Da un lato “The Donald” dall’altro “The Bern”: Donald Trump e Bernie Sanders sono la “pancia” di pezzi importanti di Stati Uniti. Il secondo è tutto da scoprire. Nel 1972 scrisse sul settimanale Vermont Freeman che nelle loro fantasie sessuali le donne sognano di essere stuprate. E sul suo sito Internet al Senato ha più di recente postato un articolo di Judith Levine, scrittrice, tesserata della potentissima American Civil Liberties Union, membro delle “No More Nice Girls” (un gruppo che promuove l’aborto con lo “street theater”), avvocato dell’attenuazione delle leggi contro pornografia minorile, sesso con minori e aborto per minorenni, nonché famosa per Harmful to Minors: The Perils of Protecting Children from Sex (University of Minnesota Press, Minneapolis 2002), libro-scandalo prefato da Joycelyn Elders, pediatra, Surgeon General (capo della Sanità militare non combattente e portavoce del governo per la Salute pubblica), oggi docente universitaria, favorevole alla legalizzazione della droga e alla distribuzione di contraccettivi nelle scuole, licenziata dal presidente Bill Clinton nel 1994 dopo avere detto che per impedire ai giovani il sesso rischioso bisogna promuovere la masturbazione.
Bernard “Bernie” Sanders ha 74 anni, è al Congresso dal 1990 (sette mandati da deputato e due da senatore del Vermont, prima ha fatto il sindaco), si riconosce spavaldamente in una ideologia, il socialismo, vinta dalla storia e negli Stati Uniti in declino vorticoso dagli anni 1960, ma «rappresenta chiaramente il futuro del partito». Chi lo afferma, Jack Ross sulle pagine del periodico The American Conservative, sa cosa dice: il suo The Socialist Party of America: A Complete History (Potomac Books, Lincoln [Nebraska] 2015) è già un classico.
Oriundo polacco nato a Brooklyn, autodefinitosi “ebreo secolarizzato”, attivista al fianco di Martin Luther King e veterano di un kibbutz israeliano, Sanders è la guerra a ciò che Hillary Clinton simboleggia: l’imborghesimento neoliberale del Partito Democratico, più di casa fra i tycoon di Wall Street che negli slum degli “ultimi”. Ma nonostante la retorica a metà tra romanzo di Charles Dickens e neorealismo fotografico in bianco e nero da Grande Depressione, Sanders è sul serio il domani della Sinistra americana. L’enorme favore popolare che la sua certamente perdente sfida all’establishment sta incontrando ne è il segno. La forbice della politica americana si sta infatti rapidamente allargando; la Sinistra sarà sempre più sinistra e la Destra dovrà essere sempre più se stessa per non soccombere a quel “trumpismo” che per i Repubblicani doc è solo un marchio contraffatto. Se la Clinton dovesse diventare il prossimo presidente degli Stati Uniti, il processo di radicalizzazione “sandersista” della Sinistra rallenterebbe un poco, ma se il nuovo presidente fosse un Repubblicano l’accelerazione sarebbe immediata. Eppure sarebbe un errore considerare la Clinton un antidoto al “sandersismo”: Hillary e Bernie sono infatti la tesi e l’antitesi di un medesimo processo funzionale a una nuova sintesi. Sanders è la nemesi storica della Clinton, lo spirito dei suoi “Natali” passati che ritorna per completare l’opera. Chi lo sa meglio di tutti è Sanders, che con una campagna elettorale guascona e apparentemente da loser, punta a una cosa sola. Assicurarsi che il centrismo strategico adottato dai coniugi Clinton saliti in società dopo gli anni ruggenti della contestazione non uccida la Sinistra americana. Il “sandersismo” è la “minoranza dem”, e nella Sinistra USA il suo futuro non è affatto lo sconfittismo lamentoso, chiunque vinca le primarie, chiunque siederà alla Casa Bianca.
Sul versante opposto, le speranze dei conservatori che non si arrendono all’ineluttabilità del trumpismo sono appese a
Ted Cruz e a John Kasich.
