana ad avere approvato, il 17 maggio 2004, le “nozze” fra persone dello stesso sesso. Doll è contemporaneamente unita a loro attraverso l’altrettanto lì legale handfasting (letteralmente “legare le mani”), un rituale “neopagano” riconosciuto civilmente in diversi Paesi del mondo e di cui sul web girano diversi “manuali”.
L’aggettivo “neopagano” fa però riferimento alla neostregoneria odierna della famosa Wicca, influenzata da certo New Age, e non a un ricupero archeologico di usanze precristiane. Quando il vero handfasting si diffuse nelle isole britanniche, il paganesimo era già tramontato e la cerimonia pienamente cristiana, restando ovviamente cristiana sino all’epoca moderna allorché cadde in disuso. Si trattava di una promessa solenne di matrimonio introdotta per impegnare stabilmente le coppie in un tempo e in luoghi in cui occorreva aspettare molto prima di disporre di un sacerdote. Poi si trasformò in un equivalente del fidanzamento attuale e talora ‒ per esempio in Scozia ‒ venne a coincidere con la nozze stesse (lo mostra l’inizio del film Braveheart, diretto e interpretato da Mel Gibson nel 1995). È dunque solo nell’invenzione Wicca che la pratica diviene sinonimo di “unione nuziale” non cristiana, intenzionalmente alternativa al sacramento amministrato dalla Chiesa, dunque utilizzato proprio per “sdoganare” facilmente unioni omosessuali e poligamiche. Del resto, non è affatto necessario essere “credenti” Wicca per chiedere un handfasting “neopagano”. Un certo successo pop l’handfasting lo ha avuto nel 1991 con il film The Doors di Oliver Stone, dove viene ricostruita la cerimonia con cui, nel 1970, il cantante e leader di quel gruppo rock, Jim Morrison (1943-1971), si legò alla giornalista Patricia Kennealy, che nel film recita interpreta la sacerdotessa Wicca allora officiante.
Il rituale dell’handfasting ha infatti il vantaggio di non essere esclusivo e quindi di poter essere associato, in contemporanea, a qualunque altra cerimonia nuziale (a patto di trovare un officiante che sia disposto a farlo), per esempio i “matrimoni” omosessuali riconosciuti dalla legge del Massachusetts. Non è infatti la concomitanza dei due rito a determinare la legalità e meno di nozze o “matrimoni” omosessuali di per sé riconosciuti dalla legge. Come dice la “famiglia” Young, «abbiamo […] dovuto lavorare con le provvisioni legali dello Stato. Siccome essere sposati a più di una persona non è ancora legale, abbiamo dovuto combinare l’handfasting, certi documenti giuridicamente vincolanti e il matrimonio riconosciuto dalla legge onde ottenere un assetto finale in cui tutte e tre ci sentissimo uguali». Insomma, tanto pariteticamente sposate l’una all’altra quanto è legalmente possibile. Tra l’altro, dal dicembre 2013 negli Stati Uniti la poligamia è considerata legale per effetto di una sentenza di un tribunale federale dello Stato dello Utah che dunque costituisce un precedente giurisprudenziale valido su tutto il territorio nazionale. L’unico limite è che le cerimonie religiose poligame non hanno (per ora) valore civile, ma la loro celebrazione e la coabitazione fra gli “sposati” sono legali.
Del resto, proprio alla liberalizzazione totale della poligamia mirano le tre donne. Brynn e Doll sottolineano infatti di avere avuto relazioni omosessuali “plurali” sin dai tempi del liceo e quindi di avere positivamente cercato una terza partner stabile una volta deciso per le “nozze”. Il termine tecnico è il neologismo “poliamore”, vale a dire l’avere contemporaneamente più relazioni affettive e/o sessuali (attenzione, perché adesso viene il “bello”…) “oneste” e condotte “in modo etico”. Kitten e Doll si dichiarono “pagane”. Brynn, che si dice agnostica e che ha due “matrimoni” lesbici falliti alle spalle, dice di avere capito che la monogamia non fa per lei e sostiene che «noi tre siamo state tanto coraggiose da sostenere la nostra scelta andando contro ciò che la società chiama normale […] Forse Doll, Kitten e io non siamo la norma, ma siamo perfettamente normali».
Le tre si sono “sposate” a Lincoln, Massachusetts, il 4 agosto 2013, davanti a un celebrante “pagano” con in tasca un permesso giornaliero emesso da un giudice di pace. Si sono presentate tutte e tre con l’abito bianco, tutte e tre sono state accompagnate all’“altare” dai propri padri, la loro torta “nuziale” scintillava nei colori dell’arcobaleno simbolo del mondo LGBT e al momento fatidico si sono scambiate “fedi” alla moda. Giurano che una quarta “moglie” non ci sarà. Ogni altro commento è davvero superfluo. Resta solo lo spazio di un pensiero accorato per la creatura che Kitten porta in grembo.
Marco Respinti
Pubblicato con il titolo Throuple, la poligamia è ammessa se lesbica
in La nuova Bussola Quotidiana, Milano 09-05-2014
Vent’anni fa, il 29 aprile 1994, scompariva a 75 anni Russell Kirk, il padre della rinascita del pensiero conservatore che, dalla metà del secolo XX, ha segnato indelebilmente gli Stati Uniti d’America.
Nato nel 1918 a Plymouth, vicino a Detroit, in una famiglia di remote origini scozzesi e di netta impronta puritana, allievo, amico e biografo del poeta T.S. Eliot, di formazione letteraria e storica, Kirk sale alla ribalta nel 1953, pubblicando The Conservative Mind: From Burke to Santayana ‒ poi ampliato in From Burke to Eliot ‒, la “bibbia” del conservatorismo. Al tempo “conservatore” era pressoché una parolaccia, ma Kirk cambiò davvero il corso degli eventi. Stilando una genealogia del tutto originale ma altamente significativa dell’identità culturale nordamericana, lo studioso propone infatti un viaggio lungo due secoli alla riscoperta degli “spiriti magni” che, sulle due sponde dell’Atlantico, hanno reso feconda l’eredità intellettuale del pensatore angloirlandese Edmund Burke (17129-1797). Vale a dire la prima e seminale opposizione netta e cosciente al mondo delle ideologie nato dalla Rivoluzione Francese (1789-1799).
Grazie a Kirk esplode dunque una vera e propria “Burke Renaissance”, che resta ancora il tratto distintivo dell’autentico conservatorismo “tradizionalista” americano, incentrato sul concetto di “libertà ordinata” e sulla difesa del diritto naturale, e quindi rielaborato in una strategia anti-ideologica da opporre al “pensiero unico” dapprima comunista, poi liberal, infine relativista.
Così, mentre negli USA si sviluppa un movimento di popolo alternativo al pensiero progressista dominante capace d’influenzare sempre più anche la politica, e questo a partire dalle elezioni presidenziali del 1964 che il senatore Barry Goldwater (1909-1998) perse trasformando però in maniera incontrovertibile il Partito Repubblicano in una formazione di destra, Kirk non smette di approfondirne filosofica del conservatorismo. Anzitutto, Kirk rovescia su se stessa l’idea corrente sulla “rivoluzione americana”, scoppiata in realtà per conservare e non per sovvertire, riscoprendo il diplomatico Friedrich von Gentz (1764-1832) (prussiano di nascita, asburgico di vocazione) e ponendolo virtuosamente la riflessione accanto al pensiero dei Padri fondatori degli USA (molto citati e poco compresi). Poi, senza mai operare sconti indebiti o negazionismi ipocriti, contribuisce a lenire le ferite lasciate dalla Guerra Civile (1861-1865) ricuperando il pensiero politico dell’aristocrazia “sudista” rappresentata da John Randolph di Roanoke (1773-1833) e da John C. Calhoun (1782-1850). Quindi, rilanciando le meditazioni del cattolico Orestes A. Brownson (1803-1876) sulla natura originaria della nazione americana, segna la rotta per comprendere finalmente sul serio gli Stati Uniti, ossia il Paese più invadente ma meno davvero conosciuto del mondo. E con Le radici dell’ordine americano. La tradizione europea nei valori del Nuovo Mondo (1974), tradotto in italiano nel 1996, aggancia gli USA all’Occidente di matrice greca, romana, giudeo-cristiana e medioevale.
