Pubblichiamo, in esclusiva per questo sito, un commento più articolato sulla sentenza della Corte Suprema USA riguardante Jack il pasticciere, della quale avevamo dato notizia ieri con un sintetico riferimento al suo contenuto. L’Autore, Marco Respinti, è da decenni conoscitore attento della culture e del mondo statunitensi. A lui si devono saggi e traduzioni importanti, a cominciare dalle opere più significative di Russell Kirk.
La sentenza della Corte Suprema federale degli Stati Uniti d’America giunta il 4 giugno 2018 a conclusione del caso Masterpiece Cakeshop, Ltd., et al. v. Colorado Civil Rights Commission et al. è da salutare con entusiasmo in ogni risvolto, compresi i limiti. Perché se al meglio non c’è mai limite, spesso l’ottimo è nemico del bene. Con grande realismo, sentenza migliore, rebus sic stantibus, non si poteva cioè ottenere. Sbaglia, dunque, chi rimpiange una sentenza “più completa”, magari “onnicomprensiva”: semplicemente perché non la si sarebbe mai potuta ottenere.
Con la sentenza del 4 giugno, la Corte Suprema ha infatti tutelato il diritto alla libertà religiosa del pasticcere Jack Phillips, cristiano protestante praticante, titolare della Masterpiece Cakeshop di Lakewwod in Colorado, che nel 2012 rifiutò di preparare una torta “nuziale” per una coppia omosessuale, David Mullins e Charlie Craig, argomentando che, se lo avesse fatto, sarebbe contravvenuto alla propria fede e alla morale che ne deriva (Phillips si rifiuta analogamente di preparare torte per feste di Halloween, addii al celibato, coppie divorziate e cose così), e che per questo è stato citato in giudizio, in primis dalla Colorado Civil Rights Commission, come discriminatore degli appartenenti alla comunità LGBT.

Il pasticcere Jack Phillips
Il 4 giugno il supremo tribunale statunitense ha dato ragione a Phillips semplicemente perché i suoi accusatori, nel tentativo di censurarne l’operato, hanno flagrantemente violato la legge fondamentale del Paese: nella fattispecie, il Primo Emendamento alla Costituzione federale degli Stati Uniti d’America che tutela il diritto alla fede, il diritto all’espressione pubblica di essa e conseguentemente la libertà di espressione dei cittadini, stabilendo che nessun potere, anzitutto quello dello Stato, può ingerirsi nella coscienza delle persone su una questione principiale e fondamentale qual è il rapporto personale con Dio, e quindi sulla morale personale e pubblica che ne deriva. È una questione assolutamente laica e oggettiva, tanto che la libertà religiosa può tutelare anche il diritto della persona a impostare e a risolvere negativamente quel rapporto basilare con Dio, per esempio garantendo la coscienza di un ateo da ogni costrizione religiosa esterna. Princìpi analoghi sono del resto adottati (al netto delle interpretazioni e delle applicazioni indebite) nelle convenzioni internazionali e nelle linee-guida sia delle Nazioni Unite sia dell’Unione Europea che stabiliscono i princìpi generali per la concessione dell’asilo politico per motivi religiosi a chi sfugge dalle persecuzioni, siano esse la cristianofobia in alcuni Paesi a maggioranza non cristiana, la persecuzione delle minoranze religiose in sistemi (neo)totalitari o addirittura l’ateismo in Paesi in cui le norme della religione coincidano rigidamente con quelle del diritto. Non è la concessione relativistica di un fantomatico, e dunque teologicamente inesistente, “diritto all’errore” (come si diceva un tempo), ma la presa d’atto oggettiva che, su un argomento così alto, altro e diverso qual è la religione, il potere politico e la legge positiva non hanno voce in capitolo se non per difenderne la massima libertà di espressione personale e pubblica, nella convinzione che non siano né il potere né la legge positiva i soggetti titolati a porvi limiti, ma che lo è semmai il diritto naturale e ultimamente Dio stesso.
