Quello che, ora dopo ora, la stampa racconta sugli scampoli della campagna elettorale statunitense sembra uscito dai tempi d’oro della disinformacija.
Anzitutto si grida allo scandalo perché, riaprendo le indagini sulle famose email nascoste o distrutte da Hillary Clinton, l’FBI sarebbe intervenuto a gamba tesa a pochi giorni dal voto condizionandone pesantemente l’esito in favore di Donald J. Trump. Ma è una bugia. Lo è perché non ora l’FBI condiziona la sfida per la Casa Bianca e non a favore di Trump. L’FBI lo fa da mesi aiutando Hillary: facendo di tutto per toglierle le castagne dal fuoco, ritenendo non importanti le sue oggettive violazioni della legge, persino garantendo ingiustificatamente l’immunità a due collaboratrici-chiave inserite nella lista dei sospetti. Ora che per uno scatto finale di orgoglio, o forse perché messosi davvero a fare il proprio dovere, l’FBI fa quello che avrebbe dovuto fare da mesi, ovvero indagare su cosa nasconda l’attività impropria e illecita svolta dall’ex Segretario di Stato Clinton, non si tratta di turbativa, ma di riequilibrio. Sostenere il contrario significa rendersi complici ideologici di un colpo di spugna inaudito fermato forse in tempo proprio da quell’FBI che lo stava disinvoltamente perpetrando.
In secondo luogo, proprio per cercare di distrarre per l’ennesima una volta l’opinione pubblica dai fatti gravissimi che coinvolgono la Clinton, si risfodera l’argomento spompato delle tasse non pagate da Trump, come fa The New York Times. Ma è un’altra bugia. Oramai anche l’ultimo dei lettore di quotidiani sa che Trump non ha affatto evaso le tasse. Per 18 anni non ha versato imposte solo grazie alle detrazioni fiscali concessegli dalla legge statunitense dopo che nel 1996 dichiarò una perdita di 916 milioni di dollari. Bella o brutta che sia, la legge fiscale statunitense consente di farlo. A tutti. È una cosa perfettamente legale. Lo fanno Trump e lo fanno tanti, tanti amici milionari di Hillary. Sostenere il contrario è negare l’evidenza, con una buona dose di malafede.
Ma la madre di tutte le bufale è che, vista la rimonta inaspettata di Trump nei sondaggi dovuta alla riapertura delle indagini da parte dell’FBI sulla Clinton, si torna a riagitare lo spettro degl’“inquietanti” legami fra Trump e Vladimir Putin. Ora, non vi è nulla di provato, nulla di dimostrato, nulla di serio. Se domani indagini di un qualche tipo dovessero smentirci, ne prenderemo atto e c’inchineremo alla realtà, ma l’idea surrettizia d’insinuare che già vi siano oggi elementi per affermazioni di questo tenore è terrorismo psicologico puro. O forse soltanto la sagra della panzana.
Piuttosto, se proprio di Putin si vuole parlare in relazione alla campagna elettorale statunitense, è in casa Clinton che occorre guardare, e con grande attenzione. Fino a prova contraria, solo la Clinton ha finora avuto legami con la Russia di Putin, e non esattamente di virtuosi. Quando era Segretario di Stato e usava il Dipartimento di Stato per arricchirsi attraverso la Clinton Foundation distraendo al contempo la politica estera statunitense, Hillary ha fatto in modo di cedere ben il 20% dell’uranio statunitense all’agenzia di Stato russa per il nucleare.
La UraniumOne era una società canadese, presieduta da Ian Telefer, generoso donatore della Clinton Foundation. Negli anni, e tramite noti faccendieri amici dei Clinton, acquisì notevoli concessioni minerarie anche negli Stati Uniti. Per essere acquisita dalla Russia serviva dunque l’approvazione di Washington visto che Washington considera, ovviamente, l’uranio un asset strategico d’importanza primaria. E l’approvazione oliata dal Dipartimento di Stato arrivò dopo che la Fondazione Clinton ebbe ottenuto una donazione di 145 milioni di dollari da investitori nella stessa Uranium One e all’ex presidente Bill Clinton fu versato mezzo milione di dollari per una conferenza a Mosca dalla Renaissance Capital legata all’intelligence russa. Il giochetto ha così finito per trasferire alla Russia appunto il 20% della produzione statunitense di uranio. Nel quadro c’entra anche la Salida Capital, una piccola società d’investimenti canadese che nel 2010 cominciò a donare alla Clinton Foundation e a pagare per una conferenza di Bill in Canada. Ora, la Salida è controllata dalla Rosatom, cioè l’agenzia di Stato russa per il nucleare tra l’altro impegnata nella costruzione di reattori nucleari in Iran e in esportazione di tecnologia nucleare in Corea del Nord. Ne parlano anche i libri (Clinton Cash: The Untold Story of How and Why Foreign Governments and Businesses Helped Make Bill and Hillary Rich, di Peter Schweizer, edito da Harper a New York nel 2016 e riedito accresciuto nel 2016), ma i libri nessuno li legge. Comunque, per quelli che “non ho letto il libro ma ho visto il film”, esiste anche il film. L’acquisizione russa dell’UraniumOne è stata fata a pezzi, iniziando nel 2009. Chi l’assorbì fu la ARMZ Uranium Holding Co., parte della Rosatom, la quale ha completato l’acquisto nel gennaio 2013. Nel dicembre del medesimo anno la Rosatom ha poi riorganizzato i propri assetti smantellando la ARMZ. La UraniumOne è dunque ora una diretta sussidiaria della Rosatom, la stampa del mondo continua a dire che il problema del futuro è una eventuale presidenza Trump e l’Antonio di William Shakespeare chiamava i congiurati Bruto e Cassio “uomini d’onore”…
Marco Respinti
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