Un solo rivale contende al potere repressivo dei totalitarismi la palma dell’arma più efficace: la propaganda. Senza di essa anche il regime più implacabile sarebbe solo un colosso dai piedi di argilla. Con essa si può invece tutto o quasi. Anzitutto perché con la propaganda si riescono a stregare i potenziali avversari, a irretire i critici, ad ammaliare le folle. Tutte le strutture statuali della storia hanno puntato con decisione sul marketing, sulla promozione e sulle relazioni pubbliche, distinguendosi fra vincitori e vinti proprio nella misura in cui hanno saputo mettere scientificamente a frutto la comunicazione di sé. La cosa è funzionale, quasi intrinseca, a quella gestione del potere che si alimenta e si mantiene comunque, anche nei casi dei regimi meno popolari, attraverso l’organizzazione del consesso, la politicizzazione dei simboli e persino l’instaurazione di “religioni civili”. Nessuno però ha perfezionato l’arte come hanno saputo fare i dispotismi e i totalitarismi del Novecento. Lo testimoniano le famose “liturgie” inscenate (con uso scaltro anche del cinema e delle arti) dal nazionalsocialismo tedesco e lo ricordano, per quanto riguarda la “mistica” del fascismo italiano, per esempio le pagine di Roberto Festorazzi in Caro Duce, ti scrivo». Il lato servile degli antifascisti durante il Ventennio (Ares, Milano 2012).
Ma la propaganda che più ha colto nel segno, riuscendo a instaurare per decenni miti falsi eppure convincenti persino nei quartieri più insospettabili o quantomeno improbabili, è stata quella socialcomunista. Non solo quella sovietica, ma, su suo modello, quella elaborata e implementata da ogni regime comunista del secolo XX. Nel 1981 lo documentava il sociologo ungherese naturalizzato statunitense Paul Hollander, classe 1932, nel magistrale (e mastodontico) Pellegrini politici. Intellettuali occidentali in Unione Sovietica, Cina e Cuba (trad. it. il Mulino, Bologna 1988), un libro tradotto anche in italiano ma di fatto assente dall’immaginario collettivo di coloro ai quali era destinato (e quindi avrebbe maggiormente giovato), cioè gli occidentali, così come nel 1985 ha fatto, per un caso emblematico di specie, quello cioè del “socialismo dal volto umano” jugoslavo, la giornalista investigativa inglese Nora Beloff (1919-1997) in Tito fuori dalla leggenda: fine di un mito: la Jugoslavia e l’Occidente: 1939-1986 (trad. it. Reverdito, Trento 1987). In Italia, l’opera d’infiltrazione e di convincimento l’ha svolta egregiamente il “gramscismo”, come spiega l’esempio più di recente dettagliato da Alberto Anile e Maria Gabriella Giannice in Operazione gattopardo. Come Visconti trasformò un libro di “destra” in un successo di “sinistra” (Le Mani Recco [Genova] 2013).
Un solo rivale contende al potere repressivo dei totalitarismi la palma dell’arma più efficace: la propaganda. Senza di essa anche il regime più implacabile sarebbe solo un colosso dai piedi di argilla. Ebbene Stalin (Iosif Vissarionovič Džugašvili detto Stalin 1878-1953), l’uomo che ha reso establishment la “madre di tutte rivoluzioni comuniste”, ha avuto a disposizione i servigi non richiesti di colui che per i più è un Carneade ma che invece Martino Cervo, giornalista del quotidiano Libero, sa rievocare in tutta la sua strategica grandezza con il libro Willi Münzenberg, il megafono di Stalin. Vita del capo della propaganda comunista in Occidente (Cantagalli, Siena 2013), impreziosito della prefazione, davvero ispirata, dell’ottimo Ugo Finetti, storico.
Dallo scrittore tedesco Thomas Mann (1875-1955) al Nobel per la Fisica Albert Einstein (1879- 1955), dal padre della patria indiana Jawaharlal Nehru (1889-1964) alla giornalista-poetessa statunitense Dorothy Parker (1893-1967),), oltre a personaggi non proprio da oratorio come Harold “Kim” Philby (1912-1988) (il re delle spie inglesi al soldo di Mosca, sabotatore più lui della pace di un esercito intero), numerosi sono stati coloro che non hanno saputo resistere al fascino di Wilhelm Münzenberg (1889-1940).