Convertitosi al cattolicesimo nel 1964, sposatosi nello stesso anno e padre di quattro figlie, consigliere informale di un paio di presidente americani, Kirk primeggia al fianco di pensatori come Eric Voegelin, Christopher Dawson e C.S. Lewis. Si sentiva un cavaliere, e nel villaggio di Mecosta fra i boschi del Michigan dove ha speso tutta la vita (450 anime all’ultimo censimento) era contagioso. Impegnato a “riscoprire” una tradizione (ma anche a seminare conifere, pagaiare lungo ruscelli, raccontare leggende a lume di candela fra sherry e sigari) ha generato la comunità umana protagonista dell’autobiografia The Sword of Imagination: Memoirs of a Half-Century of Literary Conflict (1995). Si sentiva come Elrond Mezzelfo ne Il Signore degli Anelli, castellano dell’ultima resistenza al male. Alcune delle più belle ghost-story del Novecento sono sue. Un solo uomo non può cambiare la coscienza di una nazione; Russell Kirk c’è andato vicino.
Marco Respinti
Versione originale e completa dell’articolo
Elogio del politologo Russell Kirk, il cavaliere che riscoprì Burke e rese orgogliosi i conservatori,
in Libero [Libero quotidiano], anno XLIX, n. 104, 03-05-2014, p. 31
Il 4 marzo 1987, durante la seconda Amministrazione del presidente Ronald Reagan (1911-2004), nella cittadina di Mobile, il presidente della Corte distrettuale degli Stati Uniti d’America per il Distretto Meridionale dell’Alabama, giudice W. Brevard Hand (1924-2008), concludeva il cosiddetto “caso dei libri di testo” − “Douglas T. Smith et alii v. Board of School Commissioners of Mobile County”, contraddistinto dalla sigla 827 F.2d 684 (11th Cir. 1987) ‒ con una sentenza straordinaria e memorabile.
La Corte da lui presieduta stabiliva infatti che l’adozione, nelle scuole pubbliche di quello Stato, di un determinato set di libri di testo ‒ di storia, scienze sociali ed economia domestica ‒, decisa in precedenza dalle autorità dell’Alabama, violava palesemente la prima clausola del Primo Emendamento alla Costituzione federale degli Stati Uniti d’America la quale impedisce al Congresso ‒ l’organo legislativo del Paese nordamericano ‒ di erigere una determinata confessione a religione di Stato. Quei libri di testo, infatti, imponevano rigidamente e inappellabilmente la visione propria all’“umanesimo secolare” ‒ in inglese, secolar humanism ‒, ossia né più né meno di ciò che alle nostre latitudini chiameremmo “laicismo”.
I genitori che avevano portato il caso fino in tribunale avevano insomma ragione. I libri di testo incriminati non potevano affatto essere adottati. La ratio del dibattimento processuale e della decisione finale si fondava del resto su una tesi precisa: il laicismo è una religione ‒ una “religione capovolta”, una «religione politica»direbbe il filosofo tedesco-americano Eric Voegelin (1901-1985) ‒ e quindi la sua imposizione ai cittadini americani da parte delle istituzioni è contraria alla legge fondamentale del Paese.
Tutta la documentazione riguardante quel famoso caso di Mobile è stata poi raccolta in un importante volumetto, pubblicato del 1987 e intitolato American Education on Trial: Is Secular Humanism a Religion? The Opinion of Judge W. Brevard Hand in the Alabama Textbook Case (Center for Judicial Studies, Cumberland, Virginia-Washington 1987), forte di una preziosa introduzione di Richard John Neuhaus (1936-2009), il “ratzingeriano d’America” che all’epoca era ancora ministro di culto luterano (al cattolicesimo si convertirà nel 1990). Durante il dibattimento venne ascoltata l’expertise offerta dallo storico delle idee nordamericano Russell Kirk (19181-1994), teste della Corte. La sua ricostruzione dell’“umanesimo secolare”, dal pedagogo John Dewey (1859-1952) in poi, e quindi la sua diagnosi di quel fenomeno culturale secondo categorie voegeliniane, hanno in quell’occasione tracciato il profilo di una vera e propria “religione secolare”, gnostica nelle caratteristiche e improntata a un materialismo d’ispirazione razionalistico-massonicheggiante piuttosto dozzinale, che resta ancora uno dei vertici del contributo al dibattito serio delle idee offerto dal conservatorismo statunitense.
Il giudice Hand affrontò dunque quel caso giudiziario sostenendo proprio ‒ in modo kirkiano, dunque in modo voegeliniano ‒ che una religione è precisamente un “sistema” di credenze e di pratiche nell’ambito del quale i credenti professano dottrine precise sulla natura e sul destino del genere umano, sul ruolo che gli uomini hanno nel cosmo e sulle loro relazioni morali; che una religione contempla l’idea di un’autorità; e che essa dà origine a un corpus di testi e di tradizioni miranti alla giustificazione, alla spiegazione e alla definizione della dottrina. Le prove esaminate e le testimonianze ascoltate nel dibattimento di Mobile permisero dunque di stabilire che il laicismo proposto dai libri di testo sottoposti a giudizio difendeva una vera e propria “visione del mondo”, dunque che tendenzialmente aspirava a esaurire quella vasta gamma di “domande dell’uomo” che, per utilizzare il linguaggio filosofico-teologico del giudeo-cristianesimo, vanno dai preambula fidei ai novissimi. La sentenza del giudice Hand rilevò, cioè, che di fatto la religione può essere surrogata da un’ideologia intesa come “religione immanente”, la quale si pretende esauriente tanto quanto la religione rivelata anche se lo fa con modalità illegittime giacché lesive dei “diritti di Dio”.
Formalmente e sostanzialmente, l’imposizione di una “religione laica” mediante un’azione ideologica svolta dell’autorità pubblica viola insomma il dettato della Costituzione federale statunitense: il giudice Hand ha dunque impugnato il famoso ma inesistente “muro di separazione” americano fra Chiesa e Stato per sconfiggere il laicismo statalista ai danni dei credenti.
Marco Respinti
La chiesa del politicamente corretto ha canonizzato Nelson Mandela (1918-2013) già da vivo, puntando tutto sulla memoria corta del conformismo dominante; ma, si sa, le bugie hanno le gambe corte. A strappare indignati l’aureola speciosa che cinge la testa del leader sudafricano sono Giuseppe Brienza, Roberto Cavallo e Omar Ebrahime nel volume Mandela, l’apartheid e il nuovo Sudafrica. Ombre e luci su una storia tutta da scrivere (D’Ettoris, Crotone, pp.140, €12,90), prefato da Rino Cammilleri.
Liberato nel 1990 dopo 26 anni e mezzo di carcere, insignito del Premio Nobel per la Pace nel 1993 ed eletto nel 1994 presidente del nuovo Sudafrica post-apartheid, Mandela detto “Madiba” aveva infatti un pelo sullo stomaco lungo così. In carcere ci finì per terrorismo, legato com’era al Partito Comunista Sudafricano, bombarolo, e al suo leader, bianco, Yossel Mashel “Joe” Slovo. Presidente dell’African National Congress e fondatore del suo braccio armato, Mandela teorizzò la lotta di classe armata scrivendo cosucce tipo Come essere un buon comunista. I neri, infatti, li difendeva solo se erano rossi, e la lotta all’apartheid era un mero pretesto: «Il bianco», dichiarò a La Stampa il 23 agosto 1985, «deve essere completamente vinto e spazzato dalla faccia della terra prima di realizzare il mondo comunista». Attorno ebbe sempre un codazzo di estremisti, fra cui la prima moglie Winnie (ripudiata dopo la scarcerazione) che la giornalista Laurell Boyers (erede delle battaglie di Mandela) ricorda «come una volgare criminale», dedita solo a «una sequela di atrocità».
Da libero Mandela ha tifato per Saddam Hussein, stringendo amicizia con Yasser Arafat, Fidel Castro, Muhammar Gheddafi e Robert Mugabe. La nuova costituzione da lui varata nel 1996 estende come non mai l’aborto a richiesta, e fa del Sudafrica il primo e sinora l’unico Paese ad avere legalizzato le “nozze” gay.
E quando scoppiò truce la peste dell’aids, Mandela guardò altrove. Il primo caso registrato nel Paese è del 1982, e per Mandela e soci è sempre stato facile incolpare del cronico ritardo nel farvi fronte i segregazionisti incuranti dei neri, ma le realtà è ben diversa. L’aids s’impennò infatti proprio nel Sudafrica post-apartheid, quando la nuova libertà trasformò il Paese in un vero e proprio bordello a cielo aperto, e le grandi città divennero le capitali dello stupro soprattutto perché fra i neri si diffuse la credenza che il violentare una vergine li avrebbe guariti dal male. Il buon Mandela, allora, tetragono alfiere dell’antioccidentalismo, gran nemico degli organismi sovranazionali e torvo culture della teoria del complotto, accusò la CIA di cospirare con le case farmaceutiche per propagare l’idea che l’HIV fosse la causa dell’AIDS e spingere così la gente a farsi schiava dei costosi farmaci antiretrovirali mentre i suoi concittadini (fra cui uno dei suoi figli, nel 2005) morivano come mosche.
