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Tornano in libreria alcuni classici di Richard Edgar Pipes, tra i massimi studiosi di storia russa e comunismo, spentosi 94enne il 17 maggio a Cambridge, in Massachusetts: La rivoluzione russa (Mondadori 1994), Il regime bolscevico (Mondadori, 2000), I tre “perché” della rivoluzione russa (Rubbettino 2005), Il conservatorismo russo e i suoi critici (Rubbettino 2008) e Proprietà e libertà (Lindau, 2008).
Era nato Ryszard Piepes l’11 luglio 1923 a Cieszyn, in Polonia, in una famiglia ebraica costretta dai nazisti a espatriare nel 1939. Suo padre, Marek, aveva servito nella “mitica” Legiony Polskie, fondata nel 1914 dall’eroe Józef Klemens Piłsudski (1867-1935), vincitore dell’Armata Rossa nella battaglia di Varsavia del 1920 nota come il “Miracolo della Vistola”.
Stunitense dal 1943, ha insegnato ad Harvard dal 1958 al 1996, dirigendone, dal 1968 al 1973, il Centro per le ricerche sulla Russia. Dal 1973 al 1978 è stato anche consulente della Stanford University in California. Un grande accademico, certo, ma di quelli che sanno mettere la cultura al servizio della politica. Per questo è uno degli “antenati” dei neoconservatori con James Burnham, Max Eastman, John Dos Passos, Whittaker Chambers, poi Robert Conquest, Gerhart Niemeyer, Stephen J. Tonsor e senza scordare il pavese naturalizzato statunitense Angelo M. Codevilla. Uomini spesso di sinistra convertiti al “mondo libero”, praticamente quelli che definiremmo “falchi”, ma con il pregio di saper leggere lo scontro Est-Ovest secondo criteri anzitutto morali e d’individuare nel comunismo una tragedia eminentemente spirituale.
Membro del Council on Foreign Relations, nel 1976 Pipes fu chiamato a capo del cosiddetto Team B, creato per sorvegliare l’espansionismo sovietico. Composto da esperti civili e da ex militari, fu assemblato dal direttore della CIA, George W.H. Bush Sr., su richiesta del ministro della Difesa, Donald Rumsfeld, insoddisfatto del lavoro svolto dagli specialisti dell’Agenzia (il Team A).

Il presidente George W. Bush Jr. insignisce Richard Pipes della National Humanities Medal il 15 novembre 2007 (© AP Photo/Gerald Herbert)
Dal 1977 al 1992 Pipes ha fatto parte anche del Committee on Present Danger ‒ una influente lobby nata nel 1950 per pungolare il potere politico ‒ e nel biennio 1981-1982, durante la presidenza di Ronald Reagan ha diretto l’Ufficio per gli affari est-europei e sovietici del Consiglio per la sicurezza nazionale. Decenni, cioè, spesi a combattere l’appeasment.
Una delle sue idee forti è che dal secolo XV la Russia abbia imboccato una strada autocratica (c’entrerebbe molto l’influenza mongola) che l’ha portata lontano dall’Occidente, ponendo le basi “eurasiste” della rivoluzione bolscevica del 1917, un’idea che legge la rivoluzione non come un accidente ma come un processo. Famoso qui lo scontro con Aleksandr Solzenicyn, che lo accusò di scrivere versione polacche della storia russa, e che lui ricambiò come sciovinista antisemita.
Pipes lascia una trentina di libri, tra scritti e curati, uno più attuale dell’altro. L’URSS è un ricordo, ma non le ragioni morali per cui gli eroi della “guerra fredda” l’hanno combattuta.
Marco Respinti
Versione originale e completa dell’articolo pubblicato con il titolo
L’Unione Sovietica è solo un ricordo, ma le idee di Pipes sono ancora attuali
in Libero [Libero quotidiano], anno LIII, n. 142, Milano 25-05-2018, p. 26
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Su Vatican Insider, un articolo non si sa se più disinformato o più malevolo di Gianni Valente rompe il silenzio ormai calato sull’accordo tra il Vaticano e il governo neo-post-comunista di Pechino per la nomina dei vescovi, che rischia di svendere i cattolici da sempre fedeli alla Santa Sede.
Il genere letterario è il dire a suocera affinché nuora intenda. Valente spara a zero sui “cattivi” protestanti e sulle “sette”, ancora più “cattive”, tirando la volata al Partito Comunista Cinese, l’erede di una delle rivoluzioni più crudeli e sanguinarie della storia, sul cui capo pesano milioni di vittime e di cui nessuno, men che meno l’attuale dirigenza, ha chiesto scusa.

La demolizione di una chiesa cristiana nella città di Shangqiu, nella provicnia di Henan, il 16 aprile 2018
Valente scrive che, «[…] da settimane, continua ad essere rilanciata in tutto il mondo la segnalazione di misure restrittive messe in atto da apparati locali in alcuni villaggi e città dell’immenso Paese per vietare ai minorenni l’accesso alle chiese e alle attività parrocchiali, insieme a altre disposizioni repressive come la chiusura di una scuola d’infanzia gestita da cattolici». Verissimo. Avviene nella provincia dell’Henan, ci sono le foto, ma Valente insinua il dubbio: sono casi «[…] segnalati da testimonianze locali», «spesso anonime». Già: è ben difficile che le prime notizie di fatti così non provengano da fonti locali, alle elementari del giornalismo lo insegnano il primo giorno. Quanto all’anonimato, ci mancherebbe altro: la repressione contro le religioni in atto in Cina contempla torture, uccisioni, corpi bruciati.
Prosegue Valente: «In quella regione centrale della Cina, una circolare emessa lo scorso 8 aprile, recante i timbri delle sezioni provinciali dell’Associazione patriottica del cattolici cinesi e della Commissione per gli affari della Chiesa (organismi di trasmissione della politica religiosa governativa), ha effettivamente messo nero su bianco il divieto per i minori di entrare in chiesa e di partecipare a attività organizzate dalle comunità ecclesiali. Ma appaiono al momento infondate le affermazioni secondo cui tale divieto sarebbe in vigore e in progressiva applicazione in tutta la Cina».
Falso, come ha documentato AsiaNews e come afferma il suo direttore, padre Bernardo Cervellera, il massimo esperto mondiale cattolico di Cina. Qualora però il divieto riguardasse anche “solo” l’Henan, non sarebbe meno grave: Valente la chiama «area circoscritta», ma l’Henan, nella Cina centrale, consta di 167mila km2, ovvero più della metà dell’Italia (301.340 km2) e ha più di 94 milioni di abitanti (in tutta Italia ce ne sono poco più di 60 milioni). Ma, ecco qua, il punto, dice Valente, è che «[…] per gli addetti alla politica religiosa di Pechino, l’Henan non è una provincia come le altre».
Qui sono infatti diffusissime le cosiddette “House Churches”, le “Chiese domestiche” protestanti di matrice evangelical. Agli occhi del PCC (e di Valente) hanno una pecca gravissima: non obbediscono al governo di Pechino e non si piegano al cosiddetto “Movimento delle tre autonomie” (autogoverno, autofinanziamento, autopropaganda), sorto nel maggio 1950 per controllare e piegare il cristianesimo protestante nel Paese, 7 anni prima della nascita dell’Associazione patriottica cattolica cinese con cui Pechino ha analogamente cercato d’imbavagliare i cattolici.
Valente dice il vero quando scrive che «le migliaia di “Chiese domestiche” dell’Henan appaiono sempre più connesse con la galassia d’impronta evangelicale, pentecostale e carismatica in espansione da decenni in vaste aree del mondo», ma dice il falso quando scrive che «[…] sono stati documentati» i metodi di plagio «[…] e anche casi di omicidi» a carico della Chiesa di Dio Onnipotente (CDO), nota anche come Lampo da Levante, un nuovo movimento religioso considerato eterodosso da diverse Chiese e comunità cristiane maggioritarie. Il suo – unico – riferimento è un articolo di padre Vito del Prete pubblicato dall’agenzia Fides nel 2013, cioè prima dei numerosi studi specialistici pubblicati sulla CDO e la cui unica fonte non è nemmeno l’organizzazione governativa anti-sette cinese, ma solo i corrispondenti occidentali da Pechino che a propria volta leggono solo la propaganda cinese. L’articolo contiene infatti diversi errori fattuali (sbagliate data e luogo di fondazione, sbagliato dire che Zhao Weishan sia l’unico o il principale fondatore, non è vero che gli adepti sono in maggioranza poveri e ignoranti, e il nome “Deng” è dato alla fondatrice solo dalla propaganda anti-sette). Non è nemmeno vero che i convertiti alla CDO vengano abbondantemente dal cattolicesimo, giacché vengono in gran parte dal protestantesimo. E degli omicidi menzionati allora parlava solo il Quotidiano del Popolo, comunista, ma, richiesta di fornire prove, la polizia ha detto di non averne.
Oggi esistono in rete, anche in italiano, fior di studi approfonditi che smentiscono le bugie diffuse dal PCC conto questo gruppo. Perché il punto è questo: la CDO non si piega ai dettami del PCC e così il PCC la perseguita con asprezza. Esattamente come fa da anni con il Falun Gong (o Falun Data), con gli uiguri musulmani della provincia autonoma Xinjiang (entrambi i gruppi vittime designate della mattanza per l’espianto e il commercio di organi umani), con tutte le altre etnie islamiche del Paese – per esempio i Tablighi, cioè il più grande movimento sunnita del mondo, e chiunque stia con il “blocco sunnita” sostenuto dagli Stati Uniti -, avendo convinto tutti che ogni musulmano locale sia un terrorista (e dunque il suo arresto o persino la sua tortura siano praticamente sempre giustificabili). È del resto recentissima la decisione di Pechino d’imporre a ogni famiglia musulmana dello Xinjiang di ospitare, a spese proprie, un funzionario non musulmano del PCC – si parla di più di un milione di agenti – a cui è affidata sia la rieducazione ideologica sia la sorveglianza e lo spionaggio di dette famiglie.
Perché Valente sostiene la linea falsa diffusa dal PCC? Perché è convinto di un grande complotto: le “sette” e i protestanti non ligi agli ordini di Pechino, accomunati da un’avversione di tipo apocalittico verso il comunismo per cui trattare con esso significa trattare con il demonio, sono lo strumento dell’imperialismo americano teorizzato e praticato dalle «[…] centrali del pensiero neo-conservatore, avvezze all’uso politico della religione», le quali «[…] scommettono sull’espansione dei gruppi cristiani evangelicali cinesi per trasformare nei prossimi decenni l’assetto politico della Cina popolare. Ed eventualmente rovesciare l’egemonia del Partito comunista sulla società cinese».
Ora, a parte sia il fatto che se il comunismo cinese cadesse non sarebbe una brutta cosa, sia il fatto che esso ha dato spesso l’impressione di essere demoniaco, Valente ricostruisce un po’ alla buona la teologia di quei gruppi. Per certo prende per buona la versione distorta che ne dà il governo cinese. La CDO, per esempio, identifica sì il PCC con il drago dell’Apocalisse, ma sostiene che il comunismo cinese crollerà da sé e invita i fedeli a tenersi lontani da politica, insurrezioni e cose così.
