Per favore, diteci qualcosa che non sappiamo. Sette anni, dodici volumi e una sintesi per comuni mortali dopo, la commissione d’inchiesta presieduta da Sir John Chilcot per fare luce sul coinvolgimento britannico nella guerra in Iraq scoppiata nel 2003 ha partorito l’ovvio mercoledì 6 luglio.
Dice che la guerra non era l’unica opzione possibile allora, che non era necessario invadere subito l’Iraq, che le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein non si sono trovate, che le conseguenze dell’invasione militare sono state sottostimate, che il dopo-Saddam non è stato ben pianificato, che il governo britannico non ha raggiunto gli obiettivi che si era proposto, che si è fidato ciecamente del governo degli Stati Uniti sul piede di guerra. L’ovvio, appunto.
La commissione Chilcot ci ha messo sette anni, chissà quante sterline, ha riempito tonnellate di pagine, ha sentito decine e decine di testimoni, ha ammassato documenti e documenti, e tutto ciò che sa concludere è che quando si dichiara guerra a un Paese retto da un regime nazionalsocialista che ha già gasato migliaia di propri cittadini e che potrebbe offrirsi come base per la più temibile (allora) struttura terroristica del mondo avendo poco tempo per decidere il rischio di sbagliare c’è. Ma va? Sette anni, dodici volumi, tonnellate di pagine, decine di testimoni e chissà quante sterline dei contribuenti britannici per dire, al desco tranquillo di un bell’ufficio in centro con segretaria, aria condizionata e snack, che del senno di poi sono piene le botti. Nel luglio 2006 intervistai Dinesh D’Souza per Affari italiani, già analista politico alla Casa Bianca, avveduto commentatore delle cose che contano e gran sostenitore della guerra al terrore. Mi disse che se nel 2003 si fossero conosciute le cose che si sapevano nel 2006 nessuno sarebbe andato in Iraq. Già. Solo che nel 2003 quelle cose non le si sapevano, e quel che si sapeva ghiacciava il sangue nelle vene.
La reazione statunitense all’Undici Settembre aveva portato fuoco e tempesta sulle montagne e nelle grotte afghane. Fu un successo. Al Qaeda venne decimata e soprattutto ne furono divelte le strutture garantite dal regime dei talebani. Osama bin Laden ancora sfuggiva, ma tanto era così da che Bill Clinton se lo era lasciato scappare come un ragazzino in Sudan. Al Qaeda necessitava di un’altra base e l’Iraq di Saddam sembrò essere il Paese che poteva fornirgliela: uno Stato dotato di un esercito formidabile, di un apparato spionistico e repressivo da paura, già sterminatore di migliaia di concittadini senza nemmeno scomporsi. Se questo Iraq avesse efficacemente sostituito l’Afghanistan, il mondo sarebbe oggi cento volte peggio di quel che già è. E per rendersi davvero conto di chi era Saddam, anzi di chi era diventato e di cosa avrebbe potuto facilmente fare, basta risfogliare le pagine di Saddam. Ascesa, intrighi e crimini del peggior nemico dell’Occidente (Piemme, Casale Monferrato [Alessandria] 2003) di Carlo Panella.
Dopo sette anni, dodici volumi, tonnellate di pagine, decine di testimoni e chissà quante sterline dei contribuenti britannici, la commissione Chilcot dice oggi che Tony Blair non ha affatto mentito al suo Paese e al mondo come millanta invece chi lo paragona ad Adolf Hitler. Eppure la commissione Chilcot un suo perché ce l’ha. Serve a distrarre il mondo. Da chi? Da Hillary Rodham Clinton.