No, la faccia vera di Mandela non è quel santino che ancora gira come una madonna pellegrina.
Marco Respinti
Versione originale e completa dell’articolo pubblicato con il tittolo
Il lato oscuro del santificato Mandela, teorico delal violenza e amico dei tiranni
in Libero [Libero quotidiano], anno XLIX, n. 101, Milano 29-04-2014, p. 33
Il logos si è fatto carne, dice il Vangelo secondo san Giovanni. E quindi anche il mito è divenuto un fatto, glossa C.S. Lewis (1898-1963) in un breve, densissimo saggio del 1944, Myth Became Fact (1), che spiega perfettamente cosa intendesse J.R.R. Tolkien (1892-1973) affermando: «Dio è il Signore, degli angeli, e degli uomini – e degli elfi. […] L’Evangelium non ha abrogato le leggende; le ha santificate, specialmente nel “lieto fine”» (Sulle fiabe, 1939) (2); cosa intendesse Gilbert K. Chesterton (1874-1936) ‒ maestro di Lewis e di Tolkien ‒ parlando di “etica del paese delle fate” e addirittura paragonando il Magnificat alla fiaba di Cenerentola (Ortodossia, 1908) (3); e cosa intendessero Chesterton e Lewis con “sacramentalizzazione dell’immaginazione” a proposito di George MacDonald (1824-1905), maestro loro e pure di Tolkien.
Ne tratta dottamente, proprio ragionando degli autori citati, il cardinal Christoph Schönborn ne Il Mistero dell’Incarnazione (Piemme, Milano 1989) (4), un “vecchio”, prezioso libro tradotto dal tedesco dal padre gesuita Guido Sommavilla (1920-2007), massimo esperto di Romano Guardini, Franz Kafka, Friedrich Nietzche, Fëdor M. Dostoevskij e guarda caso proprio Tolkien, quasi anticipando una sensibilità teologica, nutrita di potenti suggestioni letterarie, popolare oggi con Papa Francesco. Ebbene, uno degli ultimi epigoni di questo sposalizio tra filosofia e fantasia celebrato secondo il rito di santa romana Chiesa è il pensatore statunitense Russell Kirk (1918-1994), di cui ricorre oggi, 29 aprile, il ventennale della scomparsa.
Kirk è noto soprattutto come “padre” del conservatorismo americano del secondo Novecento, come neo-giusnaturalista cristiano alla scuola di Edmund Burke (1729-1797) e come apologeta antigiacobino della storia istituzionale americana. Ma nulla di tutta la sua riflessione “politica” (30 volumi, centinaia fra saggi e articoli) sarebbe venuto alla luce se egli non avesse sempre coltivato, con timore e tremore, il senso del mistero insito nella realtà umana.
Kirk è stato infatti anzitutto un cantore dell’irriducibilità dell’esperienza umana alla semplice materia (una delle sue citazioni preferite è di Burke, là dove lo statista angloirlandese descriveva così la spaccatura epocale introdotta dalla Rivoluzione Francese: «Ma l’era della cavalleria è finita. Le è succeduta quella dei sofisti, degli economisti e dei calcolatori, e la gloria d’Europa è estinta per sempre» (5)), e proprio per questo un avversario lucido delle ideologie e delle ideocrazie.
Per Kirk la stoffa dell’avventura umana è il legame con il trascendente che la definisce e il bisogno religioso che la costituisce, da cui derivano quel senso del limite e quella vocazione comunitaria che sono le uniche coordinate di una politica a misura di uomo, e possibilmente, direbbe san Giovanni Paolo II (a cui, in punto di morte, è andato l’ultimo pensiero di Kirk), secondo il piano di Dio. Per questo il pensatore americano sospettava di tutte quelle ciclopiche costruzioni umane, fisiche e metafisiche, che altro non sono se non ennesime Babeli; come Chesterton, Kirk aveva imparato dalle metafore delle favole che i giganti vanno abbattuti proprio perché sono giganteschi, monumenti vani alla smisuratezza dell’orgoglio umano.
La famiglia in cui nacque aveva educato Kirk a una morale rigida e spartana, erede di un retaggio calvinista che strada facendo aveva però perso i tratti della vera spiritualità riducendosi a un codice. Efficace, ma estremamente limitato. Costretto a lungo alla solitudine, Kirk prese allora a confrontarsi con quei campioni dell’umano sentire che prima di lui, e meglio di lui, si erano trovati ad affrontare le stranezze, le difficoltà e le domande dell’esistenza. Maturò dunque dialogando con autori che nessuno leggeva più: Kirk l’ha definita una “conversione intellettuale”, ma è strano perché quell’etichetta lo irritava. Voleva solo dire che nessun fatto eclatante gli stravolse un giorno la vita; ma anche qui, intendiamoci. Le molte narrazioni della sua storia personale (scritte come romanzi non romanzati) mostrano bene come la “normalità” della sua vita sia sempre stata “straordinaria”. Come le vite di tutti. Come in una favola, una fiaba o un mito (direbbe il Tolkien che Kirk molto amava) che per di più hanno il supremo vantaggio di essere accaduti sul serio.
Kirk ha affrontato de visu il mistero dell’esistenza umana anzitutto come cantore dell’avventura “mitica” dell’uomo di fronte all’Assoluto (componendo così anche storie di paura e thriller metafisici tra i più belli di questo genere letterario) e in questo modo ha imparato l’umile saggezza di farsi seguace di chi, più avanti di lui lungo questo cammino, lo ha saputo trarre per mano dal mito alla storia. Due nomi su tutti, appositamente diversissimi: il “grande” T.S. Eliot (1898-1965) ‒ di cui fu prima discepolo, e poi amico e biografo ‒ e Annette, l’“attivista” cattolica che sposerà nel 1964, “piccola” parrebbe, ma enorme nel portarne a conclusione la conversione, avvenuta in quello stesso 1964 (mezzo secolo fa esatto).
Due volte, racconta nella sua autobiografia pubblicata postuma nel 1995, The Sword of Imagination: Memoirs of a Half-Century of Literary Conflict, Kirk si è trovato faccia a faccia con il Mistero divenuto fatto e storia, diventato carne e sangue. Davanti alla Sacra Sindone. La prima volta era il 1957. Aveva visitato decine di chiese meravigliose a Roma, centro della Cristianità, ma «la chiesa con il significato più grande per il secolo XXI» (6) (quello che lui peraltro non vedrà mai) capì che «stava molto più lontano a nord» (7), il Duomo di Torino dove sono custoditi «i teli con cui fu sepolto Gesù di Nazareth crocefisso» (8). Ne sapeva poco. Non era ancora cattolico. La contemplò. E appuntò: «Vi sono tutte le ragioni per credere che questa reliquia sia autentica […] e che abbia avvolto il corpo di Gesù, e non quello di un altro» (9). Una trentina di anni dopo, fu di nuovo davanti al Lino, con la moglie Annette e il loro caro amico italiano Mario Marcolla (1929-2003), discepolo e amico di Augusto del Noce e di padre Cornelio Fabro, l’autodidatta che pionieristicamente ha insegnato a mezza Italia il valore di Augustin Cochin e di Eric Voegelin. Un monaco scalzo, come uscito dal nulla, celebrò Messa “nascostamente” solo per loro tre. Kirk riporta solo due parole, «Risurrezione» e «Redenzione» (10), e poi il brano di Apocalisse 3,3: «Ricordati dunque quanto hai ricevuto e udito; serbalo e ravvediti. Se tu non vegli, io verrò su di te come un ladro, e non saprai a quale ora verrò su di te» (11). Il logos si è fatto carne, il mito è divenuto un fatto, e ha nome Gesù risorto.
Marco Respinti
NOTE
(1) Cfr. C.S. LEWIS (Clive Staples Lewis, 1898-1963), Myth Became Fact, in World Dominion, vol. XXII, settembre-ottobre 1944, pp. 267-270, ora in Idem, God in the Dock: Essays on Theology and Ethics, a cura di Walter Hooper, Eerdmans, Grand Rapids (Michigan) 1970, Parte I, pp. 63-68, trad. it, di Marco Respinti, Il mito divenne fatto, in il Domenicale. Settimanale di cultura, anno IV, n. 52, Milano 24-12-2005, pp. 1 e 7.