Quanto ai “neoconservatori”, essi non sono al potere negli Stati Uniti da dieci anni. Solo di recente, alcuni ambienti straussiani (cioè una delle componenti degli “straussiani dell’Ovest”: ce ne sono altre e ci sono anche gli “straussiani dell’Est”) hanno scelto di appoggiare apertamente il trumpismo, ma di per sé i neocon, pur imparentati con gli straussiani, sono un’altra cosa. Erano stati descritti come la “cabala” lanciata alla conquista del mondo ed è bastato che Barack Obama vincesse le elezioni nel 2008 per ridimensionarli in una notte, con tanto di chiusura di organizzazioni e siti. E poi, se oggi i protestanti evangelical cinesi potrebbe forse avere in Donald J. Trump un alleato (per via dell’appoggio che a lui danno gli evangelical statunitensi), certo non ne hanno avuto nella lunga stagione obamiana (mentre, stando a Valente, il complotto andrebbe avanti da tempo).
Qual è la posta in gioco? Dietro l’articolo di Valente (vicinissimo al Papa) sembra spuntare la logica di una proposta indecente fatta al PCC da quella fazione vaticana che è favorevole all’accordo a ogni costo con Pechino: se il PCC (che ora teme di finire vittima invece che vincitore, ecco perché tutto si è fermato) firmerà l’intesa con il Vaticano, il Vaticano offrirà al PCC quella copertura internazionale di cui ha disperato bisogno chiudendo uno, forse due occhi sulla sistematica violazione della libertà religiosa. È ciò che denuncia padre Cervellera parlando della «[…] campagna vaticana mirante a persuadere i cinesi a firmare l’accordo».
Ovviamente i cattolici possono e debbono criticare i nuovi movimenti religiosi e le Chiese protestanti sul piano teologico, a magari anche su qualche altro piano, ma il problema è che in Cina vengono perseguitati proprio in quanto persone religiose e quindi nemiche dello Stato ateo comunista. E il Vaticano non può esserne complice, Valente o non Valente.
Marco Respinti
Giocoforza, il pezzo di Tom Wolfe (1930-2018) che davvero avremmo voluto leggere non lo leggeremo mai. Sarebbe stato il pezzo che lo scrittore statunitense, morto lunedì a 88 anni, avrebbe certamente scritto con ironia impagabile ‒ se solo un deal con il Padreterno glielo avesse concesso (e c’è da scommetterci che lui a chiederGlielo ci abbia provato) ‒ per descrivere l’ammucchiata di coccodrilli che da tre giorni si susseguono sulla stampa cartacea e virtuale, scritta e parlata, per versare la lacrimuccia d’ordinanza alla sua dipartita. Lo avrebbe scritto come un topo nel formaggio impallinando l’orgia di cliché, il gozzoviglio di frasi fatte e il baccanale di luoghi comuni con cui gli intellò così come i pennivendoli stanno cercando di dimenticarlo rapidamente sotto un palmo di terra. Puzza di guano, infatti, lo spellarsi le mani adesso, lo sperticarsi in plausi ora, la sovrabbondanza di lodi postume che in maniera perfettamente bipartisan sta ubiquamente ripetendo le solite quattro cose clonate per lo più da Wikipedia su un grande che se n’è andato ma che sino a ieri dava prurito.
Sì, certo, Tom Wolfe è Tom Wolfe, Ma, diciamola tutta sul serio, Tom Wolfe chi? Quanti lo hanno letto, tanto se non tutto? Chi lo ha conosciuto oltre il fatidico, proverbiale The Bonfire of the Vanities del 1987 (trad. it., Il falò delle vanità, Milano, Mondadori), non-l’ho-letto-ma-ho-visto-il-film? Alcune delle stoccate che lo hanno reso celebre (in realtà sono più celebri le stoccate che non Wolfe) non appartengono nemmeno a Il falò delle vanità, mastodontico apologo su quel che accade quando il capitalismo perde l’anima e nega se stesso. Menomale che c’è Google, la madre di tutti i necrologi letterari preconfezionati in carta bollata da cavare alla bisogna dal freezer per abbatterne rapidamente il contenuto prima che il vibrione dell’incidenza sulla realtà abbia tempo di fare danni.
Wolfe ha dovuto morire perché la gauche caviar (di cui fa parte anche una bella fetta di soi-disant “destra”) si ricordasse che è stato lui l’autore dell’espressione radical-chic (di cui personalmente adoro la versione italiana trattane da Mario Bernardi Guardi: “radical-cicche”). Coniò quell’ossimoro memorabile canzonando – nell’articolo These Radical Chic Evenings, pubblicato l’8 giugno 1970 sul quindicinale New York e poi raccolto nel libro Radical Chic & Mau-Mauing the Flak Catchers del 1970 (trad. it. Lo chic radicale e Mau-mauizzando i Parapalle, Rusconi, Milano 1973, e Radical chic: il fascino irresistibile dei rivoluzionari da salotto, Castelvecchi, Roma 2005) – canzonando, dicevo, il jet-set dei milionari liberal con la puzza sotto il naso e il pugno chiuso che erano convenuti nel salotto buono newyorkese dell’engagé di turno, il pianista Leonard Bernstein (1918-1990), per staccare pingui assegni, “Gradisce un’olivina, madam?”, a favore dei rivoluzionari in armi del Black Panther Party, ma nemmeno Radio Popolare batte ciglio. Tanto adesso Tom Wolfe è morto. Noi, che siamo provincia dell’impero, noi non abbiamo avuto i Bernstein e ci siamo accontentati dei Dario Fò (1926-2016). Abbiamo in compenso avuto i Pier Paolo Pasolini (1922-1975), che forse forse detiene il copyright dell’espressione radical chic con la poesia Il PCI ai giovani, pubblicata su L’Espresso del 16 giugno 1968, allorché denunciò gli sbarbatelli che facevano la rivoluzione con il portafogli di papà. Allora la Sinistra odiò il sinistro Pasolini, oggi sorride paralizzata al destro Wolfe con bonomia al ragù. Sembra l’orchestra che suona sorda mentre il Titanic si fracassa contro l’iceberg.
Wolfe aveva però previsto tutto. Aveva già visto quello che il filosofo Augusto Del Noce (1910-1989), in una lettera al critico letterario Rodolfo Quadrelli (1939-1984) dell’8 gennaio 1984, ha poi chiamato «nichilismo gaio». Il disfacimento umano, prim’ancora che ideologico, di un mondo borghese, ma di una borghesia piccola piccola, anzi meschina, che giocava e gioca con la dinamite. Borghesi sono infatti i marxisti, borghesi sono i liberali, borghesi sono i fascisti, borghesi sono (diremmo da noi) i democristiani, borghesi sono persino certi preti. Borghesi. Cioè piatti, a una dimensione, prigionieri delle proprie proiezioni, immaturi. Convinti ancora di essere il metro del giudizio, la chiave di accesso, il centro. Infantili nel volere cambiare il mondo, quel mondo che non si cambia, ma si accetta, anzi si contempla. Viene prima di noi, ci sarà dopo di noi, è così è perché non lo abbiamo fatto noi. Quando l’uomo se ne accorge, comincia a viverlo e smette di essere borghese. Smette di pensare la rivoluzione e diventa contro-rivoluzionario. Rende grazie.
I radical chic di Wolfe erano già morti dentro allora, e non se ne accorgevano. Non se ne accorgono nemmeno oggi che incensano il genio defunto che li ha polverizzati con estro e talento. Soffrono d’impotenza, e questa è stata la grande profezia di Wolfe, Oggi è tutto più chiaro. Lo è anche quel porsi di Wolfe nel mondo con stile ricercato, vestire impeccabile, mai un capello fuori posto, tutto così ostentato e al contempo così naturale. Vestiva solo di bianco, colore del candore, non perché fosse senza peccato, ma perché chiamava il peccato con il suo nome. Il vero chic era insomma lui, lui che è stato il contrario di un radicale. Il mondo però non ha capito la battuta e non ha riso. Il padre della rinascita conservatrice statunitense nella seconda metà del Novecento, Russell Kirk (1918-1994), il “nordista” con sensibilità “sudista”, negli anni 1960 coniò per sé una definizione ‒ intraducibile ‒ che calza a Tom Wolfe come una delle sue giacché irreprensibili: bohemian tory. Anche Wolfe è stato un conservatore, anzi un conservatore “sudista” di Richmond, Virginia, ovvero di quel pezzo di mondo dove ancora concepiscono l’idea di un’aristocrazia, di un mondo gerarchico, di un ordine sociale come riflesso dell’ordine dell’anima, di un gusto per la vita. Per questo ha vissuto da gentleman in bianco.

La copertina del quindicinale “New York” che l’8 giugno 1970 pubblicò il preverbiale articolo “These Radical Chic Evenings” di Tom Wolfe
In ghingheri è anche la sua scrittura, la sua devozione alla parola, la sua riverenza profonda per grammatica e sintassi così da saperne superare stilemi e stereotipi. A questo punto dovrei scrivere che ha inventato il “new journalism” e bla bla bla, ma tutti quelli che hanno provato a scimmiottarlo sono patetici. Ricordo allora invece la sua poiesi linguistica, e quanto in questo egli assomigli al grande Gilbert K. Chesterton (1874-1936), cattolico. La causticità, e quanto assomigli al grande Henry Louis Mencken (18801-956), ateo. La riverente nell’irriverenza, e quanto assomiglia al grande Mark Twain (1835-1910), ateo anche lui ma chi disprezza compra. Il suo titolo più celebre è un omaggio al William Makepeace Thackeray (1811-1863) de La fiera delle vanità (1848) e la sua vena ricorda (un po’ per somiglianza, un po’ per contrasto) Florence King (1936-2016), lesbica reazionaria “sudista”. Ma in realtà Tom Wolfe è stato solo Tom Wolfe. Creatività, sì, ma prima di tutto tanto lavoro sodo, come sottolinea lo storico Richard Brookisher.
Nel 1968, primo fra tutti, rivelò che il sogno della controcultura hippy era poi solo quello di sballare il banco alla roulette del narcisismo edonistico tossicodipendente con il libro The Electric Kool-Aid Acid Test (L’Acid Test al Rinfresko Elettriko, trad. it., Feltrinelli, Milano 1970). Con The Right Stuff (La stoffa giusta, trad. it., Mondadori, Milano 1979) ha celebrato il mito nella sua forma più pura, l’eroismo, la bellezza della grandezza di essere piccoli uomini. Con I Am Charlotte Simmons del 2004 (trad. it. Io sono Charlotte Simmons, Mondadori) ha mostrato impietosamente il fato di una società sessuomaniacalizzata come la nostra dove un’adolescente rompe ogni freno inibitorio sentendosi Prometeo per poi finire solo carne da stupro. Nel mezzo, ha sbertucciato da maestro il materialismo scientista con il saggio Sorry, but Your Soul Just Died pubblicato nel 1996 su Forbes ASAP. Da meditare il suo articolo pubblicato il 9 dicembre 2016 su The Wall Street Journal in morte dell’astronauta John Glenn (1921-2016), il primo uomo a orbitare attorno alla Terra e a portare la fede cristiana nello spazio. Wolfe era affascinato, letteralmente rapito dal cosmo, dall’ordine dell’universo, dal quel suo silenzio originario, dalla magnitudo della vastità stellare, dal mistero che tutto questo racchiude.
