Quindici anni fa è scoppiata la Quarta guerra mondiale, anzi ci è stata scatenata addosso. Quando l’11 settembre 2001, alle soglie del Terzo millennio, due aerei civili vennero scaraventati con tutto il proprio carico umano contro le Torri gemelle di New York, un terzo contro il Pentagono di Washington e un quarto fu abbattuto sopra la Pennsylvania dall’eroica resistenza dei passeggeri prima che si schiantasse sull’obiettivo ci accorgemmo che la storia invece di essere finita ‒ come qualcuno scioccamente aveva pensato ‒ si risvegliava assalendoci. Un’intera generazione, allora, si destò di soprassalto, assalita da questa realtà drammatica. Sono stati anni straordinari. Da un lato la morte, il lutto, l’angoscia, la distruzione. Il venire meno di tutte le certezze, il terremoto più terribile che squassa senza preavviso e uccide senza posa. Dall’altro però la presa di coscienza, nobile e orgogliosa: in quegli anni, formidabili, abbiamo scoperto, o meglio ricordato perché gravemente ce n’eravamo dimenticati, di avere un nome, di essere qualcuno. L’Occidente, pur stanco e avvilito, riscoprì di esistere. Avevamo appena vinto la Guerra fredda, la Terza guerra mondiale, ma siccome il nostro peccato maggiore è l’ingratitudine, avevamo già archiviato la cosa come se fosse stata di poco conto. Avevamo già mandato in soffitta proprio l’idea Occidente, ci eravamo già scordati quanto quella guerra invisibile fosse costata, avevamo già licenziato i suoi eroi e i suoi leader. Fu l’Undici Settembre che la coscienza dell’Occidente ebbe un soprassalto e tornò all’amor proprio.
Non era la prima volta che accadeva. La storia del nostro essere Occidente era nata più di mille anni prima proprio allo stesso modo. Era il 732, in quella che oggi si chiama Francia. Alla confluenza dei fiumi Clain e Vienne, l’esercito cristiano attendeva le schiere arabo-berbere capitanate da ‘Abd al-Raḥmān ibn ʿAbd Allāh al-Ghāfiqī (†732), governatore delle terre iberiche islamizzate e rinominate al-Andalus. Due mondi irriducibili si affrontavano sul campo di battaglia una volta per tutte. Quel giorno il monaco lusitano Isidoro Pacensis era lì; e a beneficio di noi, venuti secoli dopo, scrisse tutto. Per due volte nel suo Chronicon Isidoro chiama «europei» i soldati cristiani. Per due volte il monaco usa coscientemente l’aggettivo sostantivato «europei» per indicare l’identità che accomunava quegli uomini i quali per ciò stesso si distinguevano dai musulmani. Quel giorno decisivo per la prima volta gli europei vennero percepiti come un’unità di cultura e di civiltà proprio perché di quella cultura e di quella civiltà erano gli alfieri e i difensori. Attaccati, sapevano dire alto e chiaro il proprio nome, dire adsum!, «presente».
L’Occidente nasceva quel giorno perché l’Occidente non è altro che l’ampliarsi di quell’Europa in una unità più grande costantemente assalita da nemici lucidissimi che bene hanno sempre saputo chi noi siamo anche quando noi stessi ce ne siamo scordati. Per questo, mai per altro, ci hanno odiati e aggrediti; per questo ci odiano e ci aggrediscono da quindi anni.
Noi occidentali, il cui secondo peccato è l’imborghesimento, ci siamo scordati di chi siamo e del perché esistiamo, dunque del perché da fuori ci detestano e assaltano, più spesso di quanto lo abbiano fatto i nostri nemici e per questo abbiamo subito in molte, troppe occasioni. Oggi, per esempio. Gli anni straordinari di tragedia e speranza che sono seguiti all’Undici Settembre sembrano lontani anni-luce. Abbiamo ripreso a sputarci addosso allo specchio, a denigrarci da soli, a farci male senza alcun bisogno di concorso esterno. Il nostre terzo peccato si chiama del resto democrazia ed è il nome che, colti in flagrante, imbarazzati, diamo all’autolesionismo per schermirci. Il quarto nostro peccato essendo la vergogna di quel che siamo, siamo sempre i primi della classe con la macchina del fango sui noi stessi, i primi a toglierci il terreno da sotto i piedi, i primi a volerci male. I nostri nemici di fuori sono così tanti e così violenti proprio per questo: direttamente proporzionali al male che ci vogliamo e ci facciamo da soli.
Quindici anni fa ci è stata scatenata addosso la Quarta guerra mondiale e noi oggi chiediamo scusa ai nostri carnefici di esistere. Abbiamo bisogno di capi che ci conducano in battaglia, ma in magazzino non ne abbiamo più, e più le prendiamo, più diciamo che nessuno ce le sta dando.
Ora più che mai è invece venuto il momento di una nuova Poitiers, di tornare a rendersi conto di chi siamo, occidentali definiti da ciò che ci differenzia incommensurabilmente dai nostri nemici. Per farlo bisogna decidersi a scendere sul campo di questa guerra che, come le precedenti, non abbiamo voluto, odiamo, ma non di meno ci dice, drammaticamente, ciò che davvero siamo. Finirà, il giorno che finirà, soltanto se oggi torniamo a sventolare alta nel cielo la nostra bandiera, a dire adsum!, «presente». Ne vale la pena. Basta guardare fuori dalla finestra per rendersene sempre e comunque conto. Spesso non siamo davvero i migliori, ma gli altri sono sempre i peggiori. È per questo che quindi anni fa è cominciata, è per questo che continua più cruda che mai, è per questo che dobbiamo combatterla e vincerla.
Marco Respinti
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