Enzo Pennetta, biologo, curatore a Roma del portale Critica Scientifica,
ripubblica il mio articolo con una pregevole introduzione
La mela di Newton, estensione web dell’Almanacco della scienza di MicroMega, Telmo Pievani, responsabile entusiasticamente darwinista sia del blog sia dell’”Almanacco”, pubblica l’articolo La falena delle betulle sbaraglia i creazionisti. Il caso è quello, citato in ogni libro di testo, della falena punteggiata delle betulle, Biston betularia, in inglese peppered moth. Nel distretto industriale della Manchester ottocentesca si sarebbe scurita imitando le betulle imbrunite dalla fuliggine e dalle piogge acide causate dall’inquinamento della Rivoluzione Industriale onde continuare a nascondersi dai predatori. Per Pievani (che per tutto l’articolo si produce in una prosa inutilmente sardonica) è uno dei «[…] tantissimi esempi probanti un’evoluzione darwiniana in atto» e un «[…] archetipo della spiegazione darwiniana» per effetto di un articolo comparso sul numero datato 2 giugno della prestigiosa rivista Nature, a cui vanno certamente aggiunti un secondo articolo e l’editoriale “benedicente” che Pievani non cita. Pievani sunteggia il primo spiegando che un’équipe formata da otto specialisti dell’Istituto di Biologia integrativa dell’Università di Liverpool e uno del Wellcome Trust Sanger Institute di Hinxton, in Inghilterra, «[…] ha scoperto che la mutazione all’origine del melanismo industriale in Inghilterra consiste nell’inserzione di un grosso elemento trasponibile nel primo introne del gene cortex (preposto alla divisione cellulare, ma coinvolto anche nel mimetismo attraverso la sua azione sullo sviluppo delle ali delle falene)», un “gene saltatore” responsabile della novità adattativa. Ovvero: un pezzo del DNA che salta da una parte all’altra del genoma è finito dentro un certo gene influenzandone il comportamento.
Questa però non è affatto «evoluzione darwiniana in atto». Il rimescolamento delle informazioni genetiche esistenti in una specie è infatti cosa completamente diversa dalla comparsa dal nulla d’informazioni genetiche nuove. I due fenomeni sono noti come microevoluzione e macroevoluzione. La prima è la variabilità interna a una specie, la seconda la nascita di una specie completamente nuova per trasformazione sostanziale di una vecchia (speciazione). Li divide l’abisso che corre tra un fatto osservato e un’ipotesi mai provata.
Del resto le falene chiare e scure coesistono: non sono una specie trasformata in un’altra. Quella scura (carbonaria) non è un’altra falena; è la stessa falena chiara (typica) che sviluppa appieno una possibilità prima attuata in modo limitato: è detta “punteggiata” proprio perché il pigmento scuro c’è benché limitato ad aree specifiche (i puntini neri sulle ali). Il fenomeno è ben noto e si chiama polimorfismo. Ne sono responsabili gli alleli, le due o più forme alternative del medesimo gene che si trovano nella stessa posizione su ciascun cromosoma omologo. Controllano lo stesso carattere, ma possono portare a risultati quantitativamente o qualitativamente diversi: la Donax variabilis, un mollusco bivalve, esiste in varie forme diversamente colorate; le pantere nere sono solo giaguari e leopardi melanici. La ricerca della succitata équipe di scienziati ha dunque scoperto il “gene saltatore” che rende scure le falene. Chapeau. Ha scoperto anche la data del suo “salto” nel genotipo di quei lepidotteri, circa il 1819, molto prima (30 generazioni, stante che il ciclo riproduttivo delle falene si ripete ogni anno) dei primi rilevamenti di fenotipi scuri, verso il 1848, cioè prima anche di una presenza massiccia di fabbriche. Chapeau. Dunque la comparsa di una nuova specie per adattamento agli effetti dell’inquinamento non c’è e la mutazione mimetica per sopravvivere nemmeno (le falene non riposano sui tronchi degli alberi, ma sui ramosi frondosi più alti e gli uccelli le predano soprattutto in volo): per quale motivo si dovrebbe allora parlare di evoluzionismo?
Negli uomini accade la stessa cosa. La melanina, che dà la pigmentazione estesa a tutto il corpo degli africani subsahariani, è presente in tutti gli uomini; è quella che, stimolata dalla radiazione solare, è responsabile dell’abbronzatura estiva dei bianchi (l’assenza totale di melanina provoca infatti negli uomini l’albinismo, che ha caratteri paragonabili a quelli di una patologia). I neri sono geneticamente uguali ai bianchi ma la loro cute è più adatta alla vita in un preciso contesto. La pelle nera protegge dai melanomi, che sono mutazioni genetiche (patologiche come tutte le mutazioni genetiche) indotte dai raggi ultravioletti; motivo per cui d’esatte i bianchi si cospargono di protettivi solari.