In morte sua non si riesce a non rispolverare che ha pure accanitamente sempre sostenuto George W. Bush jr. e che ha pure previsto l’elezione di Donald J. Trump, affatto rammaricandosene. Ha frequentato gli ambienti di National Review, ma ha pure votato per presidenti progressisti. Era se stesso e non se n’è mai vergognato. Quanto è grande l’imbarazzo del bel mondo dei mezzetacche di fronte a uno che è stato enorme senza chiedere la patente di partito a lorsignori.
Marco Respinti
Il Sessantotto compie 50 anni, ma non è mai diventato grande, ed è pure a corto di lessico. Appena spente le luci della mostra milanese Revolution. Musica e ribelli 1966-1970 ‒ un cocktail lisergico di frutti scaduti come John Lennon, Allen Ginsberg e il boia Che Guevara ‒, a Reggio Emilia si bissa con Sex & Revolution! Immaginario, utopia, liberazione (1960-1977) in programma fino al 17 giugno a Palazzo Magnani nell’ambito della XIII edizione del Festival Fotografia Europea. Fantasia al potere, dicevano, ma glien’è rimasta poca.
Rivoluzione: quanta leggerezza in tuo nome. È stato il Sessantotto che ci ha insegnato a risciacquarci la bocca con questo termine inflazionato, nato per rifare il mondo e finito alla tivù commerciale a celebrare il mito borghese del nuovo urban crossover che è tutta un’app. Tutto è rivoluzione, nulla è rivoluzione. E la rivoluzione si è fatta pop e seriale, come la Marylin di Andy Warhol. Ma «la rivoluzione», diceva Luciano Bianciardi, «deve cominciare in interiore homine». Rivoluzione va infatti scritto maiuscolo perché è una cosa seria, anzi terribile. Un termine grave e greve, pesante come un macigno, un sasso che schiaccia. È il film horror trasmesso a reti unificate da che mondo è mondo, a partire da quando nell’Eden i nostri progenitori mandarono a gambe all’aria tutto per dare retta a uno che poi finì a strisciare sul ventre, ingollando polvere e schifezze. La Rivoluzione è una cosa seria che si dice delle cose serie. È un progetto titanico contro Dio per asservire tutto al nemico dell’umana natura. Ha prodotto ribellioni e sciagure, guerre e distruzioni, morti prime del corpo e morti seconde dell’anima.
Adesso però è una articolo di consumo in vendita al supermarket. Campeggia sui cartelloni pubblicitari al ritmo del calendario, ma il professionista e la lolita del banco accanto dispongono solo di un’occhiata fugace, fra il distratto e l’embè?, riprendendo subito a spippolare il cellulare sulle strisce pedonali col rosso. Sconfitta, allora? Il contrario, la Rivoluzione ha vinto. È diventata normale, ordinaria, routinaria, vissuto sociale, ethos plebeo, pane di massa. Allora le canne erano rivoluzionarie, oggi la rivoluzione la comperi con la paghetta di mammà nel localino fighetto del rapper che fa il ribelle alla televisione col canone.
La mostra di Reggio è la liturgia della sessantottinizzazione del mondo, l’album di famiglia per ricordare come siamo diventati quello che siamo. Siamo così abituati a esserlo, infatti, che non lo rammentiamo più. È il sesso, bellezza.
Cosa c’è di più intimo e bello e divino del sesso, non fosse altro perché la metafora scelta da Dio per comunicarci l’alleanza con la Chiesa è quella sponsale, è il Cantico dei Cantici? Per questo la Rivoluzione ha aggredito il sesso. È così da sempre, ma dagli anni 1960 la tecnologia ha finalmente dato realtà alla volontà di potenza del superuomo. Una pillolina semplice semplice per beffare la natura, scartarla di lato, lasciarsela alle spalle in maniera industriale, massificata. Il sol dell’avvenire era un’anticoncezionale. Una generazione intera che invece della sublimità divina di generare una vita strappa il fuoco agli dèi arrestando la vita. E dopo quella prima generazione, un’altra. E poi un’altra ancora, e così via. Un pernacchio a Dio dall’uomo in rivolta contro se stesso. La centrifuga di Karl Marx, Friedrich Nietzsche e Sigmund Freud che fu quello Stato nascente dal calderone in ebollizione delle streghe si capisce solo a partire dalla rivoluzione sessuale, non il contrario. Io al posto di Dio.
Una volta sgangherato il sesso, il piano inclinato ha fatto il proprio corso. L’utero è mio e il bambino dentro lo massacro io. L’aborto, una voragine che ha inghiottito sei milioni di italiani mai nati. In mezzo c’è stato il divorzio, il setting perfetto per questo scempio. Io sono mio e se il coniuge non ci sta, ci vediamo in tribunale. L’aborto è affare della madre, il padre al massimo è un fuco. Il sesso non c’entra con i figli. E così, mentre Emma Bonino eliminava bambini dal ventre delle madri con una pompa per biciclette, la società imparava dopo il sesso fai-da-te pure a sceglierei il sesso da sé. Sessualità a gusti come la pizza, a giorni alterni come il lavaggio delle strade, zigzagante, ubriaca, camaleontica, transtutto. Il sesso finalmente separato dal gender. Sei fatto in un certo modo, ma non è vero, Dio si è sbagliato. Al grido di “peggio per lui”, i Mario Mieli hanno sdoganato la pedofilia e oggi s’insegna che due papà è meglio di uno sin dalle scuole dell’infanzia.
Una guerra. A Reggio Emilia sono in mostra le armi e i residuati. Sua maestà la pillola anticoncezionale, il prototipo del vibratore, l’accumulatore orgonico con cui il sulfureo Wilhelm Reich credette d’immagazzinare l’energia dell’orgasmo, filmacci, giornalini e fumettastri porno con dovizia di particolari pecorecci che si ammantano di intellettualità, coiti hippy fra bandiere rosse, sex, and drugs and rock’n’roll, il femminismo. Un’orgia. Ma lo scandalo non sono immagini, oggetti e contesti, ché siamo troppo seri per prenderli sul serio e troppo lievi per trattarli con leggerezza. Lo scandalo è che tutto sia oramai abituale, persino burocratizzato, e che se provi a insegnare a tuo figlio un’alternativa sei un perverso.
Marco Respinti
Si chiama fame, ed è il guinzaglio con cui la Cina pascola la Corea del Nord, stabilendone di volta in volta la lunghezza in base ai propri interessi. Dopo la recente escalation, adesso è il momento dell’apertura, ma tutto dipende da come Pechino reagirà ai dazi posti dagli Stati Uniti su acciaio e alluminio. Anche perché il militarismo fa da perno all’ideologia nordcoreana con il nome di “Songun”. Mutuato dal maoismo cinese, lo si potrebbe tradurre con “Military First”: per la maggior gloria della rivoluzione comunista, la forza economica e politica trainante del Paese è l’esercito.
Dal 1994 è strategia ufficiale del Paese, cioè da quando salì al potere Kim Jong-il (1941-2011) ‒ genitore del despota attuale, Kim Jong-un ‒, ma la sua origine risale al programma dell’Unione per Abbattere l’Imperialismo creata il 17 ottobre 1926 dal fondatore della Corea rossa, Kim Il-sung (1912-1994), e alle due pistole ricevute dal padre, Kim Hyong-jik (1894-1926). Lo scrive il sito governativo in italiano “Gruppo di studio del kimilsungismo-kimjongilismo”, spiegando che il “Sogun” serve al progresso dello “Juché” (loro accentano dove altri omettono). Ovvero l’ideologia patriottico-comunista ufficiale del Paese citata nel preambolo della Costituzione nordcoreana: «La Repubblica Popolare Democratica di Corea è la madrepatria socialista del Juché, che incarna l’ideologia e la direzione del Grande Dirigente, il compagno Kim Il-sung».

A Pyongyang svetta la Torre Juche o Torre dell’Idea Juche. Completata nel 1982, sorge sulla riva sinistra del fiume Taedong, esattamente di fronte a piazza Kim Il-sung, sita sulla riva opposta. Fu eretta per commemorare il 70º compleanno di Kim Il-sung.
“Juché” vale “autarchia”, cioè il mito dell’autogestione assoluta, della terzietà rispetto alle superpotenze e della superiorità delle masse nazional-proletarie nordcoreane. Nel 2011, uno studio piuttosto celebre dello statunitense Brian Myers, The Cleanest Race: How North Koreans See Themselves and Why it Matters, ha evidenziato anche gli aspetti razzistici di questa ossessione. Ne sarebbe origine un discorso intitolato, con stile inconfondibile, Eliminazione del dogmatismo e del formalismo e il costituirsi dello Juché nel lavoro ideologico, che Kim Il-sung pronunciò 28 dicembre 1955. Il suo credo è essenziale: l’uomo è il padrone di ogni cosa e decide tutto. Dio dunque esiste ed è l’uomo, come insegnano Karl Marx, Friedrich Engels e Ludwig Feuerbach; ma non si tratta di semplice irreligione, bensì di ateismo organizzato: la massa, nazionalizzata (con meccanismi bene illustrati dallo storico tedesco-americano George L. Mosse), è il “popolo eletto” artefice dello sviluppo della nazione, e il “caro leader” il Messia vero uomo e vero comunista. Eun Hee Shin, docente al Simpson College di Indianola, nell’Iowa, ne ha prodotto lo studio forse più preciso, e simpatetico, pubblicato nel 2007 nel volume collettaneo Religions of Korea in Practice a cura di Robert E. Buswell, Jr. Oggi s’insegna che Kim Il-sung è immortale (e dunque il vero capo del regime) e che la fede in lui procura la vita eterna: una volta morti, i nordcoreani resterebbero infatti nella rete sociopolitica promossa dallo “Juché”, che dunque va difeso. Appunto con il “Songun”.
Lo “Juché” ha persino un calendario proprio, introdotto il 9 settembre 1997, anniversario della fondazione della patria socialista. (Anche i rivoluzionari francesi e l’Unione Sovietica imposero la settimana di dieci giorni per sopprimere la domenica del Signore, ma in Russia il progetto fallì perché il popolo continuava a onorare la festa di nascosto). L’orologio di Pyongyang è dunque sincronizzato sul 15 aprile 1912, il Giorno del Sole, cioè la data di nascita del “dio-in-terra” Kim Il-sung. Siccome quello era l’anno 1, oggi saremmo nel 107.
Nella Cambogia genocida dei khmer rossi vigeva una ideocrazia nazional-comunista e parareligiosa simile, dominata parossisticamente dal dio-partito Angkar. Non a caso il filosofo tedesco-americano Eric Voegelin ha definito i totalitarismi “religioni capovolte”.
Ora, il web reca traccia di qualche “gruppo di studio” dello “Juché” attivo anche in Italia, benché sfuggente. Chissà come gli “antifa” italiani vivono lo psicodramma della razza nordcoreana superiore.