Rafael Edward “Ted” Cruz è nato nel 1970 a Calgary, in Canada, da padre cubano e madre statunitense, una famiglia spiccatamente conservatrice che lo ha allevato nel cristianesimo evangelical dei born-again (suo padre ha lasciato il cattolicesimo nel 1975). Cittadino statunitense dal 2005, si è laureto alla Princeton University nel 1992 e tre anni dopo si è addottorato alla Harvard Law School. I primi passi in politica li ha mossi accanto al futuro presidente della Camera John Boehner e poi come consigliere di George W. Bush Jr. ai tempi in cui questi era governatore del Texas. Nel 2003 è diventato ministro della Giustizia dello Stato del Texas praticando quel letteralismo costituzionale per cui sono famosi i giuristi conservatori, ma la vera ribalta l’ha ottenuta nel 2012 con l’elezione al Senato federale sull’onda del movimento dei “Tea Party”. Ed è con questo suo spirito barricadero e al contempo black tie che Cruz mira a guidare il Paese. Contro l’aborto, contro il “matrimonio” gay, contro l’“Omabacare”, contro la legalizzazione delle droghe, antiambientalista, per il libero mercato spinto, per la libera circolazione di armi da fuoco, per la pena di morte, durissimo contro l’immigrazione illegale, falco in politica estera, Cruz è oggi l’emblema di quel “Dio, patria, famiglia” con cui il movimento conservatore ha conquistato il Partito Repubblicano.
Il quale ha ancora un centro moderato, ma fatto di un personale che solo pochi hanno fa i liberal – allora assai diffusi pure tra i Repubblicani – avrebbero giudicato nettamente di destra. Emblema tipico ne è John Richard Kasich, classe 1952, originario della Pennsylvania e attuale governatore dell’Ohio antiabortista, anti “nozze” LGBT, contrario alle droghe, nemico dell’ecologismo radicale, favorevole a un fisco ultraleggero, sostanzialmente favorevole all’uso personale delle armi, contrario allo ius soli e interventista in politica estera.
Che differenza passa tra Cruz e Kasich? Lo stile, poi l’enfasi. Per questo gli osservatori più lucidi si stanno chiedendo perché i Repubblicani conservatori, che sono maggioritari, si ostinino a farsi la guerra favorendo la minoranza “trumpista”.
Marco Respinti
La lunga corsa all’Election Day
Negli Stati Uniti l’elezione, ogni quattro anni, del presidente e del vicepresidente federali sono un processo lungo, laborioso e costoso. Sono però anche il modo concreto con cui gli elettori influenzano i partiti (assenti dalla Costituzione) e scelgono i candidati finali che si sfidano nell’Election Day, fissato dalla Costituzione al martedì che segue il primo lunedì di novembre, quest’anno l’8.
L’elezione avviene attraverso le primarie nei primi sei mesi dell’anno (le candidature sono annunciate e poi ufficializzate molto prima). I maggiorenni che lo desiderano si registrano per votare i candidati di uno dei partiti in corsa e questo, con leggi elettorali diverse, avviene Stato per Stato (50 più i territori oltremarini dipendenti dagli USA, che però votano solo nelle primarie e non alla fine per il presidente). Alcuni Stati votano con sistema proporzionale talora corretto in maggioritario al superamento di una certa soglia di consensi, altri con il sistema “winner-takes-all” (chi vince di più prende tutto), altri ancora con il criterio “winner-takes-most” (premio di maggioranza). In alcuni Stati i cittadini “indipendenti” possono votare anche se non si sono prima registrati per uno dei partiti. Anche il calendario delle primarie varia da anno ad anno, e non è lo stesso per tutti i partiti. Partiti in lizza ce ne sono diversi, ma i più ottengono consensi da prefisso telefonico e gli unici veri contendenti sono i Repubblicani e i Democratici.
Con le primarie il voto popolare assegna ai candidati in corsa un certo numero, che varia da Stato a Stato e da partito a partito, di delegati alla Convenzione nazionale del partito che alla fine incorona il candidato presidenziale; la Convenzione Repubblicana sarà quest’anno a Cleveland, in Ohio, dal 18 al 21 luglio, e quella Democratica a Filadelfia dal 25 al 28. Alcuni delegati eletti nelle primarie sono vincolati (bound) ai candidati in lizza, altri no (unbound) e alla Convenzione decideranno chi sostenere. Con libertà di voto ci sono anche i “superdelegati” Democratici, i numerosissimi maggiorenti del partito, e i pochi capi locali Repubblicani. Per ottenere la nomination occorre la metà più uno dei delegati totali: quest’anno 1237 su 2472 per i Repubblicani e 2382 su 4763 per i Democratici. Se nessuno dei candidati in gara ottiene la maggioranza durante le primarie, decidono le Convenzioni nazionali chiamando a votare i delegati eletti ma oramai svincolati dal candidato di riferimento. È quella che si chiama “Convenzione aperta”. M.R.
Versioni complete e originali degli articoli pubblicati
il primo con il titolo L’altra faccia dei democratici e i repubblciani duri e puri
e il secondo con il medesimo titolo
in il nostro tempo, anno 71, n. 13, Torino 03-04-2016, pp. 1 e 9
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