(2) Cfr. J.R. R. TOLKIEN (John Ronald Reuel Tolkien, 1892-1973), Sulle fiabe, in Idem, Il Medioevo e il fantastico (The Monsters and the Critics and Other Essays, 1983), a cura di Christopher Tolkien (Christopher John Reuel Tolkien, 1924), trad. it. di Carlo Donà, ed. it. a cura di Gianfranco de Turris, 2a ed. riveduta, Bompiani, Milano 2003 (1a ed. 2000), pp. 167-238.
(3) Cfr. GILBERT K. CHESTERTON (Gilbert Keith Chesterton, 1874-1936), L’etica del paese delle fate (The ethics of elfland), trad. it. in Ortodossia (Orthodoxy, 1908), Lindau, Torino 2010, pp. 63-92.
(4) Cfr. CHRISTOPH SCHÖNBORN, Il Mistero dell’Incarnazione (The Mystery of the Incarnation, 1993), trad. it. di Guido Sommavilla S.J. (1920-2007), Piemme, Milano 1989.
(5) EDMUND BURKE (1729-1797), Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia (Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia e sulle relative deliberazioni di alcune società di Londra in una lettera indirizzata a un gentiluomo di Parigi; Reflections on the Revolution in France and on the Proceedings in Certain Societies in London Relative to that Event in a Letter Intended to Have Been Sent to a Gentleman in Paris, noto con il titolo abbreviato Reflections on the Revolution in France, 1790), trad. it. a mia cura, Ideazione, Roma 1998, p. 99.
(6) RUSSELL KIRK (Russell Amos Kirk, 1918-1994), The Sword of Imagination: Memoirs of a Half-Century of Literary Conflict, Eerdmans, Grand Rapids (Michigan) 1995, p. 244.
(7) Ibidem.
(8) Ibidem.
(9) Ibid. p. 245.
(10) Ibid., p. 246.
(11) Cit. in ibid., p. 247, dove il brano viene trascritto nella versione inglese della Bibbia detta “King James Bible”, o “Authorised King James Version”, promulgata per ordine di Giacomo I Stuart (1566-1625), re d’Inghilterra e d’Irlanda (1603-1625) nel 1611.
George Mason (1725-1792) è uno dei molti eroi virginiani del “Founding”, l’epoca di fondazione della nazione statunitense che grosso modo può essere racchiusa tra il 1776 (anno in cui le colonie britanniche dell’America Settentrionale proclamarono l’indipendenza dalla Corona londinese) e il 1789 (anno in cui entrò in vigore la Costituzione federale degli Stati Uniti). Lo storico delle idee Russell Kirk (1918-1994) lo ha senz’alcuna reticenza descritto come un esponente dell’«aristocrazia naturale americana». Favorevole a una graduale abolizione della schiavitù, fiero avversario dello statalismo centralista, deciso alfiere degli “States’ Rights” ‒ i diritti sovrani dei singoli Stati dell’Unione federale nordamericana, in nome dei quali nel 1861 diversi Stati del Sud dichiareranno l’indipendenza dagli Stati Uniti ‒, tra i più significativi ispiratori della Dichiarazione d’Indipendenza e poi del Bill of Rights del 1791 (i primi Dieci Emendamenti alla Costituzione federale voluti per tutelare i diritti degli Stati e da allora parte integrante della legge fondamentale del Paese), per Kirk Mason è il simbolo dell’autentico eroe culturale americano. Sembra dunque appropriato ricordare il ventennale della scomparsa di Kirk, il “padre” della rinascita conservatrice statunitense nella seconda metà del Novecento, che cade il 29 aprile di quest’anno, rievocando la figura-chiave di quel grande “padre della patria”.
Parlando di Mason, Kirk richiama l’attenzione sui primi otto dei dieci articoli di cui si compone il Bill of Rights: essi inglobano infatti alcune provvisioni di legge che già avevano trovato spazio nella Dichiarazione dei Diritti dello Stato della Virginia, varata nel 1776, e scritta − assieme a gran parte della Costituzione di quell’ex colonia britannica, che pure porta la data del 1776 ‒ proprio da Mason. Più del Repubblicano-Democratico Thomas Jefferson (1743-1826) e del Federalista George Madison (1751-1836) ‒ famosi il primo come “autore” della Dichirazione d’Indipendenza degli Stati Uniti e il secondo come autore appunto del Bill of Rights ‒ fu quindi Mason il padre delle libertà costituzionali nordamericane. Kirk lo illustra magnificamente in uno scritto di rara bellezza e puntualità.
Si tratta del saggio breve The Marriage of Rights and Duties, “Il matrimonio fra diritti e doveri”. La sua versione originale risale al 1991, quanto il testo fu pronunciato come “Henry Salvatori Lecture”, la lectio magistralis che l’Intercollegiate Studies Institute (con sede allora a Bryn Mawr in Pennsylvania, oggi a Wilmington nel Delaware), una cioè tra le più importanti e serie fondazioni culturali conservatrici, sponsorizza annualmente in omaggio al geofisico e mecenate italoamericano Henry S. Salvatori (1901-1997), presidente in California della omonima e prestigiosa “Henry Salvatori Foundation”. Salvatori è stato infatti un grande finanziatore delle principali iniziative politiche e culturali conservatrici, sempre particolarmente attento alla promozione di una retta comprensione del “Founding”. Successivamente, The Marriage of Rights and Duties è stato pubblicatosul fascicolo della primavera1992 di The Intercollegiate Review, il periodico pensato dall’ISI specificamente per fornire agli studenti universitari una cultura alternativa rispetto alla cattiva vulgata dominante.
Ora, da questa sua breve storia editoriale risulta chiaro che quel gran saggio kirkiano può essere considerato come uno degli ultimi scritti originali del “padre” dei conservatori americani. In quei ultimi suoi anni, infatti, Kirk ebbe più volte occasione di tornare su alcuni “pezzi forti” del proprio pensiero e quindi di riprendere, pur se in parte riformulandoli, temi e argomenti abbondantemente presenti nei suoi libri. Ma il bicentenario dell’entrata in vigore della Costituzione federale statunitense, nel 1989 (un anniversario praticamente solo americano), aveva aperto a Kirk una “nuova stagione” d’interventi sulla centralità di quel documento, e quindi sulla sua natura intrinsecamente conservatrice. Per il “padre” del conservatorismo americano fu anche l’occasione per tornare a spiegare le differenze fondamentali, anzi la vera e propria antiteticità, fra la cosiddetta “rivoluzione” americana (1775-1783) e la Rivoluzione Francese (1789-1799) proprio nell’anno in cui il mondo intero (e non solo la Francia) celebrava il ben più “popolare”, concomitante, bicentenario della seconda. Del resto, proprio di questi temi parlò Russell Kirk in quel 1989, ospite, in varie città d’Italia, di Alleanza Cattolica (cfr. il suo Stati Uniti e Francia: due rivoluzioni a confronto”, a mia cura, Centro Grafico Stampa, Bergamo 1995). Gli anni che immediatamente precedettero e che poi seguirono il “bicentenario americano” misero dunque “in cascina” le abbondanti messi da cui scaturirono i due ultimi libri pubblicati in vita da Kirk: America’s British Culture nel 1992 eThe Conservative Constitution, nel 1990 (infatti, The Politics of Prudence, del 1992, è la riedizione in volume singolo di alcuni cicli di conferenze già precedentemente editi in diverse forme, mentre l’autobiografia, The Sword of Imagination: Memoirs of A Half-Century of Literary Conflict, a cui pure egli lavorò fino agli ultimi giorni di vita, uscì postuma nel 1995).
Di quei due libri, America’s British Culture è fondamentalmente la ripresa ‒ sintetica quanto al quadro generale e analitica quanto ad alcune singole questioni ‒ del classico kirkiano del 1974 The Roots of American Order (con un Epilogo di Frank J. Shakespeare Jr., trad. it. a mia cura dell’edizione del 1991, Le radici dell’ordine americano. La tradizione europea nei valori del Nuovo Mondo, Mondadori, Milano 1996), e dunque dell’antiteticità si potrebbe dire “macroscopica” tra Francia illuministico-giacobina e Stati Uniti conservatori; mentre The Conservative Constitution è il luogo privilegiato in cui Kirk enuclea e spiega come e perché, sul piano istituzionale, gli Stati Uniti sono conservatori da sempre. Insomma, se America’s British Culture rinnova il senso culturale della natura conservatrice dell’esperienza storica che prepara e avvia gli Stati Uniti, The Conservative Constitution mostrail modo in cui quella cultura s’incarna concretamente nelle istituzioni politiche e giuridiche del Paese.