Marco Respinti
Versione originale e completa dell’articolo pubblicato con il titolo
Dove il despota è “immortale
in Libero [Libero quotidiano],
anno LIII, n. 69, Milano 11-03-2018, p. 11.
Sono state aggiunte annotazioni tramite collegamenti ipertestuali
La «razza bianca» da difendere di cui ha parlato Attilio Fontana, candidato presidente della Regione Lombardia per il Centrodestra, in una intervista a Radio Padania il 14 gennaio, è un imbecillità assoluta esattamente come un’imbecillità assoluta è la «nostra razza» (italiana) da sostenere di cui ha parlato in luglio Patrizia Prestipino, membro della direzione nazionale del Partito Democratico, responsabile del dipartimento del PD per la difesa degli animali, ex assessore regionale e insegnante di Lettere nei licei, in una intervista a Radio Cusano Campus. Diverso è solo il putiferio scatenato da queste due identiche imbecillità: totale nel caso di Fontana, perché è di Centrodestra, praticamente nullo nel caso della Prestipino, perché è di Centrosinistra.
La questione delle “razze umane” è un’imbecillità perché le “razze umane” non esistono. La biologia mostra e dimostra che ogni essere umano, di qualunque colore abbia la pelle, appartiene all’Homo sapiens sapiens, il nome con cui i biologi classificano ufficialmente l’uomo attuale. Che pure è biologicamente identico all’uomo arcaico, quello chiamato “semplicemente” Homo sapiens. L’unico modo per sostenere il contrario è postulare che, oltre alla specie sapiens, il genere Homo abbia conosciuto altre specie biologicamente diverse e quindi progenitrici di “razze” diverse. Ma è un problema che va posto direttamente agli evoluzionisti, non certo per esempio al cattolicesimo, da sempre granitico nell’affermare l’unicità del genere umano. Del resto gli evoluzionisti, assai prodighi di nomenclature tassonomiche nuove ogni qualvolta s’imbattono in un reperto fossile umano “sconosciuto”, da un po’ di tempo sono alle prese con un ridimensionamento realistico della selva di “specie” di cui lussureggiano i loro indimostrati alberi genealogici dell’umanità, riconoscendo che spesso si tratta solo di varietà locali o diacroniche dello stesso, unico Homo.
Le differenze tra le varietà locali dell’unico essere umano che constatiamo a occhio nudo (il colore della pelle, il taglio degli occhi, e così via) sono il modo con cui la biologia umana risponde a certe sollecitazioni, fra cui, sì, anche quelle ambientali (la pelle scura per proteggersi dal Sole alle latitudini dove i suoi raggi sarebbero altrimenti micidiali, gli occhi “a mandorla” per sopperire al riverbero abbacinante della luce sui ghiacci, e così via). Il che è però completamente diverso dal dire, come invece dice l’evoluzionismo, che le pressioni ambientali determinino i mutamenti genetici che genererebbero le specie nuove. Le differenze biologiche tra le varietà si spiegano infatti ancora con il buon vecchio Aristotele: la biologia umana ha in sé potenzialità che attualizza quando deve rispondere a un bisogno. Le diversità nel colore della pelle umana dipendono dalle concentrazioni della stessa melanina che tutti hanno, non certo da una diversa genetica. Ma se quelle potenzialità non sono già insiste nella biologia umana, nessun bisogno le produrrà dal nulla. Per quanto gli possano essere utili, insomma, le ali all’uomo non spunteranno mai perché la sua biologia non le possiede nemmeno in potenza. La biologia corrobora, dunque, il cattolicesimo sull’unicità del genere umano, mentre è il giro mentale evoluzionista che apre pericolosamente alla fantascientifica ipotesi che, durante la lunga marcia da scimmia a uomo, possano essere esistiti ceppi umani diversi da cui è semplice poi inferire la bugia delle “razze umane” con tutto il suo corollario di orrori. Basti solo pensare al povero pigmeo congolese Ota Benga (1883 ca.-1916), che, considerato l’anello di congiunzione tra uomo e scimmia dall’evoluzionismo dominante, fu rinchiuso in un zoo finché non si suicidò.
Affinché non sia cioè peloso l’odierno stracciarsi le vesti per le parole di Fontana, occorrerebbe primo che ci si stracciasse le vesti pure per le identiche parole della Prestipino, secondo che s’intentasse un processo culturale serio all’evoluzionismo e terzo che si denunciasse apertamente la matrice ideologica dell’idea balorda delle “razze umane” divise tra superiori e inferiori, aulenti e puzzone.
Il termine “razza” è stato infatti usato solo in zootecnia fino a che non lo ha applicato all’uomo, forse per primo, uno dei padri più stimati del pensiero progressista moderno: François-Marie Arouet (1694-1778), meglio noto come Voltaire. Lo fece nell’Essai sur les moeurs et l’esprit des nations et sur les principaux faits de l’histoire, depuis Charlemagne jusqu’à Louis XIII, del 1756, e da lì l’Illuminismo è stato un fiume in piena. Il tedesco Johann Heinrich Samuel Formey (1711-1797), un sacerdote completamente votato al nuovo verbo rivoluzionario, chiamò «termini estremi della razza dell’uomo» quei lapponi che Jean-Baptiste-Claude Delisle de Sales (1741-1816) definì «aborti della razza umana». Quanto agli ottentotti, per Delisle de Sales «si tratta di uomini imperfetti», per il padre gesuita Guillaume-Thomas François Raynal (1713-1796), un altro apostata, «hanno qualcosa della sporcizia e della stupidità degli animali che rigovernano» e per Georges-Louis Leclerc conte di Buffon (1707-1788), uno dei primi evoluzionisti, sono un «popolo spregevole». Ecco ancora Voltaire: «Il brasiliano è un animale che non ha ancora raggiunto la maturazione della propria specie». Il tocco da maestro spetta all’ennesimo prete indegno stavolta pure spretato, padre del pensiero cattolico-democratico, Baptiste-Henri Grégoire (1750-1831), che non seppe fare di meglio che redigere un Essai sur la régénération physique, morale et politique des Juifs, vantata come «ouvrage couronné par la Société royale des Sciences et des Arts de Metz, le 23 Août 1788» di cui era membro. Contiene l’idea che gli ebrei, sbagliati, vadano rettificati. Sarà un caso che il primo genocidio della storia, quello giacobino contro i cattolici della Vandea fra 1793 e 1794, fu perpetrato al grido di «razza ribelle» (Bertrand Barère de Vieuzac, 1755-1834), «razza esecrabile» (tale A. Minier sul Journal de Paris il 31 dicembre 1793), «razza abominevole» (Marie Pierre Adrien Francastel, 1761-1831), «razza […] [che] dev’essere annientata» (Jacques Garnier detto Garnier de Saintes, 1755-1818?) e «animali con la faccia da uomini» (Camille Desmoulins, 1760-1794)?
Solo quando l’antirazzismo sacrosanto saprà riconoscere la matrice culturale del pensiero imbecille che ci assedia, sarà vera indignazione.
Marco Respinti
Versione originale dell’articolo pubblicato con il titolo
La razza non esiste, ricordatelo anche al Pd
in La nuova Bussola Quotidiana, Monza 19-01-2017
La Catalogna è indipendente, anzi no. Martedì 10 ottobre, il presidente della “Generalitat de Catalunya”, Carles Puigdemont, ha dichiarato l’indipendenza e contestualmente l’ha sospesa girando la patata bollente al primo ministro di Spagna, Mariano Rajoy, del quale non è necessario essere dei grandi fan per condividere la domanda affatto retorica che ha rivolto ai forse-secessionisti il giorno seguente: fate ancora parte dello Stato spagnolo oppure no?
Mentre le risposte, e le conseguenze, si fanno attendere, sull’intera faccenda aleggia inevitabilmente lo spettro di Lluís Companys i Jover (1882-1940), l’unico uomo politico ad avere dato l’indipendenza alla Catalogna. Per 11 ore.

Barcellona, 6 ottobre 1934, il presidente della “Generalitat de Catalunya” , Lluís Companys, proclama l’indipendenza
Avvocato, attivista della Sinistra, finito in carcere durante la dittatura di Miguel Primo de Rivera y Orbaneja (1870-1930), membro eminente dell’Esquerra Republicana de Catalunya (ERC, cioè la Sinistra Repubblicana di Catalogna), il partito indipendentista fondato nel 1931 da Francesc Macià i Llussà (1859-1933), il 12 aprile 1931 Companys viene eletto sindaco di Barcellona. Passano due giorni e il 14 aprile, esiliato il re Alfonso XIII di Borbone (1886-1941), viene proclamata la Seconda Repubblica Spagnola, incubatrice delle violenze generalizzate e delle persecuzioni anticattoliche dispiegatesi in grande stile soprattutto a partire dal 1936, quando alle elezioni del 16 febbraio trionfa il Frente Popular, il cartello delle sinistre. Della repubblica Companys è un sostenitore entusiasta. A Barcellona s’insedia deponendo il predecessore armi in pugno. Poi viene eletto nel parlamento spagnolo, collabora alla stesura della Costituzione repubblicana, nel 1932 viene eletto nel “Parlament” catalano, l’anno seguente è ministro della Marina spagnola, quindi viene rieletto nel parlamento spagnolo e, sempre nel 1933, succedendo a Macià, morto improvvisamente, diviene sia leader dell’ERC sia presidente della “Generalitat di Catalunya”. È in questa veste che, in un clima di alta tensione con Madrid, matura lo strappo. Approfittando di uno sciopero generale nazionale inscenato dai sindacati di sinistra il 5 ottobre 1934 contro il nuovo governo (comunque cambiato il 4 ottobre) che il 1° del mese aveva affidato tre ministeri ad altrettanti rappresentati della Destra cattolica, Companys forza gli eventi. Il 6 ottobre dichiara l’indipendenza. Sono le 8 di sera. Alle 7 del mattino seguente Companys è in manette; a terra restano una ventina di persone cadute durante gli scontri fra poliziotti catalani e forze dell’ordine spagnole. Companys è condannato a trent’anni di carcere, ma nel 1936 il Frente Popular lo libera rimettendolo alla guida del governo regionale catalano appena prima che scoppi la rivolta militare da cui scaturisce la Guerra civile (1936-1939). Quando, nel 1939, i militari si avvicinano a Barcellona, Companys fugge in Francia. Nel 1940 la Gestapo nazionalsocialista tedesca lo cattura a Parigi e lo riconsegna a Madrid, dove il 15 ottobre è fucilato.
Un martire della libertà, dunque? Non esattamente. La figura ritratta da Javier Barraycoa Martínez, cattedratico della facoltà di Scienze Politiche dell’Universidad Abat Oliva CEU di Barcellona, nella monografia Los (des)controlados de Companys. El genocidio catalán, julio 1936-mayo 1937 (Libroslibres, Madrid 2016) rivela piuttosto il profilo di un macellaio, responsabile dell’eccidio, in meno di un anno, di circa 9mila suoi compatrioti catalani.
