Quando Matteo Renzi era ancora sindaco di Firenze un giorno mi trovai costretto ad alzare la cornetta dell’apparecchio che avevo sul desco della redazione in cui allora lavoravo per chiamare il numero di telefono posto in calce a tutto quelle email che la sua segreteria sfornava a getto continuo. Nella mailing-list ci ero finito per fare il mio mestiere, tenermi informato, ma mai mi sarei aspettato un diluvio simile, regolarmente sul nulla cosmico. Arrivava un comunicato per ogni inezia e ogni più banale spostamento del sindaco veniva annunciato. Chiamai pregando che rimuovessero il mio indirizzo dall’elenco degl’invii. Lo fecero. Solo che adesso non posso fare lo stesso con i tiggì che sembrano l’agenda della sua agenzia viaggi. Renzi è sempre in giro, un giorno qua e l’altro là, chissà quando trova il tempo di occuparsi della catastrofe Italia.
Oggi e domani per esempio è a New York. Tra i suoi molti impegni, oggi ha partecipato a un dibattito organizzato della Clinton Global Initiative (CGI) e moderato dall’ex presidente Bill Clinton. Che si dà il caso sia anche il marito di Hillary, già senatrice, già Segretario di Stato, attualmente in corsa per la Casa Bianca. Insomma, un’ingerenza bella e buona nella vita politica di un Paese straniero, speculare all’incidente diplomatico appena causato dalle improvvide esternazioni dell’ambasciatore americano in Italia, John Philips, latore del “Sì” dell’esecutivo guidato da Barack Obama, grande sponsor di Hillary Clinton, al Referenzum prossimo venturo. Praticamente uno scambio di carinerie (in cui ha ficcanasato anche Angela Merkel con un secondo “Sì” alle riforme costituzionali renziane). Del resto ci sta. In Italia Renzi governa senza essere stato eletto. Negli Stati Uniti Obama governa senza ricordarsi più dove ha messo la sua copia della Costituzione. Volete che qualcuno obietti qualcosa a questo ennesimo schiaffo antidemocratico ai popoli sovrani di Italia e Stati Uniti?
Nessuno. Esattamente come nessuno aggrotta le ciglia per il fatto che a New York il premier italiano sia ancora una volta di casa (è già successo: nel settembre 2014, un anno esatto dopo e ancora nell’aprile di quest’anno) alla Bill, Hillary & Chelsea Clinton Foundation, la CGI (sua controllata) essendo semplicemente una vetrina davanti alla quale l’ex presidente e l’ex First Lady fanno sfilare i propri amici internazionali. Perché la Clinton Foundation (e il suo network di scatole cinesi) è al centro di uno degli scandali politici più clamorosi degli ultimi decenni. Le rivelazioni sui traffici della Fondazione sono all’ordine del giorno. Da prima ancora che Hillary si candidasse (2015) un mensile al di sopra di ogni sospetto come The Atlantic parlava di gigantesco conflitto d’interessi. Da prima ancora (2007) sempre The Atlantic raccoglieva l’autorevole parere di Ira Magaziner, ancora oggi vicepresidente esecutivo della Clinton Health Access Initiative nonché capo di alcuni progetti della Clinton Climate Initiative (altre due ramificazioni della Fondazione “di famiglia”), il quale definiva l’interesse del network clintoniano per le fonti di energia e i mutamenti climatici «[…] un impegno commerciale. Questa non è carità». Da sempre, cioè, la Clinton Foundation è un problema enorme.
Quell’industria dei favori dell’omonima famiglia (come la definisce Stephen F. Hayes su The Weekly Standard del 5 settembre) ha regolarmente beneficiato della generosità di faccendieri e arraffoni di mezzo mondo cui Hillary da Segretario di Stato ha fatto ponti d’oro mentre suo marito Bill svolgeva pagatissime conferenze di copertura: dall’avere chiuso un occhio su Boko Haram all’avere ceduto alla Russia di Vladimir Putin il 20% della produzione di un asset strategico come l’uranio. Forse la coppia ha persino allungato un aiutino alla repressione comunista cinese. E tutte le volte che qualcuno ha provato a sollevare il velo di omertà, il “servizio d’ordine” del clan Clinton è entrato in azione per consigliare di lasciar perdere, come osserva l’analista Peter Schweizer nella nuova introduzione all’edizione paperback, uscita nel 2016 (un anno dopo l’edizione originale), del suo Clinton Cash: The Untold Story of How and Why Foreign Governments and Businesses Helped Make Bill and Hillary Rich (Harper, New York), il libro da cui è stato tratto l’omonimo documentario al fulmicotone.