Ebbene, la “fabbrica” che in quegli anni produsse i due citati “ultimi” volumi kirkiani, in specie The Conservative Constitution, generò pure altri materiali che, in forma di “integrazioni”, sono state accolte nella seconda edizione ampliata di The Conservative Constitution, postuma e definitiva, pubblicata nel 1997 con il titolo Rights and Duties: Reflections on Our Conservative Constitution, a cura di Mitchell S. Muncy e con una introduzione di Russell Hittinger, allora docente di Studi cattolici e ricercatore di Diritto presso l’Università di Tulsa, in Oklahoma, vale a dire uno dei migliori costituzionalisti e giusnaturalisti statunitensi contemporanei. Del resto, Kirk aveva in animo di raccogliere in un volume a sé, il progettato e mai realizzato The Sword of Justice, quelli che in Rights and Duties diventano i “materiali” che “integrano” The Conservative Constitution: segnatamente il saggio The Case for Natural Law, sulla centralità del diritto naturale nella cultura giudeo-cristiana dell’Occidente, e, appunto, finalmente, il saggio The Marriage of Rights and Duties.
Torniamo allora a George Mason, al George Mason di Russell Kirk.
Alla scuola del grande “Padre fondatore”, infatti, il “padre” del conservatorismo insegna ‒ una volta per tutte ‒ che tra i diritti della persona e la natura sociale dell’uomo, dunque l’idea di comunità, non vi è contraddizione, laddove invece l’incompatibilità esiste fra le libertà individuali e la politica oppressiva. Parrebbe una riflessione scontata, ma non lo è affatto. Una delle costanti del pensiero kirkiano è infatti sempre stata la conciliazione fra libertà e ordine; del resto, gran parte del pensiero antirivoluzionario successivo all’Ottantanove francese si concentra sullo stesso oggetto; ma su questo stesso oggetto pure si divide. La storia del pensiero antirivoluzionario successivo alla Rivoluzione Francese, infatti, è anche la storia di una “guerra civile” fra scuole diverse, e talora opposte, di pensatori, gli uni principalmente preoccupati per le ferite arrecate dall’ideologia rivoluzionaria al concetto di libertà e gli altri per quelle che essa arreca al concetto di ordine. Contro le divisioni create dall’ideologia rivoluzionaria sin dentro il pensiero antirivoluzionario, Kirk si fa dunque alfiere di una concezione non tanto di compromesso, ma di soluzione a monte.
In Mason, Kirk vede pertanto l’emblema del “padre della patria” conscio che non può mai esistere libertà senza comunità, tanto quanto consapevole che nessuna comunità politica può sopravvivere se non fondata sulle libertà dei suoi membri. Anzi, che la libertà personale cresce solo dentro un ambiente ordinato giacché è l’unica che impedisce l’involuzione oppressiva della “cosa pubblica”.
Con una formula contemporanea (e se il termine “Stato” non fosse così fatalmente gravato da essere pressoché inutilizzabile fra i conservatori americani) si potrebbe dire che in Mason Kirk vede la cifra dell’idea “tanto Stato quanto necessario, tanta libertà quanto possibile”, e questo come sigillo non solo di un pensiero antirivoluzionario fra i molti possibili, e quindi più o meno compiutamente storicamente realizzatisi, bensì del vero spirito contro-rivoluzionario, dunque della matrice conservatrice da cui sgorgano per esempio eminente le istituzioni statunitensi.
Da sempre, negli Stati Uniti, Kirk viene considerato da alcuni come troppo poco libertarian e da altri come non sufficientemente schierato con “le istituzioni”. Ma la verità è che Kirk ha sempre capito meglio e prima di tutti i critici che i diritti della persona si fondano sui doveri che l’uomo ha verso se stesso e verso tutte le umane cose, tra cui eminentemente e principalmente Dio, e che solo questa coscienza può fondare una politica autenticamente a misura di uomo. E, possibilmente, secondo il piano di Dio. Ronald Reagan (1911-2004) ha condensato tutto con parole d’oro: «Il sogno americano è che ogni uomo debba essere libero di diventare ciò che Dio intende egli debba diventare».
Il testamento lasciato 20 anni fa da Russell Kirk è questo.
Marco Respinti
Pubblicato con il medesimo titolo sul sito
Comunità Ambrosiana di Alleanza Cattolica in Milano,
nella rubrica USA.. e non getta
Quando «Il dottor Zivago» spaventò comunismo e la CIA lo sfruttò sfruttarlo «arruolando» il Vaticano
La storia d’amore che sta al centro del celebre romanzo Il dottor Zivago (1957), dello scrittore russo Boris Pasternak, era una poderosa e quindi pericolosa demolizione del mito collettivista, in grado di produrre danni enormi in Unione Sovietica. La CIA lo capì subito, e immediatamente lo capì pure il KGB. Per questo l’Unione Sovietica cercò in tutti i modi di ostacolare la diffusione e la lettura del libro, mentre gli Stati Uniti fecero l’esatto contrario, promuovendolo e raccomandandolo, e persino pubblicandone migliaia di copie «pirata» in lingua russa nonostante le sonore proteste di chi ne deteneva legalmente i diritti d’autore, Feltrinelli, editore del romanzo in Italia.
Questa significativa operazione della CIA si fondò tutta su un assunto decisivo: solo la battaglia culturale rende efficace, fondandola seriamente, quella politica. Pasternak divenne così inconsapevolmente un «agente segreto culturale» dell’Occidente, che gli Stati Uniti sfruttarono con intelligenza «arruolando» pure nientemeno che un altrettanto ignaro Vaticano. Il veicolo scelto dalla CIA per diffondere ovunque il testo «proibito» fu infatti il padiglione vaticano dell’Expo di Bruxelles del 1958, intoccabile culturalmente e inattaccabile politicamente.
Sta tutto in un bel libro che uscirà negli Stati Uniti a giugno, ricco di documenti della CIA recentemente desecretati: The Zhivago Affair: The Kremlin, the CIA, and the Battle Over a Forbidden Book (Pantheon, New York) di Peter Finn e Petra Couvée.
Russell Kirk (1918-1994), il padre della rinascita del conservatorismo statunitense a metà del secolo XX, pensò di suggellare il proprio canone della forma mentis conservatrice individuandone l’omega nel poeta e critico letterario Thomas Stearns Eliot (1888-1965); e lo fece non astrattamente, ma avendolo incontrato, conosciuto e frequentato a Londra tra la fine degli anni 1940 e l’inizio degli anni 1950, allorché Kirk studiava all’Università di St. Andrews, in Scozia, per il dottorato in Lettere inglesi.
In Eliot, infatti, americano di nascita e inglese di adozione, Kirk vede il punto di approdo della tradizione iniziata due secoli prima con il pensatore angloirlandese Edmund Burke (1729-1797) all’insegna dell’opposizione cosciente e organica all’ideologia nata dalla e con la Rivoluzione Francese (1789-1799). E la gran parte di quella tradizione culturale burkeana, sottolinea Kirk, attiene prima a un insieme di sensibilità, d’inclinazioni sia naturali sia coltivate attraverso l’educazione fornita dagli ambienti sociali in primis ma non solo la famiglia naturale, nonché di usi e costumi tanto ereditati quanto positivamente ricercati e “ricreati” che non a una filosofia vero nomine. Non a caso, dunque, al culmine di una filiera culturale popolata da un numero di uomini di lettere e di romanzieri maggiore di quel che d’acchito ci si aspetterebbe nella ricostruzione di una “storia del pensiero”, Kirk pone un poeta, seppur un poeta “filosofico”, e magari addirittura “politico”, qual è T.S. Eliot.
All’amico e maestro, Kirk ha del resto dedicato una delle biografie intellettuali più rotonde e riuscite tra quante, pur pregevolissime, sono state pubblicate anche successivamente, vale a dire Eliot and His Age: T.S. Eliot’s Moral Imagination in the Twentieth Century, uscito in prima edizione nel 1971, non fosse altro che per la capacità di penetrare intimamente nella visione delle cose che fu propria al poeta, liberandolo così elegantemente, ma senza censure indebite e pertanto inutili, dalle molte, troppe calunnie che ancora circolano sulla sua vita comunque travagliata e che dunque pesano sulla sua opera talvolta maldestramente fraintesa.