È infatti nella Catalogna governata da Companys che la “revolución social española” del 1936 mostra il volto più mostruoso. Le più belluine sono le formazioni anarchiche con cui il presidente della “Generalitat” ha stretto un patto di ferro. Come sottolinea e spiega Barraycoa, non si trattò infatti di eccessi sfuggiti di mano, ma di una mattanza voluta e orchestrata a partire da quel 21 luglio in cui Companys crea il Comitè Central de Milícies Antifeixistes de Catalunya accogliendo le richieste dei sindacalisti anarchici della Confederación Nacional del Trabajo. Squadre stragiste con la scusa dell’“antifascismo”.
Particolarmente greve è la persecuzione della Chiesa Cattolica: 2.441 ecclesiastici (1.538 sacerdoti, 824 religiosi e 76 suore) di cui tre vescovi vengono assassinati. L’apice si ha in agosto, quando vengono ammazzati 70 sacerdoti al giorno. A Lérida viene sterminato il 65% del clero, a Tortosa il 62, a Vic il 27, a Barcellona il 22, a Gerona il 20, nella contea di Urgell il 20 e a Solsona il 13. In totale, è in Catalogna che viene eliminato il 35% di tutto il clero spagnolo. Poi si bruciano chiese e conventi: a Barcellona 500; fra queste, anche la cripta della Sagrada Familia, compresi gli schizzi, i bozzetti e i progetti dell’architetto Antoni Gaudí (1852-1926). Del resto, nemmeno la sua tomba è stata risparmiata.
Tra gli oppositori politici delle Sinistre, vengono ammazzati 1.199 carlisti (i legittimisti monarchici cattolici), 281 membri della Lliga Regionalista (conservatori catalanisti), 117 dell’Acción Popular Catalana (monarchici conservatori cattolici), 110 del Sindicato Libre (il sindacato creato dai carlisti), 108 della Falange Española di José Antonio Primo de Rivera (1903-1930), figlio del dittatore Miguel, 213 della Confederación Española de Derechas Autónomas (il partito che nel 1934 aveva dato tre ministri al governo repubblicano, scatenando lo sciopero generale del 5 ottobre), 70 di Renovación Española (monarchici conservatori) e 36 dell’Unión Patriótica (il partito fondato da Miguel Primo de Rivera). Quindi 54 giornalisti, 31 nobili, 52 membri del Círculo Ecuestre di Barcellona, l’antico e blasonato social club sportivo, colpevoli solo di non essere “proletari”, e almeno 17 fra poeti e scrittori (molti altri fuggono all’estero).
L’ERC contava quasi 50 centri di detenzione e alcuni centri di tortura. Ai sacerdoti spesso si gradiva riempire la bocca con i testicoli asportati e molte sono state le donne incinte sventrate. Companys, che non disdegnava le sedute spiritiche in compagnia di esponenti comunisti, supervisionava e governava tutto. Barraycoa, autore tra l’altro di Historias ocultadas del nacionalismo catalán (Libroslibres, 2011) e di Cataluña hispana (Librolibres, 2013), non è tenero con l’indipendentismo dei propri compatrioti catalani. Ma la minoranza secessionista della Catalogna di oggi, dove l’ERC di Companys fa parte della coalizione di governo, ha fatto i conti con questa storia censurata?
Marco Respinti
1917-1997, il secolo rosso. Morte agli oppositori, riduzione della libertà, uccisione dei cristaini: così la rivoluzione comunista conquista Europa, Asia e America. Ripercorrere un itnirerario tragico per non dimenticare e non ripetere
Alla conquista del mondo
in Il Timone. Mensile di apologetica, n. 166, anno XIX, Milano settembre-ottobre 2017,
pp. V e VIII-IX del dossier inttolato 100 anni tra errore e orrore
LEGGI IL RESTO ACQUISTANDO LA TUA COPIA DE “IL TIMONE”
Un po’ Gilbert Keith Chesterton (1874-1936) si sentiva vittoriano. Per questo il suo L’età vittoriana nella letteratura (Adelphi, pp. 212, € 14,00) è una specie di “libro delle confessioni”. L’impossibilità di sintetizzare un testo di apoftegmi e massime rafforza l’idea. L’incedere tumultuoso rievoca una passerella di celebrità: Jeremy Bentham e Thomas Hardy, Robert Browning e John Ruskin, le sorelle Brontë e Robert Louis Stevenson, William Morris e Matthew Arnold seguiti da decine di altri, su tutti svettando Charles Dickens. È critica letteraria fatta per ondate e piene che affolla la mente d’immagini disordinate e scomposte. Quando la quiete succede alla tempesta, la risacca lascia sul terreno alcuni concetti-chiave. Non necessariamente sincronici, ma utili a segnare punti fermi.
Il primo è un’idea tanto bizzarra quanto suggestiva: «[…] l’evento più importante della storia inglese fu un evento che non ebbe mai luogo: una Rivoluzione inglese sull’onda di quella francese». Per Ian Ker, estensore dell’autorevole G.K. Chesterton: A Biography (Oxford University Press 2011), è la frase più celebre di tutto questo libro. Probabilmente è la più ambigua, come lo fu l’ammirazione di Chesterton per la Rivoluzione Francese giacché la Rivoluzione Francese che egli lodava in nome della distribuzione democratica della proprietà non assomiglia in nulla a quella scoppiata nel 1789. Ebbene, la rivoluzione inglese che non avvenne nelle strade avvenne per Chesterton nelle lettere, con i vittoriani nella parte dei radicali scagliati contro gli oligopoli.
Il secondo punto fermo è il concetto di “compromesso vittoriano”, quel patto normalizzatore con cui le classi sociali pur tra loro in lotta scelsero di stendere sopra le piaghe della miseria materiale il velo illusorio di un’idea infinita e indefinita di progresso. The Victorian Age in Literature uscì nel 1913 (in italiano nel 1945 da Bompiani e nel 2013 per Fuorilinea di Monterotondo, in provincia di Roma). Si è dovuto aspettare il 2001 per disporre di un’analisi imprescindibile come Inventing the Victorians (St. Martin’s Press, New York) con cui Matthew Sweet ha avuto il coraggio di dirci che tutto quanto abbiamo sempre creduto di sapere sui vittoriani è semplicemente falso. Chissà come l’avrebbe presa Chesterton, spirito controcorrente per eccellenza.
Il terzo è l’età vittoriana intesa come guerra civile fra il pensiero utilitaristico-razionalista dominante e i suoi più acerrimi nemici: anzitutto il Movimento di Oxford e John Henry Newman, quindi Dickens e infine i nuovi protestanti romantici Thomas Carlyle, John Ruskin, Charles Kingsley, Frederick D. Maurice e forse anche Alfred Lord Tennyson.
L’ultimo punto è invece una profezia. Attorno al 1870, nel cuore del mondo vittoriano, Chesterton vede annullarsi a vicenda le due forze che si sono contese l’Occidente, il cristianesimo e la posterità del giacobinismo. Una civiltà giunta al capezzale delle proprie illusioni che annaspa e lotta senza sapere cosa ci sia dopo. Come oggi.
Marco Respinti
Versione originale dell’articolo pubblicato
con il medesimo titolo in Libero [Libero quotidiano],
anno LII, n. 89, Milano 31-03-2017, p. 24
Così è fallito il referendum della pace in Colombia
di Alberto de Filippis – Il Foglio quotidiano, anno XXI, n. 234, Roma 04-10-2016, p. 3
Ginevra. Domenica, il referendum in Colombia sull’accordo di pace con le Farc (Forze armate rivoluzionarie colombiane) per porre fine a una guerra durata 52 anni ha segnato l’ennesimo scivolone dei sondaggisti. Dopo mesi passati ad assicurare la vittoria schiacciante del sì, il 50,21 per cento dei colombiani ha invece detto no all’accordo. Eppure, appena una settimana fa a Cartagena, il governo
del presidente Juan Manuel Santos e gli alti comandi dei guerriglieri avevano firmato ufficialmente l’accordo di pace scaturito da quattro anni di trattative a Cuba. I media internazionali avevano celebrato la vittoria al referendum come un fatto compiuto, il leader delle Farc, Timochenko, aveva chiesto perdono alle vittime della violenza e Santos già si vedeva, venerdì prossimo, nominato al Nobel per la Pace. Dopo il responso delle urne la speranza sembra sfumata, e secondo molti osservatori i colombiani, davanti alla scelta tra fare del loro paese un esempio a livello internazionale oppure fare un salto nel vuoto, hanno scelto quest’ultimo. La Colombia è divisa: il tasso d’astensione al referendum è stato del 62,57 per cento e anche l’opinione dei pochi che sono andati a votare è spaccata in due.
L’analisi del voto offre molti spunti di riflessione: il sì ha vinto nelle zone più colpite dalla violenza, mentre i no si sono imposti soprattutto nei grandi centri urbani. Ha giocato un ruolo l’impegno profuso dall’ex presidente Alvaro Uribe Vélez che si è speso moltissimo per far affondare l’accordo. Uribe aveva anche alcune ragioni personali visto che le Farc gli hanno ammazzato il padre e il fratello, ma sotto la sua presidenza (con Santos ministro della Difesa) le Farc erano state quasi sconfitte militarmente. Importante anche la critica all’accordo da parte delle chiese evangeliche, che in passato le Farc avevano dichiarato come obiettivo militare perché i sacerdoti avevano cercato di convincere i giovani a non entrare nella guerriglia. Santos era convinto di averle portate dalla sua parte: è stato solo l’ennesimo errore di una lunga serie. Quello che ha però davvero indispettito i colombiani che si sono recati alle urne è stato l’atteggiamento assunto dai guerriglieri durante i negoziati.
La pretesa di un perdono per le violenze compiute che si era spinta fino a chiedere un alto numero di scranni sicuri in Parlamento per il partito politico che dovrebbe sorgere dalla radici della formazione guerrigliera più antica dell’America latina. Richiesta poi parzialmente rientrata. Sarebbe sbagliato però, ritenere che l’alto tasso di astensione sia un segno di apatia. Anche i colombiani che non sono andati a votare hanno voluto mandare un messaggio – dire cioè che non hanno creduto né al presidente, né alle Farc. Santos non è popolare in patria: l’economia colombiana corre a livello macroeconomico, ma i risultati della crescita non influiscono sulla vita dei cittadini.
Il lavoro magari c’è, ma è assai mal pagato, gli stipendi sono bassi, le infrastrutture sono insufficienti e la corruzione nella politica è tale che il colombiano medio non ha alcuna fiducia nella classe politica. Anche la sicurezza nel paese non è migliorata, anzi. Sono proliferate nuove formazioni guerrigliere e i cartelli criminali si sono moltiplicati. Anche le Farc hanno collaborato al risultato di questo voto referendario, continuando a mettere bombe e perpetrare attacchi contro l’esercito, salvo poi dare la responsabilità a commando locali. Una bugia, vista la struttura verticistica dei ribelli. Le Farc hanno inoltre rifiutato di pagare qualsiasi rimborso economico per i danni causati. Questo malgrado in aprile un reportage dell’Economist avesse raccontato del tesoro nascosto che i guerriglieri avevano accumulato con il narcotraffico, il sequestro e altre attività illecite.
