Critica Scientifica, Roma, 27-07-2015
BastaBugie n. 412, Staggia senese (Siena), 29-07-2015
Sembra una scena di Contact, il film diretto nel 1997 da Robert Zemeckis e basato sull’omonimo romanzo di Carl Sagan (1934-1996), e invece è la pura verità. Il fantastiliardario 53enne russo Yuri Milner ha stanziato 100 milioni di dollari per finanziare in 10 anni il più grande progetto di ricerca degli alieni mai varato prima, il Breakthrough Listen. Solennizzato il 27 luglio negli augusti locali della Royal Society di Londra, dell’accordo beneficerà un pool blasonato: il noto fisico e cosmologo britannico Stephen Hawking, l’altrettanto britannico astronomo reale Martin Rees, il cacciatore statunitense di esopianeti Geoffrey W. Marcy (70 dei primi 100 scoperti portano la sua firma) e non ultimo l’americano Frank D. Drake, il fondatore di quel programma SETI che per statuto cerca gli extraterrestri dal 1974 ma che finora non ne ha visto nemmeno l’ombra. Il perché è ovvio: come dice, l’astronomo Seth Shostak, direttore del Centro di ricerche SETI, gli alieni sono lì, ma un complotto di politici ce li nasconde. Come trattenere allora qualche considerazione?
Primo. SETI è una organizzazione privata no-profit che ha sede a Mountain View, in California. quel che fa è responsabilità sua, ma tra i suoi finanziatori ci sono anzitutto la NASA, poi la National Science Foundation e lo US Geological Survey che sono agenzie governative, quindi il ministero dell’Energia degli Stati Uniti e la Jet Propulsion Survey, che per la NASA costruisce le sonde spaziali senza equipaggio e che la NASA ha preso in carico nel 1958, avendo essa cominciato (è una storia famosa, e un po’ mitica) studiando quelle V2 dei nazisti (impegnati anche loro a cercare alieni nell’Antartide?) nate da un’idea di Joseph Goebbels (1897-1945) e realizzate da Wernher von Braun (1912-1977). A ciò si aggiungono privati di tutto rispetto quali la Universities Space Research Association, un consorzio di 105 atenei del mondo intero; l’International Astronomical Union, che a Parigi riunisce luminari di 73 Paesi diversi; nonché e fondazioni o aziende del calibro della Sun Microsystems, della Hewlett Packard Company «e molti altri». Impossibile insomma scambiare SETI per dei figli dei fiori che girano i deserti del Southwest a bordo di Volkswagen Westfalia irti di parabole per bombardare di «peace and love» le orecchie dello spazio.
Secondo. L’aplomb dell’internazionale ecologista, pauperista e pacifista, sempre prontissima a stracciarsi le vesti per (presunti) sprechi di cibo, acqua ed energia, non si scompone un secondo davanti a 100 milioni di dollari spesi per cercare nell’enormità incalcolabile del cosmo qualcosa che ha meno probabilità di esistere della possibilità che ha un ago di essere trovato non in un pagliaio, ma nella riserva di fieno del mondo nel corso di tutta la sua storia.
Terzo. Il Drake che ha creato SETI che oggi prende i soldi di Milner è anche l’ideatore della cosiddetta “equazione di Drake”, la formula matematica utilizzata per… stimare il numero di civiltà extraterrestri… esistenti e in grado di comunicare nella nostra galassia… ma che sinora hanno taciuto. Il numero di Drake è dato dalla moltiplicazione tra loro di sette fattori: il tasso medio annuo con cui si formano nuove stelle nella Via Lattea, il numero di quelle stelle che possiedono pianeti, il numero medio di pianeti per sistema planetario in condizione di ospitare forme di vita, il numero di questi pianeti su cui si è effettivamente sviluppata la vita, di questi il numero di quelli su cui si sono evoluti esseri intelligenti, il numero di civiltà extraterrestri in grado di comunicare e la durata media stimata di dette civiltà evolute. Per Isaac Asimov (1920-1992) nella solo nostra galassia le civiltà extraterrestri sarebbero 600mila, secondo il “pessimismo moderato” scenderebbero a 50 e stando al “pessimismo radicale” ci sarebbe una probabilità su 10 milioni che nella nostra galassia esista una civiltà tecnologica, parola del principe dei divulgatori scientifici Piero Angela. Se poi a uno scappa da ridere, non è che si può biasimarlo. Il numero delle variabili dell’equazione di Drake cui è impossibile dare un valore definito è tanto grande da renderla una petizione di principio. Le dà retta solo chi ha deciso a priori di credere nel suo assunto iniziale: che gli alieni esistano “a prescindere”. Presentata nel 1961 al National Radio Astronomy Observatory di Green Banck, in West Virginia, fu l’averla sciorinata lì che la rese accettabile. Fosse stata giudicata per il suo contenuto, Drake sarebbe stato accompagnato alla porta.