Ciò che in Eliot, e nella “sensibilità burkeana” di Eliot, colpì Kirk alla voce “conservatorismo” è la costante attenzione osservata dal poeta per ricondurre sempre le cose del mondo al loro principio e fondamento; di relativizzare il contingente per quel che esso può e quindi deve essere relativizzato in confronto a ciò che è invece permanente ed eterno; insomma di fondare metafisicamente la fisica e metapoliticamente la politica, la quale così ‒ per Eliot e dunque per Kirk ‒ non è mai solo uno scontro pur lecito fra opzioni possibili bensì il richiamo costante a prospettive non solo storiche, dunque eventualmente non solo di piccolo cabotaggio, e cioè la capacità e la voglia, nonostante la fatica e le difficoltà, d’intendere ogni elemento di ciò che è umano in prospettiva squisitamente e nobilmente religiosa.
Eliot, che nella sua produzione saggistica (forse non conosciuta quanto merita e certamente non quanto merita “usata”) cita e adopera bene il filosofo-contadino francese, maestro di tomismo vero, Gustave Thibon (1903-2001), per cui quel poco che di Thibon Kirk conosceva proviene da Eliot; Eliot, che in quella stessa produzione saggistica cita e adopera bene C.S. Lewis (1898-1963), cosa di per sé non scontata nei confronti di un contemporaneo ancora all’epoca in vita, pur se famoso e non estraneo, probabilmente anche fisicamente, alle frequentazioni del poeta; insomma Eliot, che, pur senza nominarlo, lascia in eredità il fatto di avere appreso molto di ciò che il vero conservatorismo angloamericano significa proprio leggendo uno scritto di Kirk, s’intendeva perfettamente con il suo ex discepolo e ora finalmente, all’inglese, peer, come più tardi illuminato biografo e interprete, sul fatto che non vi possa mai essere conservatorismo storico autentico che non si fondi su una solida prospettiva trascendente.
In un saggio pubblicato nel 1955 con il significativo titolo La letteratura della politica, Eliot esprime da par suo, cioè con il suo modus, il concetto in questi termini :
[…] mi preoccupo più del fatto che vi dovrebbe sempre essere scrittori preoccupati di penetrare fino al nocciolo della sostanza, desiderosi di arrivare alla verità e di affermarla, senza troppa speranza, senza l’ambizione di modificare il corso immediato degli eventi, e senza sentirsi scoraggiati o sconfitti quando pare che nulla ne consegua.
La giusta area, per questi uomini, è ciò che si può definire non tanto l’area politica, quanto l’area pre-politica. […] È in quest’area che i miei […] deboli talenti sono stati impiegati. […] E la mia difesa dell’importanza del pre-politico è semplicemente questa: esso è lo strato nel quale ogni pensiero politico, che voglia definirsi sano, deve affondare le proprie radici, e dal quale deve derivare il proprio nutrimento […] e, abbandonando del tutto il linguaggio figurato, è il dominio dell’etica — infine, il dominio della teologia. In quanto la domanda vera, quella a cui nessun tipo di filosofia politica può sfuggire, e quella alla quale deve dare una risposta, perché è sulla base della giustezza di quella risposta che ogni pensiero politico deve essere infine giudicato, è semplicemente questa: Che cos’è l’uomo? quali sono i suoi limiti? qual è la sua miseria e quale la sua grandezza? e quale, infine, il suo destino?
Ebbene, «l’importanza del pre-politico» ‒ anzitutto etica e quindi soprattutto teologica ‒ di cui Eliot scrive è la formula che implicitamente Kirk cercava, e che quindi trovò, per suggellare il proprio canone del conservatorismo. Trovatala, Kirk la citò dunque costantemente in interventi scritti e parlati anche con le parole di una seconda, equipollente, formula, sempre tratta da Eliot, questa volta dal suo L’idea di una società cristiana, del 1939, e cioè «realtà permanenti», come per esempio (ma è questo uno solo dei numerosissimi esempi possibili) testimonia il libro kirkiano del 1969 (addirittura precedente la sua biografia eliotiana) Enemies of the Permanent Things: Observations of Abnormity in Literature and Politics.
Grazie a Kirk, ma non esclusivamente per mezzo suo (il che irrobustisce la virtuosità della circostanza), «l’importanza del pre-politico» diventa un cardine ‒ Kirk ed Eliot e i par loro in inglese direbbero un tenet o un pillar ‒ di tutta la riflessione conservatrice angloamericana autentica, cronologicamente (solo?) successiva all’incontro fra Kirk ed Eliot; una riflessione che, in modo sovente esplicito e altre volte implicito (“automatico”?), è peraltro sempre kirkiana, come ancora una volta esemplarmente testimonia un libriccino piccolo quanto aureo firmato da uno di quei maestri americani di conservatorismo autentico che Eliot aveva imparato ad apprezzare non solo ma anche da Kirk (cioè da quel suo scritto sul conservatorismo che Eliot cita senza attribuzioni esplicite), vale a dire Robert A. Nisbet (1913-1996) autore nel 1986 di Conservatorismo: sogno e realtà (trad. it., a cura di Spartaco Pupo, Rubbettino, Soveria Mannelli [Catanzaro] 2011.
Sono questi corsi e ricorsi che del conservatorismo non danno per niente una lettura “disperatamente” ciclica, ma segnano un continuo tornare a ciò che fonda; poiché senza quel principio e fondamento il conservatorismo non sarebbe affatto.
Marco Respinti
Versione originale annotata ell’articolo pubblicato
con il medesimo titolo sul sito Comunità Ambrosiana di Alleanza Cattolica in Milano,
nella rubrica USA.. e non getta.
NOTE
(1) THOMAS STEARNS ELIOT (1888-1965), La letteratura della politica (1955), trad. it. in IDEM, Opere 1939-1962, a cura di Roberto Sanesi, Bompiani, Milano 1993, pp. 1276-1277.
Villanova, Dayton, St. Louis University sono centri importanti per la teologia cattolica negli Stati Uniti, mentre Gonzaga e Creighton sono due degli atenei simbolo dell’apostolato intellettuale dei gesuiti. Ma per l’americano medio queste realtà, almeno nel mese di marzo, richiamano una cosa sola: il basket. Marzo è infatti il mese in cui si tiene il seguitissimo campionato della prima divisione della NCAA, quello dei college, vivaio e preludio al basket professionistico. Su 68 squadre che ogni anno raggiungono la fase finale (su ben 351) immancabilmente un quinto o un sesto sono di college cattolici. I quali rappresentano solo una piccola porzione del mondo universitario e anche come numero di iscritti, in genere al di sotto dei 10mila, sono poco cosa rispetto ai grandi atenei statali.
Il motivo di questa tradizione cestistica nelle università cattoliche, guardata con ammirazione da milioni di appassionati, l’ha spiegato Julie Byrne, una docente dell’Università di Hofstra che ha dedicato un approfondito studio al misterioso feeling tra Gesuiti, Agostiniani, Maristi e la palla a spicchi. Le moltitudini di immigrati cattolici – irlandesi, italiani, polacchi – che si riversarono nei maggiori centri urbani tra fine ‘800 e inizi ‘900 incontrarono una cultura e anche un sistema scolastico ostile. Per far fronte a quella situazione nacquero come funghi scuole cattoliche. Ma sia per la povertà degli studenti, che non potevano permettersi le attrezzature del football americano, sia per gli spazi ristretti dei quartieri cementificati di New York o Chicago, che non si prestavano a ospitare un campo da baseball, la pallacanestro divenne lo sport per eccellenza, facile da giocare anche in palestre improvvisate. Da allora, quell’amore nato per caso, o per mano della Provvidenza, non si è mai interrotto. E, si può aggiungere, se i neri hanno dato a questo sport, anche qui non va dimenticato che i primi a integrarli e a schierarli massicciamente in campo furono i cattolici.
Leggi tutto sul sito de Il Timone che rilancia un articolo di Religion News Service
Now, at 18:30 local time (here it’s still January 25, in Italy it’s already January 26, 4:30 in the morning), I am going to enjoy the exquisite company of Mr. Howard Segermark, a veteran Conservative in D.C., and his fine guests at a dinner in honor of your servant, in my capacity of President of the Columbia Institute, Milan, Italy. We will discuss the 39th March for Life of this morning in Washington,. D.C., Italian politics, the future of Western civilization, and a variety of good topics while tasting good food, good wines, and good cigars.