E adesso? Questo risultato potrebbe voler dire la morte politica di Santos che ha annunciato un meeting con i sostenitori del no e i negoziatori di Cuba. Si potrebbe persino arrivare a un rimpasto governativo. Le posizioni sono però ancora distanti. Gli oppositori all’accordo vogliono che sia negoziato un nuovo documento secondo cui i comandi delle Farc siano incarcerati e non ricevano seggi parlamentari blindati. In base al testo bocciato dal referendum, non solo avrebbero potuto partecipare alle elezioni presidenziali e legislative del 2018, ma avrebbero ottenuto anche dieci seggi non elettivi fino al 2026. Le Farc hanno promesso che non riprenderanno le armi. Nuove riunioni sono state indette a Cuba con i rappresentanti delle due parti.
Israele è colpevole di genocidio contro i palestinesi. No, non è un proclama dell’ISIS, ma il programma, A Vision for Black Lives, del “Movement for Black Lives”, un cartello di 50 e più organizzazioni che in maniera unilaterale si proclama rappresentante non solo dei neri ma pure di donne, gay, lesbiche, transessuali, “sessualmente non conformisti”, musulmani, carcerati ex e attuali, poveri, operai, “diversamente abili”, illegali privi di documenti e immigranti. Ce l’ha con Israele, ma pure con capitalismo, razzismo, colonialismo, schiavitù, cambiamenti climatici e sfruttamento (mancano solo le cavallette e gli alieni). “Black Lives Matter” (perché di questo si tratta) è insomma un movimento di tipo ideologico che mira a una cosa sola: la rivoluzione.
Chi lo spiega bene è Philip Carl Salzman, antropologo della McGill University di Montreal, in Canada, su Middle East Forum, il portale web diretto da Daniel Pipes. Salzman parla d’«intersectionality»: intraducibile, è l’idea secondo cui tutti gli “oppressi” del mondo sono, secondo gli “oppressi”, portati a unirsi contro il nemico comune. Ecco dunque i neri a fianco dei palestinesi contro chi vuole (dice “il movimento”) spazzarli dalla faccia della Terra. Ma è una bugia, funzionale solo a ingrossare l’esercito della multinazionale della sovversione. Già il comunismo ha conquistato Paesi interi in Africa e in Asia fingendo di stare dalla parte di quei movimenti indipendentisti che, nazionalisti, di per sé il marxismo nemmeno sapevano cosa fosse. Già il famoso terrorista “Carlos” (in carcere in Francia dove si è convertito all’islam) predicava negli anni 1970 l’unione di tutte le forze anti-americane cercando di forzare la connivenza tra comunisti e jihadisti che in realtà stavano assieme come il diavolo e l’acquasanta.
Dopo l’ennesimo fatto di cronaca questa strategia è più che evidente. In North Carolina Keith Lamont Scott è stato ucciso dall’agente Brentley Vinson del dipartimento di polizia di Charlotte-Mecklenburg capitanato da Kerr Putney. Ovvero un poliziotto nero agli ordini di un capo nero ha ucciso un nero. Dov’è il razzismo? E, inoltre, come molti americani si chiedono da mesi, perché se un bianco spara a un nero tutti gridano subito al razzismo mentre se un nero spara a un bianco (magari un poliziotto) il razzismo non passa nemmeno per l’anticamera del cervello a nessuno?
La realtà, infatti, è chiara a tutti, ma nessuno se la sente di dirla. In molte città americane certi quartieri sono delle casbe. Sono le giungle dove dominano incontrastate quelle gang di cui cominciamo ad avere qualche prima, pallidissima idea anche nelle nostre città. Desolazioni dove ci si scanna tra latinos e neri, tra bande rivali di spaccio e smercio di carne umana. E soprattutto gli antri dove regna Acab, acronimo di “All cops are bastard”, “tutti i poliziotti sono bastardi”, e i poliziotti tremano al solo pensiero di metterci piede. Ma poi, “to serve and protect”, per servire e proteggere” quelli che lo meritano, e ce ne sono, lo fanno, entrano nell’inferno e così capita pure che a volte sbaglino. O che tra loro ci sia qualche montato, ma cosa cambia? I poliziotti neri non fanno strage di vite nere.
Chi aveva capito alla perfezione la necessità strategica di passare dai ghetti razziali alla militanza per la rivoluzione era Saul Alinsky (1909-1972), archeologo mancato e agit-prop comunista che, resosi conto dell’impossibilità di radicare il marxismo di stretta osservanza negli USA, si reinventò una carriera come organizzatore di minoranze etniche. Scrisse manuali di radicalismo urbano, uno lo dedicò nientemeno che a Lucifero e a Chicago ebbe due allievi importanti. Uno fa il presidente degli Stati Uniti e si chiama Barack Obama; l’altra, letteralmente infatuata di lui, incentrò sul suo “modello organizzativo” la tesi di laurea e il presidente degli Stati Uniti vorrebbe farlo. Si chiama Hillary Clinton.
Marco Respinti
Versione originale e completa dell’articolo pubblicato con il medesimo titolo
in Libero [Libero quotidiano], anno LI, n. 267, Milano 27-09-2016, p. 13
Al plurisecolare processo di negazione storica di Dio, definito “Rivoluzione”, si oppone una reazione che ne è il contrario, ma soprattutto il contraddittorio: la Contro-Rivoluzione. Il processo rivoluzionario procede per grandi fasi: il protestantesimo, la Rivoluzione Francese, la Rivoluzione socialcomunista e il relativismo contemporaneo che non sono eventi isolati e improvvisi, bensì uno sviluppo graduale tra esplosioni violente e interregni di consolidamento.
Tra la prima e la seconda fase rivoluzionarie, mentre il portato del protestantesimo configurava un modo nuovo anche di organizzare la società e d’intendere la politica, e la società e la politica incubavano quella che sarà la Rivoluzione Francese (1789-1799), si sviluppò l’assolutismo. Come tutti gl’interregni tra le fasi rivoluzionarie, anch’esso mescolava aspetti sovversivi ed elementi conservativi, ma, pur conservando una cornice e una facciata cristiane, inesorabilmente portava a maturazione quel processo di sclerotizzazione delle istituzioni politiche che, uscito dalla logica moderna della Pace di Westfalia (1648), troverà piena realizzazione storica nello Stato giacobino francese, matrice dei totalitarismi, e copertura filosofica nel pensiero politico del tedesco Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831). Se cioè l’epoca dell’Antico Regime prolungò indiscutibilmente nel tempo il “Medioevo” della mentalità, dei costumi e in buona sostanza anche del diritto, nondimeno innescò tutte le contraddizioni che il giacobinismo sfruttò per muovere oltre lungo il processo rivoluzionario, gettando con l’acqua sporca anche il bambino. Soprattutto perché il giacobinismo ha avuto di mira non tanto l’acqua sporca, ma proprio il bambino.
È questo il grande insegnamento che un fuoriclasse come il visconte francese Alexis Henri Charles de Clérel de Tocqueville (1805-1859 affida alle pagine de L’antico regime e la rivoluzione (1856), ma è anche la logica che soggiace a “Conceived in Liberty”. La contro-rivoluzione americana del 1776 (Liamar, Monaco 2016) don Beniamino di Martino. Classe 1963, sacerdote della diocesi di Sorrento-Castellammare (Napoli), autore di svariati saggi e volumi tra cui La Prima Guerra Mondiale come effetto dello “Stato totale”. L’interpretazione della Scuola Austriaca di economia (Facco, Treviglio [Bergamo] 2016), La Dottrina Sociale della Chiesa. Principi fondamentali (Nerbini, Firenze 2016) e Rivoluzione del 1789. La cerniera della modernità politica e sociale (Facco, Treviglio 2015), don Di Martino è stato il fondatore, nel 2003, del “glorioso” portale “fuori dal coro” StoriaLibera.it che nel 2015 ha trasformato in StoriaLibera. Rivista di scienze storiche e sociali, semestrale peer-review gratuito.
Colto e puntuale, don Di Martino ha il raro pregio di unire ortodossia dottrinale, lucidità intellettuale, studio, nessun timor reverenziale verso il “politicamente corretto” e attenzione agli autori della scuola sia tradizionalista sia libertarian del conservatorismo statunitense.
Il suo studio sul Founding americano lo rivela sin dal titolo, “Conceived in Liberty” (“Concepiti nella libertà”), che figura tra virgolette poiché è una citazione: quella del titolo dell’omonima mastodontica opera in quattro volumi (più un quinto mai portato a termine) che il maestro del pensiero libertarian novecentesco, Murray N. Rothbard (1926-1995), pubblicò nel 1975 sul troppo ignorato periodo coloniale precedente l’indipendenza americana e vero crogiuolo della futura nazione. Curiosamente, l’originale è una frase del Discorso di Gettysburg pronunciato nel 1863 da Abraham Lincoln (1809-1865), discorso che proprio la scuola rothbardiana ritiene essere la sovversione statalista del principio di libertà in cui il Paese nordamericano nacque con la firma della Dichiarazione d’indipendenza il 4 luglio 1776. A 240 anni esatti dalla nascita degli Stati Uniti, dunque, lo studio di don Di Martino è più che prezioso.
Le sue pagine contribuiscono infatti in modo fondamentale – tra l’altro perché la bibliografia italiana in materia è povera e quella di qualità critica praticamente inesistente – a infrangere quella falsa immagine dell’origine degli Stati Uniti praticamente ubiqua da cui per ciò stesso non sono esclusi nemmeno i cattolici.
Gli Stati Uniti, illustra bene don Di Martino, furono l’effetto di una guerra d’indipendenza (una “guerra civile” all’interno dell’impero britannico) e non di una rivoluzione. Non ebbero nulla a che spartire con lo spirito giacobino che invece travolgerà la Francia. L’idea di governo che ne sorse fu agli antipodi dell’idea di Stato nata dalla Rivoluzione Francese. Se e quando i suoi dibattiti furono interessati dalla cultura illuministica, l’influenza fu più “d’ambiente” che d’ideologia (si è più figli del proprio tempo che dei propri padri, dice il pensatore cattolico colombiano Nicolás Gómez Dávila [1913-1994]. Le sue dinamiche si svolsero certamente dentro il retaggio della rivoluzione protestante (e questo, nell’epoca coloniale, comportò anche la persecuzione di certi cattolici), ma ciò significa che furono anche una “guerra civile” fra protestanti (nonché l’affermarsi della «dissidenza del dissenso», come disse Edmund Burke (1729-1797), anche nel senso di un “ribaltamento del ribaltamento” che finisce per farsi circolo anche virtuoso). Nella misura in cui nacquero essenzialmente da una rivolta contro l’esagerata pressione fiscale non bilanciata da un’adeguata rappresentanza politica assomigliarono più alle fronde premoderne, persino alle jacquerie medioevali e alla logica sancita dal “diritto di resistenza” articolato nel corpus del pensiero cattolico che un putsch sovversivo, appunto una rivoluzione. L’indipedenza dalla Gran Bretagna non fu lo scopo della rivolta dei coloni nordamericana, ma divenne il mezzo estremo concreto per ri-stabilire il primo principio non negoziabile: che la libertà è un diritto inalienabile dell’essere umano e tale perché conferito da Dio attraverso la creazione di una natura umana inalterabile (sono parole della Dichiarazione d’indipendenza del 1776), un diritto che precede qualsiasi costruzione o logica umana e che non è riducibile da alcun potere, Stato, forza. È stato per effetto di questa nascita eccezionale che la Chiesa Cattolica è potuta diventare il sale della Terra americana. Il mondo nato dalla Rivoluzione Francese ha voluto invece affermare il contrario, facendo dell’uomo uno strumento fungibile dello Stato e del potere qualunque esso sia.