Quarto. Mentre disprezzano come fiaba per mocciosi l’esistenza di Dio da millenni mostrata dall’abc dalla logica filosofica umana, i citati luminari accettano ogni superstizione sugli alieni. Il matematico e astronomo britannico Fred Hoyle (1915-2001), a cui sono stati intitolati asteroidi e medaglie, è uno dei padrini remoti del SETI da che il suo romanzo A come Andromeda (1962) introdusse l’argomento dei segnali extraterrestri dallo spazio siderale ed è famoso perché riteneva che l’universo pullulasse di vita nata dalla semina a pioggia di seme alieno (panspermia) e in continua evoluzione per effetto di virus trasportati da comete. Carl Sagan era un campione di scetticismo su tutto ma giurava sull’esistenza degli ET, e così continua a fare l’ateo impenitente Stephen Hawking.
Sesto e ultimo. Sempre il 27, mentre Yuri Milner rifinanziava il SETI a Londra, a Milano il Corriere della Sera pubblicava qualche riga di Flavio Vanetti per riferire che l’astronomo amatoriale statunitense Robert H. Gray, un cacciatore di segnali alieni legato al SETI, ha strappato al Nobel 1938 per la Fisica Enrico Fermi (1901-1954) la paternità del famoso paradosso omonimo: «Dove sono tutti quanti? Se ci sono così tante civiltà evolute, perché non abbiamo ancora ricevuto prove di vita extraterrestre come trasmissioni di segnali radio, sonde o navi spaziali?». Dice infatti Gray (ma non in un inesistente libro intitolato “Astrobiology” uscito fantomaticamente a marzo come scrive Vanetti, bensì nelle quattro pagine dell’articolo The Fermi Paradox Is Neither Fermi’s Nor a Paradox pubblicato sul n. 3, di marzo, del mensile Astrobiology) che il noto azzardo è invece dell’astrofisico Michael H. Hart, nobilitato falsamente solo per fare guerra volgare al povero paradosso di Drake e tagliare i fondi al SETI. È dunque «giunto il momento», sentenzia Grey, «di dire che il paradosso non è valido» e «che non è mai esistito». E perché mai? Il paradosso resta cristallino anche se non fosse di Fermi, mille volte più sensato della panspermia di Hoyle, delle fantasie di Drake, delle elucubrazioni di Hawking e dello spreco di denaro di Milner. Oppure l’universo pullula davvero di piccoli alieni verdi che per starsene abbottonati prendono la stecca da quelli che prendono i soldi per cercarli?
Marco Respinti
«Scoperto Kepler 186f: è un gemello della Terra fuori dal sistema solare». È la notizia di ieri? No, è la notizia che la Repubblica dava più di un anno fa, esattamente il 17 aprile 2014. La notizia che la Repubblica dava il 23 luglio 2015 è però identica: «Scoperta Terra con un proprio sole in una zona “abitabile” dell’Universo». È Kepler 452b. Stesso titolo, pianeta diverso, consueto clamore per il rinvenimento di un pianeta “unico”… come tanti altri. Nel febbraio 2014 erano infatti già 715, orbitanti attorno a 305 stelle, gli esopianeti (quelli cioè non appartenenti al nostro sistema solare) individuati dal telescopio spaziale della Missione Kepler, lanciata della Nasa il 7 marzo 2009 per cercare pianeti simili alla Terra attratti da stelle diverse dal Sole.
Del resto, per la Nasa, tra l’1,4% e il 2,7% delle stelle analoghe al Sole avrebbe pianeti “abitabili” simili alla Terra, il che porta a 2 miliardi il numero dei pianeti paraterrestri della Via Lattea. E dato che nell’universo osservabile esistono almeno 50 miliardi di galassie, il numero complessivo dei pianeti “abitabili” salirebbe a 100 miliardi. Insomma, come dice Seth Shostak, astronomo del Seti Institute (il programma che a Mountain View, in California, si dedica alla ricerca della vita intelligente extraterrestre), «piovono pianeti». Per questo la notizia della scoperta di un “gemello” della Terra si ripete sempre uguale a se stessa. Una non-notizia, cioè, se non fosse per il sensazionalismo artefatto che l’accompagna. Si dice, per esempio, pianeta “abitabile”, ma è ambiguo. L’aggettivo significa solo che un dato pianeta, per esempio oggi Kepler 452b, orbita attorno a una stella a una distanza tale da rendere teoricamente possibile il mantenersi dell’acqua allo stato liquido sulla superficie. Non significa che vi sia acqua e nemmeno che qualcuno lo abiti.