L’ultima rivelazione in ordine di tempo (la fonte è il fisco) dice che nel 2014 la Fondazione esentasse ha speso la bellezza di 91,2 milioni di dollari, frutto di donazioni, destinandone però soltanto il 5,7% (meno di 5,2 milioni di dollari) a quelle attività filantropiche che sulla carta sono la sua unica ragion d’essere e l’unico motivo per cui è titolata a ricevere elargizioni liberali senza pagarvi le imposte. Ha speso per esempio di più in viaggi (7,9 milioni) e in locazioni di uffici e materiali relativi (6,6 milioni). Persino il valore degli ammortamenti che risultano dalla sua dichiarazione dei redditi è stata maggiore della carità per fare la quale la Fondazione ufficialmente esiste (5,3 milioni). E quando finalmente si arriva alle briciole devolute per filantropia la cifra maggiore (2 milioni) è quella versata all’Alliance for a Healthier Generation (AHG), cioè un progetto comune dell’American Heart Association e della… Clinton Foundation. Del resto il presidente del consiglio direttivo della Clinton Foundation nel 2014, Bruce Lindsey, figurava anche nel consiglio direttivo dell’AHG, che (sempre secondo il fisco) dei 16,3 milioni di dollari spesi in quell’anno in quanto organizzazione di beneficienza alla beneficienza ne ha destinati solo il 2,1% (349.022 dollari).
La donazione maggiore fatta dalla Clinton Foundation a una organizzazione non finanziata dalla Clinton Foundation o gestita da uno dei suoi consiglieri direttivi sono i 700mila dollari fatti avere alla J/P Haitian Relief Organization, la no-profit fondata dall’attore liberal Sean Penn che quest’anno voterà Hillary per sconfiggere il «populismo masturbatorio» di Trump considerando l’attuale dibattito interno ai Repubblicani una «defecazione sugli Stati Uniti». Per i viaggi aerei in prima classe della star la sua J/P Haitian Relief Organization nel 2014 ha speso più di 126mila dollari (sarà poi solo un caso che ciò ruoti attorno ad Haiti, dove la Clinton Foundation ha abbondantemente intrallazzato durante la ricostruzione seguita al terremoto del 2010, piazzando pure Tony Rodham, il fratello di Hillary, nel consiglio di amministrazione di un’azienda totalmente prima di know-how cui però il governo di Port-au-Prince ha concesso il primo permesso di estrazione mineraria in 50 anni). In coda vengono dunque i 200mila dollari dati alla Tiger Woods Foundation del noto golfista e i 37.500 dollari alla Sesame Workshop che a New York produce programmi educativi per bambini.
Attualmente la Fondazione (sempre secondo il fisco) vanta un patrimonio di 354 milioni di dollari, di cui 125 milioni in contanti o equivalenti e 108 in proprietà o attrezzature varie. Se questo è il passato, immaginiamoci cosa potrebbe succedere caso mai Hillary, la donna degli scandali, sedesse alla Casa Bianca sulla poltrona più importante del mondo, come opportunamente si chiede National Review.
Tornando all’Italia, vale la pena di ricordare che i rapporti tra il nostro governo e la Clinton Foundation intercorrono sereni da tempo. Il nostro ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare è tra i finanziatori, con assegni di Stato, dell’istituzione newyorkese, assieme al Monte dei Paschi di Siena, la banca di sinistra salvata con denaro pubblico dal nostro governo di sinistra. Egualmente idilliaci sono i rapporti che uniscono il governo italiano di sinistra e la Sinistra nelle istituzioni italiane alla Sinistra americana che governa oggi e vogliosa di farlo pure domani, come ci ricordano il viaggio di Laura Boldrini e il selfie di Maria Elena Boschi con Bill Clinton alla Convenzione nazionale del Partito Democratico americano che in luglio, a Filadeflia, ha nominato Hillary candidato presidenziale. Un gran bel girotondo, insomma.
Marco Respinti
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