La nascita degli Stati Uniti fu insomma il “prodotto secondario” della lotta contro l’elemento rivoluzionario insito dell’assolutismo in nome di una “libertà antica” quanto lo è la creazione dell’uomo da parte di Dio e dunque, se ha ragione Tocqueville, una contro-rivoluzione preventiva per combattere ciò che nell’assolutismo si sarebbe evoluto in giacobinismo: il potere politico senza né riferimenti né argini, lo Stato come fonte del diritto e arbitro della morale, il governo come strumento di persecuzione. Una contro-rivoluzione che a 240 anni di distanza è più attuale che mai, negli stessi Stati Uniti e fuori. Si deve essere dunque grati a don Di Martino per aver fornito questa puntuta e maneggevole arma di buona battaglia.
Marco Respinti
L’8 novembre Hillary Rodham Clinton cercherà di diventare il 45° presidente federale degli Stati Uniti d’America. Moglie di Bill Clinton, 42° presidente dal 1993 al 2001, senatrice del Partito Democratico dal 2001 al 2009, Segretario di Stato dal 2009 al 20013, è un donna potente, ricca e spregiudicata, grande testimonial di aborto e ideologia LGBT. Ma non tutti conoscono le origini inquietanti della sua carriera.
Hillary, un lato oscuro “luciferino”
in Il Timone. Mensile di apologetica,
n. 155, anno XVIII, Milano luglio-agosto 2016, pp. 22-23
Se non si chiamasse Gilbert K. Chesterton (1874-1936) uno che si presentasse con un libro intitolato L’uomo che si mise un cavolo come cappello e altri improbabili racconti (Lindau, Torino, 248 pagg, €21,00) finirebbe subito in coperta a strofinare il ponte. Ma al fuoriclasse inglese è permesso tutto perché nessuno ci ha regalato gialli come L’uomo che fu Giovedì e romanzi come Le avventure di un uomo vivo; il formidabile Padre Brown, investigatore dilettante sempre in missione poliziesca per contro di Dio (da cui scopiazza mezza fiction tivù), e la prima critica all’eugenetica del Novecento; regesti di saggezze come Eretici e Ortodossia; perle degno di Omero come Lepanto e La ballata del cavallo bianco; e ritratti nazionalpopolari di san Tommaso d’Aquino e di san Francesco d’Assisi anti-intellettuali e anti-buonisti. Nessuno come lui ha capito che il capitalismo è un guaio quando ce n’è in giro troppo poco (così poco che ci si gioca pure l’anima); ha stozzato gli strozzini in L’utopia degli usurai; ha scambiato Benito Mussolini per Carlo Magno ne La resurrezione di Roma ma se n’è accorto in tempo; è andato al cuore della questione delle questioni con La Chiesa cattolica; ha bagnato il naso persino a J-Ax con Il bello del brutto (sì, è solo il titolo italiano di The Defendant, ma il concetto è chiaro lo stesso) e nel fare tutto questo ci si è forse guadagnato pure la santità (dal 2014 la diocesi inglese dove lo scrittore visse ha in atto una sorta “di pre-processo” esplorativo).
Quando L’uomo che si mise un cavolo come cappello uscì in inglese nel 1925 s’intitolava Tales of the Long Bow. Quello evocato è il micidiale “arco lungo”, potenza degli eserciti inglesi dal secolo XIII, ma anche l’equipollente del nostro “spararle grosse” (to draw the long bow). Si narrano infatti le mirabolanti gesta di un manipolo di personaggi improbabili, accomunati da comportamenti assurdi e dalla militanza nella Lega dell’Arco Lungo. Non per nulla Chesterton fu uno dei maestri in pectore di J.R.R. Tolkien, altro talento impareggiabile nell’usare i vocaboli a strati (un solo esempio: hobbit, dove si sovrappongo il coniglio rabbit, il romanzo Babbitt di Sinclair Lewis, l’anglosassone holbytla per “scavatore di buchi”).
Gli arcieri stravaganti di Chesterton non sono però dei buffoni, sono cavalieri. Gli ultimi del nostro mondo, come il Don Chisciotte nato dalla penna dell’eroe di Lepanto che nell’immaginazione chestertoniana, pur sottotraccia, non manca mai. Li lega una fratellanza. Proteggere la terra e restituirne la proprietà agli uomini liberi contro i potenti con il pelo sullo stomaco e quelli che hanno perso il gusto delle cose di un tempo. Non perché il passato sia necessariamente migliore dell’oggi, Chesterton non è così banale; ma perché le cose antiche, verificate dal tempo, possano ancora essere coltivate, amate, fatte. C’è qui tutto l’Edmund Burke che definisce la società un patto tra antenati, noi e chi verrà, riecheggiato dallo stesso Chesterton per il quale la tradizione è la “democrazia dei defunti” (lo scrive in un capitolo di Ortodossia che è una manifesto, L’etica del paese delle fate).
Una delle battute più belle de L’uomo che si mise un cavolo come cappello è di uno di questi assurdi eroi, che ricorda il Robin Hood evocato nell’epilogo: «Non mi venite a parlare di uno Stato Mondiale. Non vi avevo detto che preferivo un’Eptarchia?» dove il riferimento è ai sette regni degli aviti tempi anglosassoni. Sono dei rivoluzionari i sodali dell’Arco Lungo, ma della rivoluzione vera, quella che gli anglosassoni hanno in mente da sempre. Non la sovversione delle cose come stanno, ma il suo contrario: come in astronomia, un moto circolare completo che riporti le cose a posto. «Il giorno in cui arriverà la vera rivoluzione, i giornali non ne faranno parola» dice uno di loro. L’amore per l’ordine e per le cose ben fatte, direbbe uno hobbit. Non è un programma politico, ma una dichiarazione di guerra giusta culturale e metapolitica. Le sue armi sono l’estetica e la poetica, la bellezza e il racconto. Gli arcieri tanto strampalati di questo libro sono forse allora soltanto degli uomini finalmente normali. Fanno cose bislacche solo perché è il mondo che, squilibrato, li percepisce fuori luogo. Lo dice Chesterton: «Questi racconti narrano di imprese ritenute impossibili da realizzare, impossibili da credere, e persino (potrebbe sostenere l’annoiato lettore) impossibili da leggere». È il mondo, il mondo intero che sbaglia. Con il suo sorriso pastoso e i suoi 100 e passa chili di peso Chesterton lo dice senza pudore.
Marco Respinti
Versione originale e completa dell’articolo pubblicato con il medesimo titolo
in Libero [Libero quotidiano], anno LI, n. 142, Milano 24-05-2016, p. 24
125 anni fa, il 15 maggio 1891, Papa Leone XII promulgava l’enciclica Rerum novarum. Sbadatamente, sbrigativamente si dice che la dottrina sociale cattolica sia nata lì, ma non è vero. Il magistero sociale è antico quanto l’insegnamento dei Pontefici, ha forniti princìpi di riflessione, criteri di giudizio e direttive di azione da quando la Chiesa Cattolica esiste, e ovviamente lo ha fatto con i modi e gli strumenti tipici di ogni epoca storica (le encicliche, per esempio, sono uno strumento relativamente nuovo, in uso dalla metà del scolo XVIII). Ciò che si apre con la Rerum novarum è infatti la fase “moderna” della Dottrina sociale cattolica, quella che ‒ come appunto recita il titolo ‒ viene provocata dall’insorgere di cose nuove. Le novità sono le ideologie che si sono incarnate nelle ideocrazie e che hanno preso il potere nel secolo delle rivoluzioni, dal 1789 francese al Risorgimento italiano passando per il 1848 europeo. La Chiesa ha già vissuto cataclismi grandi, ma questi ultimi chiedono risposte diverse. Nuovo è il mondo che circonda la Chiesa, non la sua dottrina.
Davanti a Leone XIII ci sono la rivoluzione industriale e la questione operaia, le risposte sbagliate con cui il socialismo tenta l’umanità alla rovina e le provocazioni del liberalismo non meno ateo né meno materialista. Per riproporre le verità immutabili della dottrina tagliate sulle urgenze dell’ora presente, il Pontefice affronta il nodo della proprietà privata e del ruolo dello Stato, offre strumenti per stigmatizzare il clientelismo e l’aggressione alla famiglia, all’educazione e alla religione, ed enuncia con chiarezza gli assi portanti di ogni edificio sociale ben ordinato: la sussidiarietà e la solidarietà, mai l’una senza l’altra. L’innovazione di Leone XIII ‒ un Papa che aveva “preparato la strada” alla Rerum novarum richiamando i cattolici alla filosofia teologica di san Tommaso D’Aquino con l’enciclica Aeterni Patris del 1879 ‒ è l’avere stabilito un vero e proprio canone. Tutti i documenti maggiori del Magistero sociale successivo costruiscono esplicitamente sulla Rerum novarum e, imitandola, affrontano le provocazioni di cose nuove sempre più nuove. L’enciclica Quadragismo anno (1931) di Papa Pio XI (1857-1939), la lettera apostolica Octogesima adveniens (1971) del beato Papa Paolo VI (1897-1978) e l’enciclica Centesimus annus (1991) di Papa san Giovanni Paolo II (1920-2005) ne marcano ‒ lo affermano sin dai titoli ‒ il 40°, l’80° e il 100° anniversario.
Per la Chiesa la dottrina sociale non è dunque un optional, ma ‒ come ha detto Papa san Giovanni XIII (1881-1963) nell’enciclica Mater et magistra (n. 206), pubblicata nel 1971, 70° anniversario della Rerum novarum ‒ «parte integrante della concezione cristiana della vita». Solo che i cattolici se ne scordano e così capita che la Pontificia Accademia delle Scienze Sociali affidi a una rimpatria di residuati del socialismo internazionale il compito di celebrare l’anniversario della Centesimus annus e il suo requiem definitivo per la mortifera illusione marxista.
Assume quindi una valore decisivo il convegno dell’Istituto Acton svoltosi a Roma mercoledì 20 febbraio, Libertà unita alla giustizia: “Rerum Novarum” e le novità del nostro tempo, animato da don Robert A. Sirico, presidente e cofondatore dell’Acton Institute for the Study of Religion and Liberty (Stati Uniti); Wojciech Giertych, O.P., teologo della Casa Pontificia; mons. Dominque Rey, vescovo di Fréjus-Tolone (Francia); mons. Kęstutis Kėvalas, vescovo ausiliare di Kaunas (Lituania); Rocco Pezzimenti, docente di Filosofia politica e di Storia del pensiero politico alla LUMSA di Roma; e Manfred Spieke, docente di Etica sociale cristiana nell’Università di Osnabrück (Germania).
