
Negli Stati Uniti il suo nome è sinonimo di lotta contro le tasse, contro la spesa pubblica, contro lo statalismo scialaquatore e invasivo. Grover Norquist, 58 anni, nel 1985 ha fondato l’Americans for Tax Reform su richiesta dell’allora presidente Ronald Reagan e da allora è stato un successo dopo l’altro. Un successo comunque, anche quando i risultati non sono stati rosei come sperato, perché sempre l’ATR ha rimesso una volta tanto davvero al centro il cittadino e le sue libertà d’intrapresa, costringendo la politica a piegarsi sui contribuenti e mai viceversa. Da anni, infatti, in occasione di qualsiasi appuntamento elettorale, l’ATR propone a tutti i candidati, di qualsiasi partito siano, un patto chiaro e preciso con gli elettori fatto di poche parole semplici, di nessuna circonlocuzione e di zero sotterfugi: mai votare aumenti delle tasse. A ridurle le tasse s’inizia infatti solo così, anche perché l’ATR suda poi le proverbiali sette camice per verificare chi, tra gli eletti, la promessa la mantiene sul serio, denunciando i traditori all’opinione pubblica. Uno degli strumenti concreti di proposta e di verifica che l’ATR ha del resto messo in campo è il briefing a porte chiuse e off-records che settimanalmente si svolge in centro a Washington (e con cadenze diverse in decine di altre città statunitensi, imitate autonomamente in diversi luoghi nevralgici dell’Occidente) per mettere in comunicazione le diverse e talora sparse membra del corpo sociale che dello statalismo e del suo caro prezzo ne hanno sin sopra i capelli.
Oggi Norquist è in Italia. Alle 16,00 presenterà al Teatro Santa Chiara di Roma il suo nuovo libro freschissimo di stampa, End the IRS Before it Ends US: How to Restore a Low-Tax, High-Growth, Wealthy America (Center Street, New York 2015), in un incontro organizzato da Raffaele Fitto, leader dei Conservatori riformisti, per lanciare la proposta di uno shock fiscale (al ribasso, s’intende) che rimetta finalmente in moto l’Italia. L’intraprendente lo ha incontrato.
Norquist, davvero il fisco, che da voi si chiama Internal Revenue Service (IRS), è il nemico pubblico n. 1 dei cittadini americani?
La prima minaccia alla crescita economica e alla prosperità degli Stati Uniti sono le dimensioni e il potere dello Stato: spesa pubblica, peso delle regolamentazioni e carico fiscale. L’IRS è il volto visibile dello statalismo e dei suoi costi. Perché i meccanismi della spesa pubblica sono difficili da individuare; il peso delle regolamentazioni si nasconde nei prezzi dei beni e dei servizi che comperiamo; ma il carico fiscale è davanti agli occhi di tutti. Trasparente. Doloroso. Ne palpiamo il prezzo ogni anno quando paghiamo le tasse. Quando dicono di “odiare ” l’IRS, gli americani ce l’hanno in realtà con il costo della cosa pubblica: l’IRS lo vedono infatti chiaro e netto in tutto il suo orrore.
L’IRS andrebbe insomma abolito?
Abolire l’IRS è una possibilità concreta per il futuro, ma il primo passo da fare oggi è ridurre le tasse per tutti adottando un’aliquota fiscale unica sul reddito come già c’è un’aliquota fiscale unica sulle vendita di beni e servizi. Se le tasse sul reddito diminuiranno, anche l’invadenza dell’IRS si ridurrà.
Una percentuale ragionevole di tasse da pagare?
Prima che gli Stati Uniti nascessero come Paese indipendente, nel 1774, l’imposta media pagata dagli “americani” era compresa tra l’1 e il 2% del reddito. Prima della Seconda guerra mondiale il carico fiscale complessivo americano ‒ sommando cioè tasse federali, statali e locali ‒ era inferiore al 10%. Co
n il tempo è certamente possibile ridurre l’attuale 30% per tornare a quel 10%. Sono convinto che quando lo Stato costerà ai cittadini meno del 10% del loro reddito, il Paese crescerà assai più velocemente, innescando una continua riduzione dell’incidenza della spesa pubblica e delle imposte erariali sull’economia.
È dunque favorevole alla flat tax?
Certamente sì. Il vantaggio dell’aliquota fiscale unica sul reddito è che in questo modo il costo dello Stato è lo stesso per tutti i contribuenti. Le tasse progressive o graduali sul reddito permettono invece allo Stato di dividere i contribuenti in gruppi e mediante questa diversificazione di aumentare la pressione fiscale. Lo Stato ha cioè il potere di dividere e di conquistare. Anzitutto tassa i “ricchi” dicendo a tutti gli altri di non preoccuparsi giacché tale misura “non li toccherà”, ma poi si lancia sui ceti medi e bassi disinteressandosi dei “ricchi”. Da noi la flat tax esiste in Massachusetts e in Illinois, Stati governati dal centro-sinistra dove ci sono più Democratici che Repubblicani: ebbene, ogni tentativo fatto in quegli Stati per abolire la flat tax è stato rispedito al mittente dai contribuenti. Persino i Democratici capiscono che la flat tax è più difficile da aumentare e più facile da ridurre.
Cos’ha causato l’involuzione statalista del “Paese dei liberi”?