Tedesco dalla faccia pulita, dirigente del Partito Comunista di Germania (Kommunistische Partei Deutschlands, KPD) durante la cosiddetta Repubblica di Weimar (1919-1933), uomo-chiave del Comintern (Communist International) in Europa (cioè l’organizzazione internazionale dei partici comunisti, nota anche come Terza Internazionale, attiva dal 1919 al 1943), è stato capace d’imporre la più classica delle sindromi di Stoccolma, portando la vittima a invaghirsi del carnefice.
Chi ne scoprì il talento fu Lenin (Vladimir Il’ič Ul’janov detto Lenin, 1871-1924). A capo dei programmi d’intervento umanitario nei Paesi occidentali stremati dallo “sfruttamento capitalista”, dalle guerre e dalle crisi economiche, Münzenberg cucì una rete capillare di contatti, coperture e strategie. Nacque così il Soccorso operaio internazionale, un’astuta operazione di aiuto e persino di prestito economico che, vincolando a doppio filo i suoi membri e utilizzando la solidarietà per contrabbandare l’ideologia, divenne la più formidabile cinghia di trasmissione della propaganda stalinista. Al vertice spiccava la “politica culturale”, quel “comunismo senza comunismo” in cui il cosiddetto “mondo libero” fu lentamente risucchiato tra lacchè e agenti inconsapevoli.
Tra i grandi successi di Münzenberg vi fu la falsa attribuzione ai nazionalsocialisti dell’incendio del Reichstag, il 27 febbraio 1933, opera invece di comunisti tedeschi, ottenuta inscenando a Londra un processo parallelo la cui “verità” ha dettato legge fra gli storici sino agli anni 1960. Sempre lui fu l’artefice, negli anni 1930, dell’identificazione tra antifascismo e comunismo, un equivoco nefasto e duraturo su cui ha lasciato riflessioni preziose quanto dimenticate anche il filosofo italiano Augusto del Noce (1910-1989). E fu sempre lui l’uomo che, anni prima, seppe sfruttare appieno la retorica propagandistica de La corazzata Potëmkin (1925) di Sergej Ėjzenštejn (Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, 1898-1948), presentando il lungometraggio in anteprima a Berlino nel 1926.
Adoperando una messe di documentazione imponente, talora inedita, Cervo spiega bene come il successo ideologico del comunismo stalinista, già internamente in crisi, sarebbe stato impensabile senza l’abnegazione di Münzenberg, il quale, pur conoscendo direttamente gli orrori del regime sovietico, è stato il vero responsabile del radicamento della menzogna comunista, Stalin o non Stalin.
La beffa però lo attendeva. Münzenberg fu sempre un sincero oppositore del nazionalsocialismo. Le sue pagine di denuncia del totalitarismo hitleriano erano perfette, tanto che a chi le leggeva in URSS parevano metafora del totalitarismo staliniano. Era il 1936. Stalin lo richiamò, ma Münzenberg capì che significa la morte. Disobbedì, e s’impegnò a diffondere il verbo rosso sui campi di battaglia della Guerra civile spagnola (1936-1939). Nel 1939 arrivò il “patto d’acciaio” fra Mosca e Berlino, e i partiti comunisti europei furono abbandonati. Né i comunisti tedeschi amavano più Münzenberg, oramai critico aperto di Stalina al punto di avvicinarsi a liberali e cattolici. Altra beffa, le vittime borghesi già “comunistizzate” della sua sagace opera propagandistica gli diedero adesso del voltagabbana. Nel 1940, l’NKVD (Narodnyj komissariat vnutrennich del, cioè Commissariato del popolo per gli affari interni), la regia di tutti i servizi di repressione staliniani, arrestò certi parenti di Münzenberg, riconsegnandone alcuni al Terzo Reich. A Parigi Munzenberg stava organizzando la resistenza antinazista. In giugno, all’arrivo di Adolf Hitler (1889-1945), fuggì a sud. Gli uomini di Stalin lo acciuffarono e, in un bosco poco distante da Marsiglia, impiccarono l’uomo più fedele che Stalin abbia mai avuto. Il comunismo, certo; ma fu «nel trovare i mezzi per divulgarlo che si è rivelato insuperabile» Münzenberg, apostolo e martire di una causa intrinsecamente perversa.
Versione originale e completa dell’articolo pubblicato con il titolo
Il megafono di Stalin, in La nuova Bussola Quotidiana, Milano 19-07-2013
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