Ogni presunta prova fornita dai neodarwinisti è insomma sempre e solo la constatazione di un caso di variabilità interna a una specie (microevoluzione), mai di speciazione dal nulla (macroevoluzione). Nessuno infatti mette oggi in dubbio la variabilità e la selezione naturale, nemmeno i più incalliti tra i creazionisti come dicono proprio i più incalliti tra i creazionisti (anche se si può legittimamente contestare la felicità dell’espressione). La selezione è osservabile: praticata dall’allevatore, dall’agricoltore o da un “attore” ecologico diverso. Ma è una scelta limitata entro un ambito dato, non la produzione dal niente di geni nuovi. Lo scrive l’équipe scientifica nell’articolo citato da Pievani: «le nostre scoperte colmano una sostanziale vuoto di conoscenza riguardo l’esempio-simbolo del cambiamento microevolutivo, aggiungendo un ulteriore livello di comprensione del meccanismo di adattamento in risposta alla selezione naturale». Nell’introduzione all’edizione del 1972 de L’origine delle specie di Darwin, lo zoologo evoluzionista inglese Leonard Harrison Matthews (1901-1986) ha scritto che gli esperimenti sulle falene «dimostrano meravigliosamente la selezione naturale […] in atto, ma non mostrano l’evoluzione in divenire; perché, per quanto le popolazioni possano variare nel numero di esemplari chiari, intermedi o scuri, tutte le falene rimangono, dall’inizio alla fine, Biston betularia». Niente evoluzionismo, il caso è archiviato da tempo; quella pubblicata da Nature è una bella storia che parla di altro.
Marco Respinti
Tempi duri per lo storione pallido. Vive esclusivamente nello Stato nordamericano del Missouri e l’Unione mondiale per la conservazione della natura dice che è in pericolo di estinzione a causa di una progettata diga sul fiume Yellowstone che impedirebbe al pesce di raggiungere le acque più adatte per lo sviluppo di uova e larve. Ne rimarrebbero in tutto solo 125 esemplari e anche questi rischiano di avere i giorni contati. Lo afferma The New York Times e l’agenzia ANSA lo riprende ricordando che la progettata diga è al centro di una lite tra agenzie governative – che vorrebbero costruirla salvaguardando comunque un canale di passaggio per i pesci – e le sigle ecologiste che hanno il dente avvelenato.
Ora, quale che sia la verità sulle sorti dello storione pallido del Missouri, questa notizia non esattamente travolgente ne contiene un’altra ben più seria che però gli organi di stampa buttano lì in modo tanto sfumato da sbiadirla. Lo storione pallido del Missouri – dice The New York Times e l’ANSA riprende – potrebbe non superare oggi una diga eppure è stato capace di sopravvivere ai formidabili dinosauri, che si sarebbero estinti quasi 66 milioni di anni fa. E non solo è sopravvissuto per quei milioni e milioni di anni, ma per quei milioni e milioni di anni non è cambiato di una sola squama.
Oltre allo Scaphirhynchus albus (questo il suo nome scientifico), classificato nel 1905, per quegli stessi milioni e milioni di anni non sono però cambiati nemmeno tutti gli altri suoi cugini storioni delle diverse specie sparse per il mondo (e un po’ tutte a rischio di estinzione). Anzi, tutti gli storioni del mondo non sono minimamente cambiati per un numero ancora maggiore di milioni e milioni di anni. Della famiglia Acipenseridae cui appartengono gli storioni, classificata nel 1831, le prime tracce fossili risalgono a un periodo indicato tra i 245 e i 208 milioni di anni fa: ebbene, da allora tutti gli storioni sono rimasti perfettamente invariati e i reperti fossili non presentano alcuna differenza rispetto agli esemplari odierni. Gli storioni sono nati storioni e storioni sono sempre rimasti nonostante quel che dice l’evoluzionismo. Non si sono trasformati, non hanno generato specie nuove e nemmeno si sono estinti.
È un fenomeno noto come “effetto Lazzaro”, forme arcaiche che si mostrano identiche a quelle odierne, animali preistorici ancora vivi oggi, specie che dovrebbero essere “morte” e invece “risuscitate”. Sono analoghi ai cosiddetti “fossili viventi”, animali che la logica evoluzionista vorrebbe estinti in ragione del loro “primitivismo” e che invece sono perfettamente attuali (in pratica le due espressioni sono sinonimi e infatti vengono usate in maniera interscambiabile). Per l’ipotesi evoluzionista, che sostiene la graduale trasformazione delle specie viventi le une dalle altre con scarto di quelle meno adatta alla vita, sono oltremodo imbarazzanti. È lo stesso Charles Darwin (1809-1882), il padre dell’evoluzionismo, a coniare l’espressione “fossile vivente” nel capitolo IV della prima edizione del suo arcinoto L’origine delle specie (1859): non sapendo infatti come cavarsela davanti all’evidenza di specie che per la sua ipotesi non dovrebbero esistere affatto ma che invece spavaldamente esistono, il naturalista inglese se la cava sbrigativamente definendole «forme anomale», anzi «aberranti», sopravvissute soltanto come eccezioni perché isolate dal resto del mondo in evoluzione.
Ma non è così. Perché a fare compagnia allo storione pallido del Missouri e ai suoli vecchissimi cugini in giro per il mondo ci sono centinaia di altre specie sia animali sia vegetali (ne ricordo diversi esempi nel mio Evoluzione. Dubbi e obiezioni). Anzi, se ne scoprono sempre di più. L’intero regno dei viventi pullula di “Lazzari” e di “fossili viventi” che ogni giorno, da milioni e milioni di anni, sfidano quell’ipotesi trasformista dell’evoluzionismo che ancora non riesce a produrre uno straccio di prova di sé. Il più celebre è il celacanto, un altro pesce, dato a lungo certamente per scomparso assieme ai dinosauri e invece ritrovato in due varianti, una al largo del Sudafrica, dove i pescatori lo conoscono da sempre, e l’altra in Indonesia, nientemeno che al banco del pesce in un mercato di Sulawesi nel 1997.
Marco Respinti
Versione completa e originale dell’articolo pubblicato con il titolo
Uno storione pallido sbugiarda Darwin (e l’evoluzione)
in La nuova Bussola Quotidiana, Monza (Milano) 13-08-2016
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