Domenica il Santo Padre Francesco celebrerà la santa Messa a L’Avana, capitale di Cuba, i Lo sovrasterà un’immagine enorme di Enesto Guevara de la Serna, detto “el Che” (1928-1967). I giovani sano bene chi è Papa Francesco, ma non hanno la minima idea di chi sia “Che” Guevara. Pensano, come Checco Zalone, che sia il brand di una maglietta. Siccome le televisioni di tutto il mondo mostreranno il Santo Padre in compagnia di Guevara, è opportuno un ritratto, perché sennò molti potrebbero pensare che i due staranno in tivù assieme solo perché di comuni natali argentini.
Francesco infatti di professione fa il Papa, mentre il “Che” faceva il terrorista. Comunista. Fu lo stesso “Che” a dirlo, definendosi «vivo e assetato di sangue» e poi, nel Messaggio alla Tricontinentale del 1967 (la Conferenza di solidarietà dei popoli dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina che si tenne a L’Avana), cantando «l’odio come fattore di lotta ‒ l’odio intransigente contro il nemico ‒ che spinge oltre i limiti naturali dell’essere umano e lo trasforma in una reale, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere».
Trasferitosi a Cuba, nel 1959 Guevara scese dalla sierra con Fidel Castro per rovesciare il governo filostatunitense di Fulgencio Batista (1901-1873), corrotto ma averne (chi non ci crede riguardi il bellissimo Havana, diretto nel 1990 da Sidney Pollack e interpretato da un Robert Redford pur ammaliato dal mito guevarista). I due fecero la revolución dei barbudos, comunista, ma pare che i migliori successi militari di Guevara siano stati solo frutto di patteggiamento.
Dopo il “trionfo”, il “Che” diresse la prigione di La Cabaña, La chiamavano tutti la “galera de la muerte”, comunista, perché le esecuzioni erano sommarie e i processi una farsa. Il tribunale presieduto da Guevara era preciso a quello di Gotham City occupata da Bane e uguale a quello di George Jacques Danton (1759-1794) nella Francia terroristica del 1793, ben descritto dall’avvocato francese Jean Marc Varaut (1933-2005), specialista dei grandi processi e dei grandi tribunali della storia, nel suo impareggiabile La terreur judiciaire. La Révolution contre les droits de l’homme (Perrin, Parigi 1993). Tutti gli accusati dal tribunale che per definizione detiene la verità poiché è rivoluzionario sono degli assassini (e sennò perché li si accuserebbe?) e quindi debbono morire. Anche perché, diceva il “Che”, «nel dubbio fucilare». Pare che in meno di sei mesi siano stati uccise 400 persone.
Fu il “Che” a spingere Cuba nell’abbraccio mortale con la burocratica e fredda Unione Sovietica, altro che rivoluzionario romantico dal cuore buono, il sigaro pure e la chioma folta al vento.
La nuova iniziativa del “Che” fu poi la creazione della polizia politica, comunista, quello strumento cesellato a puntino che continua a funzionare a meraviglia anche oggi che Barack Obama ha deciso che i comunisti cubani, sempre al potere da soli, non sono più cattivi. Grazie all’alacre attività della polizia guevariana, comunista, l’Isola è diventata un Gulag tropicale, internando per decenni nei campi di concentramento dissidenti politici, poeti che avevano il solo torto di scrivere versi non marxisti (Armando Valladares), cattolici, protestanti, testimoni di Geova, omosessuali, malati di Aids, “asociali” vari e prostitute non cooperanti (perché le altre, di qualsiasi sesso fossero e impegnate con qualunque dei sessi, sono invece sempre state una grande fonte di reddito e d’informazioni, come scrissi anni fa su La Padania raccogliendo le memorie di un testimone ex comunista che sapeva di certi viaggi organizzati anche dall’Italia ). Dal carcere alla tomba è poi per molti sempre stata solo una questione di tempo.
Quando dal 1959 e il 1961 fu prima direttore della Banca Nazionale e poi ministro dell’Industria, Guevara precipitò il Paese nell’abisso. Non era capace. E la sua statalizzazione comunista mandò in rovina anche quel poco che di Cuba restava. Si dovette razionare il cibo. La riforma agraria strappò le terre ai proprietari e le diede ai membri dell’apparato comunista. Fu solo l’antipasto del grande disastro cubano che ha poi gettato l’Isola nella miseria più nera, miseria in cui l’Isola è rimasta per decenni, anzi sempre, anzi ancora oggi, motivo per cui il regime ha bisogno degli aiuti esterni come dell’aria per respirare.
Fu a quel punto che il suo compagno Fidel Castro decise per lui una vacanza, all’estero. Guevara pensò di approfittarne per esportare la rivoluzione, comunista, ma non fu capace nemmeno di questo. Provò in Nicaragua, Repubblica Dominicana, Panama, Haiti, Congo e ovunque fu una disfatta. Provò allora in Bolivia, ma lì non lo appoggiava nessuno, nemmeno i comunisti locali. I militari boliviani lo presero il 9 ottobre 1967 e lo ammazzarono. Sul tema c’è un bel libro tutto da leggere, quello di Alvaro Vargas Llosa intitolato Il mito Che Guevara e il futuro della libertà (trad. it., Lindau, Torino 2007).
Ora, domenica il Santo Padre Francesco celebrerà la santa Messa a L’Avana, capitale di Cuba, in Plaza de la Revolución. Lo sovrasterà un’immagine enorme di Enesto Guevara de la Serna, detto “el Che”. Fa bene, il Santo Padre. Missione e vocazione unica della Chiesa Cattolica è quella di bere dalla spugna intrisa di aceto fissata su una canna, di annunciare Cristo anche nei bassifondi, nella melma, tra i ladri, le puttane, i comunisti e gli assassini.
Marco Respinti
Versione completa e originale
dell’articolo pubblicato con il titolo
Il Papa sotto il ritratto del Che non si ouò vedere
in l’intraprendente. Giornale d’opinione dal Nord,
Milano 19-09-2015
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