Washington, D.C. — Qui, nella capitale federale degli Stati Uniti d’America, sono le 12,00 esatte. In Italia sono le 18,00. Nel Mall, all’incrocio fra la 7a e la 9a Strada, si sono dati appuntamento, come tutti gli anni, migliaia e migliaia di pro-lifer.
La 39a Marcia per la Vita, a 40 esatti dalla legalizzazione dell’aborto statunitense, partirà tra circa un’ora e mezza, dopo qualche testimonianza e qualche appello.
Percorrerà Constitution Avenue e terminerà davanti a quella Corte Suprema che quattro decenni fa cancellò con un colpo di mano il diritto alla vita di questo nobile Paese.
Io mi trovo qui, in mezzo alla folla della vita.
Tra poco marcerò.
Accompagnateci con il pensiero e con la preghiera.
Il secondo mandato presidenziale di Barack Obama sarà una botta di radicalismo, maggiore di quello visto sin qui. La riforma della legge sull’immigrazione, per esempio, per strumentalizzare ideologicamente i latinos e i loro molti bisogni.
Considerazioni sull’inizio del secondo mandato presidenziale di Barack Obama alla vigilia del quarantennale della guerra più trucida che gli Stati Uniti d’America abbiano mai subito.
Barack Obama, i morti innocenti e le armi dei cattivi
Il mio articolo sul pellegrinaggio anche politico di Rand Paul in Israele, uscito su Italia Domani il 18 gennaio 2013, è stato ripubblicato il 20 gennaio su
– quotidiano L’Opinione delle Libertà
– sito Internet de L’Opinione delle Libertà
La legalizzazione dell’aborto negli Stati Uniti d’America è stata solo un colossale inganno e ha prodotto una ecatombe.
Il beniamino dei “Tea Party”, figlio d’arte, si porta dietro la nomea dì”isolazionista”. Non gli dispiace, ma il suo pellegrinaggio anche politico in Terrasanta e quel che ci vuole per iniziare a farla finita con una serie di illazioni stupide. Tre urrà.
Rand Paul in Israele.
Chiacchierato, ma opportunamente strategico
Il mio articolo sul giudice Andrew P. Napolitano, campione delle libertà personali, uscito su Italia Domani il 13 gennaio 2013, è stato ripubblicato su
– the Right Nation del 15 gennaio
– quotidiano L’Opinione delle Libertà del 16 gennaio
– sito Internet de L’Opinione delle Libertà del 16 gennaio
HUMOUR & COMMON SENSE
Un video fantastico girato su Fox News
e messo in rete da Patriot Post. da non perdere…
Manifestazione a Washington contro il libero possesso personale delle armi. Settimana ventura, venerdì 25 gennaio, a Washington si svolge la Marcia per la Vita.
Io ci vado.
Contro l’aborto.
Voglio vedere sfilare lì, lungo Constitution Avenue, tutti quell che stavano in piazza contro le armi.
Sennò sono degl’ipocriti.
Il mio articolo sull’importante vittoria ottenuta dalle Domino’s Farms di Tom Monagahan contro il controllo delle nascite imposto dall'”Obamacare”, uscito su La nuova Bussola Quotidianail 14 gennaio 2013, è stato ripubblicato in
– sito Internet del quotidiano L’Opinione delle Libertà del 15 gennaio
– quotidiano L’Opinione delle Libertà del 15 gennaio
Ho visto il TG1 della sera. Ma perché ho visto il TG1 della sera?
La Banca d’Italia comunica che a novembre il debito pubblico dello Stivale ha toccato un nuovo record. Lo ha fatto pure il gettito fiscale degli ultimi tempi. Ma guarda un po’! E la richiesta di mutui degl’italiani per acquisto della casa nel 2012 è calata sensibilmente. IMU chi legge. Hanno ammazzato il risparmio, il guadagno e le famiglie, cosa ci si aspettava di altro?
Negli Stati Uniti, intanto, Barack Obama dice che i Repubblicani sono dei puzzoni perché non gli autorizzano l’innalzamento del tetto massimo della spesa pubblica. Sono invece dei santi.
Intano il primo presidente mezo nero della storia degli USA annuncia che proporrà una legge per abolire le armi d’assalto. In campagna elettorale, infatti, se n’era dimenticato. Menomale. Sennò avrebbe perso la Casa Bianca. La fantastica inviata Giovanna Botteri commenta che Obama ha pure detto che purtroppo non si è riusciti a salvare i piccolini caduti nell’ultima strange. Vuol dire che Obama, per riparare pubblicamente, mercerà il 25 gennaio dal Mall di Washington sin davanti alla Corte Suprema con i pro-lifer antiabortisti?
Poi ci annunciano che l’attrice Jodie Foster ha ammesso davanti a tutti di essere lesbica. Davanti anche ai suoi due figli. Che ridevano. Che applaudivano.
Quindi Vincenzo Mollica ci comunica che Vasco Rossi ha detto su Facebook che torna sul palco.
Nel mezzo, ho cercato di spiegare ai mei due figli di 10 e 9 anni cosa sono stati gli Anni di piombo, le Brigate Rosse e il terrorismo comunista in Italia. Prospero Gallinari è morto, sempre senza pentirsi.
Mi consola solo l’immagine di un soldato francese inmpegnato a dare una mano al Mali con un bel Mirage.
Ma perché ho visto il TG1 della sera? Alla fine mi hanno pure ricordato che debbo immancabilmente pagare il canone di “mamma RAI” anche se uso il tivù come fioriera, vasca per i pesci o pitale.
Ricordo del grande campione dell’antistatalismo, fondatore della scuola “public choice” per l’economia libera di mercato, scomparso il 9 gennaio 2013 a 93 anni.
Thomas Monaghan, miliardario cattolico, vince la causa contro la riforma sanitaria di Barack Obama che lo obbligherebbe a pagare contraccezione, aborto e sterilizzazione ai propri dipendenti. Inizia la rivolta americana in nome della Costituzione. La libertà religiosa è un bene pubblico. Di seguito la versione originale e completa del mio articolo pubblicato con il titolo Parte dal Michigan la rivolta contro l’Obamacare su La nuova Bussola Quotidiana di oggi.
* * *
Parte dal Michigan la riscossa contro la riforma sanitaria di Barack Obama che obbliga i datori di lavoro a fornire gratuitamente i metodi per il controllo delle nascite (contraccezione, aborto, sterilizzazione) ai propri dipendenti sotto forma di assicurazione sulla salute. E tutto inizia con Thomas Monaghan, miliardario e cattolico.
Classe 1937, nato ad Ann Arbor, in Michigan, da ragazzino ha iniziato come pizzaiolo a Ypsilanti, sempre in Michigan, comperandosi un localino con il fratello James. Da lì nel 1960 è nata la Domino’s Pizza, il franchise dove si può gustare quella “famosa” pepperoni pizza che solo i cattivi, e numerosi, traduttori rendono con “pizza ai peperoni” mentre invece è la “pizza al salamino piccante”. Oggi Domino’s Pizza è una catena mondiale con più di 10mila locali in 70 Paesi e Monaghan un magnate in pensione. Dal 1983 al 1992 è stato proprietario della squadra di baseball Detroit Tigers, possiede uno dei rarissimi e costosissimi esemplari di Bugatti Royales, e i suoi talenti li investe nel sociale e in carità. Fondatore o perno di numerose organizzazioni cattoliche e pro life, finanziatore di numerose altre, nel 1987 è stato tra i promotori di Legatus, un’associazione di businessmen cattolici decisi a portare la dottrina sociale della Chiesa negli affari e nelle opere. Ma il vero fiore all’occhiello del suo “impero” è l’Ave Maria University, un ateneo cattolicissimo che dal 2003 fa della fedeltà al Magistero il proprio blasone, che in breve tempo è diventato un marchio di sicura eccellenza e che sorge nella cittadina, creata ad hoc, di Ave Maria, a 27 chilometri da Naples, in Florida. Nasce dalle ceneri dell’Ave Maria College di Ypsilanti e dalla prima sede dell’Ave Maria School of Law di Ann Arbor (fra i cui docenti vi sono stati anche il giudice Robert Bork e il giudice della Corte Suprema Antonin Scalia). Uno dei motivi per cui Monaghan ha lasciato il natio Michigan alla volta della soleggiata Florida è il divieto imposto dalle autorità locali al suo progetto di erigere nel campus universitario un crocifisso più alto della Statua della Libertà. Di tutto questo, però, oggi Monaghan è il gran regista. La Domino’s Pizza l’ha ceduta nel 1998 e ad Ann Arbor mantiene un complesso di palazzine e di uffici (un “office park”, come dicono da quelle parti) che gli fa da quartier generale, le Domino’s Farms.