L’acqua è infatti necessaria alla vita, ma non è sufficiente. Non è detto che se su un pianeta vi fosse acqua, automaticamente vi sarebbe vita; per innescare il meccanismo della vita serve altro; e che cosa serva a generare la vita è ancora un mistero fitto per la scienza, la quale può al massimo elencare altre condizioni necessarie alla vita, ma nessuna di loro sufficiente. Del resto, la possibilità che un pianeta abbia acqua in superficie è solo una stima teorica, non l’osservazione diretta di un fatto né l’esito di un rinvenimento empirico. Prendiamo Marte. Si dice e si ripete che il quarto pianeta del nostro sistema solare avrebbe acqua, ma non è vero. La Missione Mars Exploration Rover, lanciata dalla Nasa nel 2003, ha trovato sulla superficie marziana dell’ematite, il minerale del ferro che sulla Terra si forma in presenza di acqua, più alcune strutture sedimentarie determinate dall’azione di un liquido, quindi eventualmente compatibili anche con la presenza di acqua. Tutto qui. L’acqua su Marte non l’ha raccolta nessuno e nessuno ha documentato la vita.
L’ennesimo “gemello unico” della Terra, di quelli come ce ne sono a ioa… Scoperto nel 2013, dista 700 anni-luce dalla Terra. Ma, pur essendo un nostro “gemello”, ha una superficie rovente del tutto inadatta alla vira
Torniamo a Kepler 452b. Alla sua scoperta si adattano perfettamente le considerazioni svolte un anno fa, a fronte della scoperta di Kepler 186f, dal periodico Query, la rivista ufficiale del Cicap, il Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze, famoso per il positivismo razionalista di cui fanno regolarmente le spese i miracoli, le apparizioni, le fedi religiose. A maggior ragione Query non può essere tacciato di scetticismo antiscientifico magari in favore di una qualche ipotesi metafisica. Oltre all’acqua (presunta), Query ricorda che per l’“abitabilità” di un pianeta conta anche il suo stato. Kepler 186f è roccioso (e così anche Kepler 452b), e la cosa è utile alla causa. Ma «di pianeti rocciosi di dimensioni simili alla Terra se ne erano già scoperti diversi […]. Kepler 186f è il primo che abbia entrambe queste caratteristiche. Questa è la sua importanza, che alla fine da un punto di vista scientifico è abbastanza limitata: nessuno aveva dubbi che esistessero pianeti così […]». E però Kepler 186f come Kepler 452b «può essere pieno di metalli pesanti e avere una gravità insostenibile, o esserne privo, come la Luna, e non avere abbastanza gravità per trattenere un’atmosfera. L’atmosfera può essere troppo ricca di gas serra e il pianeta può essere una fornace come Venere, o essere troppo rarefatta e l’acqua può evaporare al primo raggio di sole».
Cosa sappiamo insomma di Kepler 186f o di Kepler 452b? Nulla. Kepler 452b lo ha “visto” solo un telescopio orbitante a poco meno di 150mila chilometri dalla Terra, mentre esso dista circa 1400 anni-luce, cioè 9461 miliardi di chilometri (un anno-luce) moltiplicato 1400 volte, pari, per intendersi, a 63.241 volte la distanza tra Terra e Sole (un anno-luce) moltiplicata sempre per 1400. Se pensiamo che il pianeta Plutone dista dalla Terra, a seconda del suo posizionamento rispetto a noi e al Sole, tra i 4200 e i 7500 milioni chilometri circa, e che solo quando la sonda spaziale New Horizons è arrivata, il 14 luglio 2015, a 12.472 chilometri dalla sua superficie (per intendersi l’atmosfera terrestre propriamente detta finisce a un centinaio di chilometri dal suolo) gli scienziati si sono accorti che sul suo aspetto si erano ingannati, capiamo che dei pianeti “abitabili” scoperti da Kepler non sappiamo proprio alcunché.
Fa dunque un po’ sorridere Ellen Stofan, capo ricercatore della Nasa, quando dice che gli scienziati sanno dove cercare gli alieni nello spazio e che tra 20 anni l’incontreremo… A meno che ciò non serva per giustificare i budget faraonici delle missioni spaziali (la sola Missione Kepler è costata 550 milioni di dollari) che cercano quel che vogliono trovare e che così prima o poi lo “scoprono” anche se non c’è. È un vecchio vizio sofistico, e in cosmologia si chiama “principio antropico” (o è una sua “eresia”): la constatazione di condizioni fisiche compatibili con la vita diventa causa stessa della vita. Ma è solo idealismo hegeliano riciclato: ciò che la mente pensa esiste anche nella realtà, con la causa e l’effetto che si scambiano di posto. In attesa di una notizia vera, vale allora la pena di rispolverare The Privileged Planet: How Our Place in the Cosmos is Designed for Discovery (Regnery, Washington 2004) di Gulliermo Gonzales e Jay Richards, nonché il dvd omonimo, del 2010, la cui voce narrante è quella dall’attore John Rhys-Davies, il nano Gimli de Il Signore degli Anelli cinematografico, dove l’irriducibilità della vita al calcolo statistico spalanca gli occhi e il cuore al vero mistero dell’universo.
Marco Respinti
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