Il Primo Emendamento alla Costituzione federale statunitense, entrata in vigore nel 1789, fu ratificato nel 1791 diventando parte integrante della carta costituzionale assieme agli altri nove emendamenti che formano il Bill of Rights. L’adozione del Bill of Rights segnò un momento alto e decisivo di una prima riconciliazione tra due fazioni, i federalisti e gli antifederalisti, combattutesi anche aspramente tra il 1789 e il 1791: i primi ‒ afferenti in gran parte al Partito Federalista ‒ erano fautori delle prerogative dello Stato centrale e i secondi ‒ afferenti in gran parte al Partito Repubblicano (da non confondersi con il partito omonimo odierno), poi Partito Democratico-Repubblicano ‒ erano i difensori di una prospettiva ‒ detta “States’ Rights” ‒ di tipo confederativo o più confederativo (tra il 1776, anno dell’indipendenza dalla Gran Bretagna, e il 1789, il Paese fu governato in base agli Articoli della Confederazione, la prima carta costituzionale delle ex colonie, revisionata a partire dal 1787 in ragione di alcune sue debolezze). I federalisti tennero a battesimo la Costituzione e gli antifederalisti non smisero, nemmeno dopo la sua adozione, di additarne pubblicamente i rischi d’involuzione centralistica. Il Bill of Rights fu quindi approvato per marcare con precisione i limiti dello Stato centrale e rivendicare i poteri spettanti ai singoli Stati dell’Unione. Gli antifederalisti ne salutarono l’adozione come una importante miglioramento della carta costituzionale, i federalisti sostennero che semplicemente ribadiva quanto in essa già contenuto, ma il punto decisivo è che, per stabilire i confini del potere politico e difendere la sussidiarietà, i Padri costituenti nordamericani non trovarono di meglio che porre a principio e fondamento della res pubblica l’intangibilità della coscienza umana nel suo rapporto intimo con Dio e la facoltà di esprimerne e viverne pubblicamente i contenuti, senza temere lo Stato, anzi costringendo lo Stato a servire proprio quell’intangibilità e quella libertà. Nel suo famosissimo We Hold These Truths: Catholic Reflections on the American Proposition (Premessa di Walter Burghardt S.J., Introduzione critica di Peter Lawler, Rowmand & Littlefield, Naham [Maryland] 2005), del 1960, il padre gesuita John Courtney Murray (1904-1967) – teologo dall’ecclesiologia problematica, ma interprete autentico di documenti fondativi degli Stati Uniti – scrive: «Il Bill of Rights statunitense non è un saggio di dottrina razionalistica settecentesca; è invece più un prodotto della storia cristiana. Dietro di esso non si staglia la filosofia dell’Illuminismo, ma quella filosofia più antica che è stata la matrice del Common Law. L’“uomo” di cui si garantiscono i diritti davanti alla legge e al governo è, che egli lo sappia o no, l’uomo cristiano che ha imparato a conoscere la propria dignità alla scuola della fede cristiana» (p. 53).
Il Primo Emendamento alla Costituzione federale degli Stati Uniti fonda dunque gli altri nove emendamenti, e i successivi, e lo fa stabilendo che la coscienza dell’uomo è in toccabile anzitutto nel suo rapporto con Dio, dunque nella morale che da quel rapporto deriva. Il diritto alla libertà religiosa configura così uno spazio d’immunità che la Costituzione statunitense difende, fondando in essa e su essa ogni altro diritto politico dei cittadini americani e idealmente facendo il paio con la Dichiarazione d’indipendenza del 1776, la quale afferma che il diritto alla vita, il primo dei diritti inalienabili dati all’uomo dal suo Creatore, è il principio primo del Paese, secondo questo schema: in primis sta il diritto intangibile alla vita, da cui deriva il diritto incoercibile alla libertà religiosa e questo stabilisce la legittimità di tutti gli diritti politici. Tutto l’assetto della società civile, della politica e delle istituzioni statunitensi si fonda sulla libertà religiosa, perché, come sottolinea il pensatore cattolico spagnolo Juan Donoso Cortés (1809-1853), dietro ogni grave questione politica vi è sempre una grave questione teologica (cfr. Saggio sul cattolicesimo, il liberalismo e il socialismo, trad. it., a cura di Giovanni Allegra [1935-1989], Rusconi, Milano 1972).
Il perimetro e l’argomento della sentenza della Cortese Suprema nel “caso Phillips” è questo, non altro. Ogni altro elemento, valutazione e considerazione può e deve essere ulteriore, persino secondario. E la ratio di quella sentenza si spiega proprio solo perché questo ne è il perimetro e l’argomento. Ecco perché.