Con il pc di casa, e magari pure lo smartphone e il tablet, l’allora Segretario di Stato e oggi candidato alla presidenza degli Stati Uniti d’America ha canalizzato attraverso un server privato, non sicuro e non secretato, migliaia e migliaia di email riservate di governo alternando a esse i suoi cipicì, i suoi gossip, i suoi messaggi con le emoticon. Ammesso e non concesso che nessun nemico dello Stato americano, e dei suoi alleati, abbia mai intercettato illegalmente e pericolosamente le sue email e i dati sensibili in esse contenuti, se questa disinvolta distrazione di segreti di Stato l’avesse commessa la signora Hillary Smith di Vattelapesca sul Potomac codesta carampana in cerca di emozioni nuove sarebbe finita immediatamente sotto processo per ragioni tanto di per se evidenti che è palesemente superfluo spiegarle. Ma siccome quell’Hillary di cognome fa Rodham Clinton e gli affari di Stato se li gestisce in vestaglia dalla sua magione di Chappaqua, Stato di New York, dopo 18 mesi di tiritera il direttore dell’FBI, James Comey, dice che va tutto bene, che fa niente se nessuno ha mai ufficialmente autorizzato il Segretario di Stato Clinton a gestire i segreti del Paese con il server del salotto, che fa nulla se dalla sua cucina il Segretario di Stato Clinton ha distrutto e sottratto alla verifica parecchie email il cui contenuto non conosceremo mai e neanche perché quelle email il Segretario di Stato Clinton le ha distrutte e sottratte alla verifica. Perché? Perché, come dice senza mezzo termini Richard Manning, presidente del think tank “Americans for Limited Government”, Hillary «è un pezzo troppo grosso per finire in galera».
Dove altro dovrebbe infatti finire uno dei più alti funzionari di governo che espone la sicurezza intera di un Paese (di un Paese come gli Stati Uniti) alla mercé del primo che passa? Hillary si è sempre difesa dicendo che il suo server privato lo ha utilizzato per non dover andare tutti i giorni in ufficio con due pc, uno per le email private e l’altro per gli affari di Stato, ma è una di quelle risposte che se te la dà un adolescente gli molli un ceffone. Fatto sta che per l’FBI basta. Non ci avevamo pensato Signora Clinton, non avevamo valutato il peso eccessivo della sua borsetta; voglia accettare le nostre scuse più sincere: la strada per la Casa Bianca è la prima a sinistra, buona giornata.
Peccato però che l’ex Segretario di Stato e oggi aspirante presidente degli Stati Uniti sia lo stesso una bugiarda certificata propria dall’FBI – annota Deroy Murdock su National Review – in ben otto casi. 1) Hillary dice che usare un solo server era più comodo, ma il direttore Comey ha accertato che nei quatto anni di lavoro al Dipartimento di Stato Hillary né ha usati, cambiati, aperti e chiusi un numero enorme, come enorme è il numero di device che ha usato e ricusato. 2) Hillary dice di avere girato all’FBI tutto il materiale di lavoro transitato per quel server, ma il direttore Comey ha accertato invece che molto materiale di lavoro non è mai stato consegnato. 3) Hillary dice di non avere mai inviato materiale riservato di Stato con la propria e-mail personale, ma il direttore Comey ha accertato che sono state inviate sì informazioni riservate, altre “confidenziali”, altre addirittura top-secret. 4) Hillary dice di non avere comunque mai né mandato né ricevuto materiale riservato attraverso vie ufficiali pur gestite dal server di casa sua, ma il direttore Comey ha accertato che le email di quella natura sono più di 2000. 5) Hillary dice di avere comunicato con gli altri membri del Dipartimento di Stato attraverso il server ufficiale .gov che automaticamente salva copie degli scambi, ma il direttore Comey ha accertato che non esiste alcuna archiviazione automatica di quelle email poiché gestite appunto da un server privato. 6) Hillary dice di non avere mai ricevuto materiali contrassegnati come “riservati”, ma il direttore Comey ha accertato che anche in assenza di tale contrassegno chi sa che si tratta di materiali riservati deve fare di tutto per proteggerne il contenuto. 7) Hillary dice che il sistema informatico utilizzato a casa sua era stato appositamente predisposto con tutte le cautele e le sicurezze necessarie, ma il direttore Comey ha accertato che la Clinton ha abbondantemente usato email private anche all’estero, in territori instabili e in zone dove operavano ostili altamente sofisticati sul piano tecnologico e informatico. 8) Hillary dice di avere sempre trattato con serietà le informazioni riservate, ma il direttore Comey ha accertato che la Clinton ha gestito segreti di Stato con l’accuratezza dell’orso Yogi e attraverso server che danno meno garanzie di Gmail.
Ordunque, cosa nasconde al mondo il prossimo (con enorme probabilità) presidente degli Stati Uniti d’America, e cosa fa del direttore dell’FBI James Comey, che di per sé possiede materiali per inchiodare Hillary Clinton per sempre, un suo lacchè di tal fatta?
Marco Respinti
Versione completa e originale dell’articolo pubblicato con il titolo
Quel doppiopesismo ipocrita su Blair e Hillary
in l’intraprendente. Giornale d’opinione dal Nord,
Milano 8-07-2016
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