il giovane Tom Monaghan alle prese con le sue prime pizze a Ypsilanti, Michigan. L’inizio dell’impero…
Ebbene, le sue Domino’s Farms hanno degl’impiegati, e Monaghan è il loro datore di lavoro. Tenuto per legge ad assicurare loro la mutua. Come tutti i datori di lavoro degli Stati Uniti, Monaghan si è però l’anno scorso trovato improvvisamente di fronte al vero volto di quella riforma con cui la Casa Bianca millanta di voler garantire la tutela sanitaria a tutti con costi bassi e che invece è solo una dispendiosissima (per tutti i contribuenti americani) bugia che vuole solo imporre ai cittadini ciò che piace all’Amministrazione Obama in tema di economia, salute e morale.
Come tutti i datori di lavoro degli Stati Uniti, Monaghan si è cioè trovato di fronte improvvisamente a una imposizione, violare la quale lo rende perseguibile a norma di legge, che di punto in bianco gli nega il godimento del primo dei diritti costituzionali statunitensi, vale a dire quello alla libertà religiosa. E così Monaghan, come tutti i datori di lavoro degli Stati Uniti, si è scoperto obbligato a dover persino pagare il costo di questa grave rivolta messa in atto dal governo di Washington nei confronti della legge fondamentale del Paese, quella legge fondamentale che di quel governo fonda l’autorevolezza e giustifica l’esistenza da più di due secoli.
Monaghan e tutti i datori di lavoro degli Stati Uniti si sono insomma visti conculcare la libertà di coscienza da una ideologia di Stato che così facendo ha aperto il più grave contenzioso etico, politico e giuridico della storia del Paese americano, inimicandosi tutte le Chiese e le comunità religiose degli Stati Uniti. Le quali, a norma di legge, hanno però immediatamente reagito impugnando la Costituzione federale in una battaglia culturale e legale che ha prodotto un ecumenismo forte e inedito in cui si è distinta, con un ruolo di leadership universalmente riconosciuto, la Chiesa Cattolica, capitanata dal primate Timothy O. Dolan, arcivescovo di New York, istitutore pure (ed è un fatto clamoroso per un Paese come gli Stati Uniti la cui democrazia si fonda proprio sulla libertà religiosa) di uno speciale Osservatorio di monitoraggio delle violazione della libertà religiosa.
Monaghan, come moltissimi altri datori di lavoro americani, si è così subito rivolto ai tribunali.
La buona notizia ora è che il giudice Lawrence Zatkoff della Corte del Distretto Orientale del Michigan, quella cui Monaghan ha sporto denuncia d’urgenza attraverso il proprio Thomas More Law Center, gli ha dato ragione. Ai dipendenti delle sue Domino’s Farms Monaghan continua infatti a garantire buone polizze assicurative che ne tutelano bene la salute ma che non regalano il controllo delle nascite; e il giudice Zatkoff ha stabilito che non solo Monaghan fa bene a farlo in base al primo Emendamento alla Costituzione federale, ma che in torto è piuttosto chi glielo vieta, fosse anche, com’è, il governo di Washington.
Una cosa del resto è da sempre chiarissima in questo scontro senza precedenti fra governo federale, Costituzione, cittadini e Chiese. In gioco è il pilastro portante di tutta l’architettura civile statunitense. Se l’Amministrazione in carica dovesse alla lunga trionfare con la propria riforma sanitaria, gli Stati Uniti cambierebbero per sempre volto. Per questo, ragionano moltissimi americani, qualunque cosa si pensi della religione, della libertà religiosa e del controllo delle nascite, occorre che tutti gli americani combattano contro la grave decisione presa dalla casa Bianca. Magari anche solo per poi mettersi il giorno dopo a fare la medesima identica cosa, ma in piena autonomia, libertà e coscienza. La legge fondamentale americana garantisce infatti tale libertà; e se certo tale libertà può pure venire usata male, o malissimo, essa è l’unica che può però anche permettere che il bene venga fatto. Nessuna autorità civile statunitense ha mai interferito così con questa libertà base, ed è per questo che gli americani sono sempre determinati a far sì che non accada né ora né mai.
La legge sulla libertà religiosa che fonda da sempre gli Stati Uniti afferma che lo Stato non può mai, in alcun caso, imporre una determinata religione ai cittadini contro la loro coscienza. Deve invece lasciare sempre libere le coscienze. Fare il contrario significherebbe promuovere una religione di Stato (cosa sommamente contraria alla coscienza dei cittadini e alla storia del Paese), anche quando, come in questo caso, quello imposto come credo di Stato è una “religione laica” e persino laicista, una “religione politica” – direbbe Eric Voegelin – o una “religione capovolta”.
Ora, Monaghan e moltissimi altri americani con lui, datori di lavoro e dipendenti, attendono di vedere il proseguio della vicenda. Numerosissime sono infatti le denunce analoghe a quella presentata da Monaghan contro il governo Obama e la sua riforma sanitaria. Tutti attendono di vedere dunque come l’importantissimo precedente giuridico stabilito dal giudice Zatkoff condizionerà il futuro. E tutti attendono di vedere, Monaghan per primo, se si riuscirà a utilizzare la decisione di quella Corte Distrettuale del Michigan, che riguarda le sue Domino’s Farms, per ottenere analoga giustizia per quanto riguarda la sua Ave Maria University.
C’è del resto un precedente. Sullo stesso argomento, a metà dicembre la Corte di appello della città di Washington ha dato ragione al Belmont Abbey College e al Wheaton College, due altri prestigiosi istituti cristiani americani di istruzione superiore che avevano presentato denuncia con il pubblico supporto della cattolicissima Cardinal Newman Society, di Manassas, in Virginia, e di altri 15 college o università cristiani: il Belmont Abbey College, nell’omonima cittadina del North Carolina, cattolico, gestito dai monaci benedettini, è stata la prima istituzione del genere a presentare mesi fa denuncia contro il governo Obama; e il Wheaton College, nell’omonima cittadina dell’Illinois, calvinista, è tra l’altro la sede della collezione di tutti i manoscritti originali di C.S. Lewis, nonché un fondamentale centro di studi su autori cristiani quali G.K. Chesterton, J.R.R. Tolkien, Charles Williams, Owen Barfield, George MacDonald e Dorothy L. Sayers (ci sono anche il famoso armadio-guardaroba delle Cronache di Narnia e la scrivania a cui Tolkien scrisse Lo Hobbit).
Quella sentenza della Corte di appello di Washington stabilisce peraltro che Obama ha tempo fino al 31 marzo per modificare la legge in ottemperanza alla Costituzione federale. Eppure la vittoria nel “caso Monaghan” è ancora più importante. Essa riguarda infatti una istituzione laica e cioè neutra, commerciale, non confessionale, e sancisce che proprio per una istituzione così la libertà religiosa conta. Esattamente come afferma da sempre l’architettura giuridico-isituzionale statunitense: la libertà religiosa è un bene pubblico.
Parte dal Michigan la rivolta contro l’Obamacare
in La nuova Bussola Quotidiana
C’è un Napolitano che ci piace molto perché garantisce, tutela e difenda la libertà in modo schietto e tetragono, maschio e irriducibile, senza peli sulla lingua e con coraggio. Solo che sta dall’altra parte del mondo, vive negli Stati Uniti, ha 63 anni, è un ex giudice della Corte Superiore del New Jersey, è cattolico e gran liberatarian. Le sue parole sono fucilate.
Il Napolitano che ci piace.
Quello che garantisce la libertà
Il mio articolo per il centenario della nascita di Richard Nixon, uscito su Italia Domaniil 9 gennaio 2013, è stato ripubblicato in
– the Right Nation dello stesso 9 gennaio
– il sito Internet del quotidiano L’Opinione delle Libertà del 12 gennaio
– il quotidiano L’Opinione delle Libertà del 12 gennaio
Il mio articolo per il centenario della nascita di Richard Nixon, uscito su La nuova Bussola Quotidiana il 10 gennaio 2013, è stato ripubblicato in
– sito Internet del quotidiano L’Opinione delle Libertà l’11 gennaio
– quotidiano L’Opinione delle Libertà l’11 gennaio
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