Il verdetto è stato raggiunto il 4 giugno con una maggioranza di 7 voti contro 2. Attualmente, la Corte Suprema federale è così composta: quattro giudici sono di orientamento conservatore (il presidente John G. Roberts, Clarence Thomas, Samuel Alito e Neil M. Gorsuch), quattro quelli di orientamento liberal soprattutto su princìpi non negoziabili come la difesa della vita e il diritto alla libertà religiosa (Ruth Bader Ginsburg, Stephen Breyer, Sonia Sotomayor ed Elena Kagan) e l’ultimo ‒ in totale sono nove, eletti a vita, e possono dimettersi solo per motivi gravi e comprovati di salute ‒ è l’“indipendente” Anthony Kennedy, che però il più delle volte si schiera con i liberal. I conservatori sono cioè minoranza, e minoranza ‒ se si vuole ‒ è anche l’orientamento culturale cristiano del Paese considerato nelle sue espressioni mediatiche, economiche e di potere. Un verdetto di 7 a 2 favorevole al pasticcere Phillips significa allora che a difesa della libertà religiosa si sono schierati i quattro giudici conservatori, due dei quattro giudici liberal e il giudice “indipendente” anche contro il parere prevalente della “società”. Non hanno vinto cioè i conservatori, ma ha vinto la legge fondamentale del Paese “di minoranza” che difende come intoccabile il rapporto uomo-Dio, che sì i conservatori difendono “statutariamente”, ma che in questo caso, di fronte all’evidenza stringente dei fatti, è stata difesa anche da parte cospicua del fronte culturale e politico avversario dei conservatori.
La sentenza del “caso Phillips”, che giunge dopo sei anni di un contezioso di per sé inesistente proprio perché la carta costituzionale è sul punto nettissima (tanto da avere appunto convinto anche due giudici liberal e uno filo-liberal), e che però realisticamente nessuno di parte conservatrice pensava si sarebbe potuta vincere, è un precedente fondante che vincolerà tutti i casi successivi, se i giudici eventualmente in futuro chiamati a pronunciarsi su casi analoghi e su questa materia avranno la libertà e il coraggio di guardare l’evidenza dei fatti proprio come hanno fatto il 4 giugno i giudici liberal Stephen Breyer ed Elena Kagan, nonché il giudce filo-liberal Anthony Kennedy.
Chi dunque oggi rilevasse che la sentenza del 4 giugno non entri nel merito della questione generale del rapporto fra religione e cultura gay farebbe solo opera di realismo. Ovviamente la sentenza riguarda esclusivamente il “caso Phillips”. Né potrebbe essere altrimenti. Tutte le sentenze riguardano esclusivamente i casi a cui si applicano e per i quali vengono emesse. Immaginare che vi possa essere la “sentenza delle sentenze” capace di mettere fine per sempre a ogni e a qualsiasi caso giudiziario è utopistico, illusorio e ricorda l’atteggiamento un po’ illuminista e un po’ positivista di chi pretende di potere o di sapere scrivere la legge perfetta valida per tutte le stagioni. Tra l’altro, questo ucciderebbe il senso del diritto, che non è certo prevedere il futuro, ma normare l’esistente. Starà piuttosto ai giudici del futuro fare tesoro del 4 giugno 2018. Né la sentenza della Corte Suprema si smarrisce nel particolarismo: piuttosto giudica un caso particolare applicando il criterio universale sancito dal Primo Emendamento. È insomma una sentenza più che buona.
E per di più è pure l’unica possibile: se si fosse infatti cercato di ottenere una sentenza massimalistica che trascendesse il “caso Phillips” l’esito sarebbe stato verosimilmente ben diverso. Lo riconosce espressamente Michael L. Brown scrivendo sul sito Life Site News, non certo un luogo incline al compromesso, tra l’altro ponendo l’accento sul punto nodale della sentenza: «Come detto nel parere di maggioranza scritto da Anthony Kennedy, “l’ostilità [verso Jack Phillips] della Commissione [per i diritti civili del Colorado] era incoerente con le garanzie offerte dal Primo Emendamento secondo il quale le nostre leggi debbono essere applicate in maniera neutra verso la religione”. Anche se la Corte non ha emesso una sentenza sulla più ampia questione del conflitto fra le libertà della religione e i diritti LGBT, la sentenza costituisce un passo enorme nella giusta direzione».
Marco Respinti
Versione originale e completa dell’articolo pubblicato con il medesimo titolo
sul sito Internet del Centro Studi Livatino, Roma 6-06-2018
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