Le guerre. Puntualmente ogni governo americano ha ridotto le tasse dopo ogni conflitto, ma mai le ha riportate ai livelli precedenti la guerra. La guerra è la salute dello Stato: questo è sia il titolo di un famoso saggio di Randolph Bourne (1886-1918) datato 1918, sia una grande verità. La Grande Depressione scoppiata nel 1929 ‒ e causata dall’aumento di tasse, tariffe e sussidi statali, nonché dalla politica di regolamentazione dei salari e dei prezzi ‒ venne usata come scusa per promuovere intervento ancora maggiori dello Stato nell’economia. Un certo numero di persone comincia a prendere soldi dallo Stato e improvvisamente lo Stato scopre di avere più amici. I patrioti americani del 1776 erano chiamati “Figli della libertà” e i lealisti che appoggiavano la Corona britannica “Amici del governo”. Un governo può tassare, spendere e comperarsi molti “Amici”.
La sua ricetta per un’America che torni (come dice il sottotitolo del suo nuovo libro) a essere il Paese delle tasse basse, della crescita economica elevata e della ricchezza diffusa?
Anzitutto va riformato lo Stato per farlo funzionare in modo più competente a un costo minore. Poi vanno subito ridotte le tasse. Alzarle mai: ogni qualvolta è concretamente possibile farlo, vanno sempre tagliate. Quindi occorre ridurre il costo dello Stato, riducendo il numero degl’impiegati statali: spesso licenziare gl’incompetenti è difficile; è invece molto più semplice nemmeno assumerli. Le pensioni debbono poi passare tutte dalla formula delle rendite predefinite (in cui l’importo è stabilito in anticipo mediante un calcolo retributivo, come si usa nelle pensioni di anzianità) ai piani di contribuzione definita (in cui il lavoratore, il datore di lavoro o entrambi versano contributi regolari su un conto dedicato che è oggetto anche d’investimenti). Negli Stati Uniti, il settore privato ha applicato questo secondo modello a tutte le nuove compagnie; non esistono aziende nuove che garantiscono rendite pensionistiche predefinite. Nessuno infatti conosce il futuro. Le rendite predefinite funzionano soltanto se cresce il numero dei contribuenti al sistema generale di accantonamento pensionistico. Ma per il governo è sin troppo facile fare promesse immorali di future pensioni ricche: dopo tutto, quei pagherò andranno all’incasso parecchio tempo dopo il pensionamento o persino la scomparsa degli uomini politici in carica oggi e così ai contribuenti di domani resteranno soltanto i costi.
L’8 novembre 2016 gli Stati Uniti chiuderanno l’era Obama eleggendo il 45° presidente federale. Tra i candidati oggi in corsa chi prospetta la politica economica e fiscale migliore? E chi la peggiore?
Politicamente Hillary Clinton sta a sinistra dell’ex presidente suo marito. Si è opposta alle riduzioni fiscali dell’era Bush, appoggiando invece l’aumento delle tasse voluto dal marito nel 1993 e quello deciso dal suo boss, Barack Obama, nel 2009 e nel 2010. Alla sinistra di Hillary Clinton ci sono poi l’ex governatore del Maryand, Martin O’Malley, il governatore del Rhode Island, Lincoln Chaffee, e il senatore del Vermont Bernie Sanders, che si definisce socialista.
Sull’altro versante, quelle del Partito Republicano, tutti i candidati oggi in lizza si sono impegnati pubblicamente contro ogni aumento delle tasse: tutti tranne l’ex governatore della Florida Jeb Bush. Suo padre, George H.W. Bush Sr., aveva a suo tempo sottoscritto l’impegno contro le nuove tasse proposto dall’ATR. Fu così che vinse le primarie e le elezioni presidenziali nel 1988. Due anni dopo, però, ruppe quel patto e, in combutta con i Democratici nel Congresso, alzò le tasse. Nel 1992 perse dunque la corsa alla Casa Bianca. Da allora in poi, la maggior parte dei Repubblicani ha sottoscritto l’impegno antitasse proposto dall’ATR. Il governatore del Texas, Rick Perry, ha tagliato più volte le tasse del suo Stato. Così ha fatto anche Scott Walker, governatore del Wisconsin. Il governatore del New Jersey, Chris Christie, ha posto il veto sull’aumento fiscale proposto dai Democratici nell’assemblea legislativa del suo Stato. E nel Congresso di Washington i senatori Rand Paul, Ted Cruz e Marco Rubio si sono battuti energicamente per la riduzione delle imposte.
Che cos’è la “Leave Us Alone Coalition” promossa dall’ATR negli Stati Uniti e imitata anche all’estero?
Oggi il Partito Repubblicano è composto da americani che votano in base a un principio chiaro e semplice: esigono che lo Stato “li lasci in pace”. I contribuenti vogliono essere lasciati in pace. Chi manda i figli alle scuole non statali e gli homeschooler, che educano i figli in famiglia (negli Stati Uniti è legale), vogliono che lo Stato non metta becco nell’educazione. Chi possiede proprietà vuole che lo Stato non ci metta sopra le grinfie. Gli uomini d’affari vogliono che le loro vite professionali siano lasciate tranquille. I credenti ‒ evangelical, cattolici, ebrei, musulmani, mormoni… ‒ vogliono poter vivere la propria fede anche in pubblico. Nessuno chiede allo Stato di dare loro qualcosa o di prendere le cose degli altri. Vogliono soltanto essere lasciati vivere.
Marco Respinti
Versione completa e originale
dell’articolo pubblicato con il medesimo titolo
in l’intraprendente. Giornale d’opinione dal Nord,
Milano 17-06-2015
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