Perché in un mondo, ha detto mons. Rey, il cui “vangelo” sono la contraccezione, l’aborto e l’eutanasia, e in cui la tecnologia ha sostituito l’ideologia, l’insegnamento della Rerum novarum è l’unico che impedisce la mercificazione dell’uomo proponendo una visione sociale imperniata sul diritto naturale, quindi se si vuole “laica” ma per ciò stesso imprescindibile.
Solo il baluardo del diritto naturale pone infatti limiti invalicabili al potere onnipervasivo dello Stato, ha detto il prof. Spieke, rimettendo al centro la libertà della persona e quella nozione di bene comune che i sistemi totalitari, dirigistici e comunque vessatori, soft o hard che siano, negano per principio.

Don Robert A. Sirico, presidente e confondatore dell’Acton Institute for the Study of Religion and Liberty (Michigan) al convegno “Libertà unita alla giustizia: ‘Rerum Novarum’ e le novità del nostro tempo?, Roma, 20 aprile 2016, Centro Congressi Roma Eventi – Fontana di Trevi International Conference. Foto di Kasia Artymiak
Ciò detto, va sottolineato, come ha affermato mons. Kėvalas, che il perno della libertà concreta della persona è la proprietà privata, che dunque va sempre difesa: abbandonarla per inseguire la chimera di un’uguaglianza forzata contraddice, ha spiegato il presule, la dignità umana e provoca un danno pubblico giacché quello alla proprietà privata non è solo un diritto individuale ma anche “sociale”. Il capitale umano si rivela cioè in relazione alla “comunità”, ovvero dentro un ambiente socio-politico. Come ha insegnato Papa san Giovanni Paolo II, cioè, la “socializzazione” della proprietà non è la sua “collettivizzazione” ma l’“umanizzazione”.
Contro ogni forma di spersonalizzazione socialistica, padre Giertych ha ricordato infatti che giustizia ed equità non sono la medesima cosa. Le differenze tra gli uomini esistono, è impossibile cancellarle, è assurdo negarle (lo dice esplicitamente la Rerum novarum), ma ciò non è un male se spinge all’emulazione e al miglioramento perché sviluppa la dinamicità e la responsabilità, consentendo la carità. Sbagliava Karl Marx, ha aggiunto il teologo, indicando nella lotta di classe il motore della storia: la vera benzina del progresso è la moralità. Per questo il prof. Pezzimenti ha potuto concludere che, in quanto post-cristiane, le società moderne stanno abbracciando una cultura del tutto spersonalizzata e sempre più spersonalizzante che è il contrario di quanto auspica e favorisce il Magistero. In questo quadro, ha ammonito don Sirico, il tentativo più pericoloso è quello di ridurre la Chiesa a mero braccio assistenzialistico di uno Stato finalmente pronto a occupare ogni altro spazio. Tornare alla Rerum novarum lo impedirebbe. Per questo non la ricorda nessuno.
Marco Respinti
Prima era palese, dopo il “Supermartedì” è ufficiale. Donald Trump ha lanciato una OPA sul Partito Repubblicano degli Stati Uniti d’America. Ma ascoltando i commenti e la valutazioni della stampa italiana nessuno potrebbe nemmeno sospettarlo; anzi, nessuno saprebbe neanche dire di cosa si tratti.
Passare una notte in bianco a inseguire i fusi orari dei risultati elettorali statunitensi dà vantaggi immensi. Si passa dalla CNN, che finge di essere un canale istituzionale per dare oggettività alla propria chiave di lettura liberal ma che comunque assicura informazione vera in presa diretta, a Fox News, che non finge nemmeno per un attimo di non essere conservatrice e che alle notizie di prima mano aggiunge poker su poker di commenti e analisi di tutto il jet set conservatore e Repubblicano, a RAI News 24, e qui casca l’asino. Tre, quattro, massimo cinque servizi ripetuti per ore e ore; commenti all’osso; aggiornamenti fatti sulle tivù, i siti e i giornali americani; inviati che intervistano i due di picche; e l’impressione netta che nessuna sappia di cosa si stia parlando. Del resto che importa, si tratta solo del Paese più potente del mondo. Gianni Riotta e Giovanna Botteri usano le parole in libertà. Dicono e ripetono “conservatori” per dire Repubblicani, ma mostrano di non avere la minima idea di quando e di come sia lecito, e a che prezzo, farlo; ogni tanto entra in scena il termine “moderato” e ti scappa da ridere pensando a un Ted Cruz o un Marco Rubio tra i “moderati” di casa nostra. Quanto tocca a lei, la Botteri definisce Bernie Sanders un “socialista annacquato” (non si sa se con rammarico) e Rubio “il più Democratico dei Repubblicani”: fortunatamente né l’uno né l’atro possono sentirla. Poi sempre a Sanders dà del liberal per distinguerlo da Hillary Clinton e allora uno si chiede cosa sia la Clinton. E persino a Trump dà del “conservatore”. Un disastro.
Torniamo alla OPA di Trump. Se avesse acceso la televisione notturna italiana, il miliardario newyorkese avrebbe desistito, ma invece sta oltre l’Atlantico e quindi insiste caparbio. Tracciamo una mappa.
Il conservatorismo statunitense e il Partito Repubblicano sono due cose diverse. Nascono diversi e diversi crescono. Per parecchio tempo nemmeno si guardano. Poi qualcosa cambia, qualcosa di grosso, d’importante, e così la domanda e l’offerta s’incontrano. Il conservatorismo necessita di una rappresentanza politica e dentro il Grand Old Party (GOP, l’altro nome del Patito Repubblicano) qualcuno abbisogna di un elettorato. Il connubio si celebra contribuendo a irrobustire l’appena nato movimento conservatore (come distinto dal pensiero conservatore in quanto tale) e a iniziare a renderlo incisivo sul piano concreto. Ma dentro il GOP avviene lo sconvolgimento, perché, di per sé, il GOP non è affatto un partito conservatore. Siamo negli anni 1960. Il nome d’obbligo qui è il senatore Barry M. Goldwater (1909-1998). Lo sconvolgimento prosegue e il tentativo di trovare la giusta quadra al connubio tra il GOP (cioè una sua parte, all’inizio nemmeno maggioritaria) e il movimento conservatore anche, finendo per generare il primo esperimento, un successo. Siamo negli anni 1980, e alla Casa Bianca arriva Ronald Reagan (1911-2004).
A quel punto l’esperimento ottiene conferma sperimentale, più di una, ripetibile, osservabile, descrivibile, e quindi l’ipotesi, a norme di metodo galileiano, diventa teoria scientifica. Senza il movimento conservatore il GOP perde; con i conservatori vince. Tutte le volte che ha vinto o ha perso è andata sempre così. La saldatura tra GOP e movimento conservatore viene dunque scaldandosi o raffreddandosi a seconda che il personale del GOP al comando, o se non altro quello almeno disponibile, sia sensibile al conservatorismo oppure a esso allergico. È la storia degli otto anni della presidenza di George W. Bush Jr.
Il movimento a fisarmonica di avvicinamento e di allontanamento tra GOP e conservatori, movimento che dipende dal personale in determinati frangenti disponibile, prosegue ciclico e un po’ frustrante, ma come tutte le cose che si ripetono lascia il segno, crea un solco, genera persino una tradizione. Nel caso americano di specie la fisarmonica sposta progressivamente il proprio movimento di attrazione e repulsione sempre più a destra, sia impercettibilmente (cioè fisiologicamente) sia per merito di personale politico cosciente. E di conseguenza l’ampiezza del movimento a soffietto si restringe. Alla fine la fisarmonica non suona più, il movimento conservatore ha preso possesso del GOP e l’allontanamento periodico tra i due cessa. Il GOP non è un partito conservatore tout court, ma al suo interno esistono solo conservatori. È la storia del dopo Bush Jr. fra “Tea Party”, vittorie e sconfitte elettorali.
Un partito così però ha problemi seri a relazionarsi al proprio elettorato. Se l’elettorato è quello conservatore (anche perché altrimenti non si vincerebbe), e i candidati sono tutti conservatori (pur di scuole e sfumature diverse), ogni tornata di primarie è allora una guerra fratricida, un massacro.
Il problema si è presentato per la prima volta in tutta la sua rotondità nel 2012. Mai come in quel momento storico il GOP fu rappresentato da conservatori, e persino animato da cattolici. Herman Cain, Michele Bachmann, Rick Santorum, Newt Gingrich, Ron Paul, Rick Perry, Mitt Romney erano tutti conservatori sul piano fiscale, sul piano della politica economica, sul piano della politica estera, sui “princìpi non negoziabili”. Tutti erano sinceramente e pubblicamente religiosi, e Santorum e l’ex presidente della Camera federale Gingrich (per conversione adulta) cattolici, così come cattolico era Paul Ryan, candidato alla vicepresidenza, e pure John Boehner, divenuto presidente della Camera nella medesima tornata elettorale, e da poco sostituito dall’appunto cattolico Ryan. Il GOP, questo GOP, perse le elezioni perché non riuscì a trovare una guida unitaria. Era un problema di crescita.
Oggi però la situazione si ripete identica, e quindi è più grave. Tutti sono buoni conservatori, Jim Gilmore, Mike Huckabee, Carly Fiorina, Rand Paul, Santorum, Jeb Bush, Ben Carson, John Kasich, Chis Christie (che pure dopo il ritiro appoggia Trump), Marco Rubio e Ted Cruz. E ancora non riescono a trovare una sintesi efficace che permetta la vittoria. Un tempo i nemici erano i liberal, diffusissimi anche tra i Repubblicani; oggi che l’opera di bonifica è stata compiuta, i conservatori del GOP si divorano l’un l’altro. Ed è qui che entra in scena Trump.
Trump è un alieno. Viene da altrove. Con questo GOP e con i conservatori non c’entra, ma è astuto. Sa di potere approfittare della situazione e quindi gioca le proprie chance. Uomo di minoranza (ha circa un terzo dei voti delle primarie) e divisivo, sta disfacendo ciò che faticosamente era stato costruito. La notte del “Supermartedì” ha gongolato dicendo che con lui il Partito Repubblicano si sta allargando. Forse è vero, ma non è una buona notizia. L’omogeneità culturale del GOP raggiunta a caro prezzo in anni sta cedendo sotto i suoi colpi. Ieri i nemici dei buoni Repubblicani erano interni, oggi vengono da fuori. Il tentativo di Trump (chissà quanto cosciente) è quello di disfare una forza politica che, riconciliatasi con i custodi dell’autentico spirito della nazione, sta, per la prima volta nella storia americana, tentando la restaurazione, il ritorno al principio e fondamento dell’esperienza storica statunitense, e dunque al suo senso profondo. La sua forza è quella di riuscire a sfruttare malanimi, malesseri e difficoltà reali vendendo a parte dell’elettorato conservatore del GOP un conservatorismo falsificato che risponde alla rivoluzione di Barack Obama con una rivoluzione di segno contrario, populista. La debolezza dei suoi avversari è quella di non essere ancora usciti dalla fase rissosa della crescita e di non riuscire ancora a rendersi fino in fondo contro che il grande referendum sull’OPA Trump che l’auspicabile riunificazione tra le anime conservatrice del GOP deve indire ora è la scelta tra la rivoluzione e la contro-rivoluzione.
Il GOP deve portare a casa la pelle in fretta, e per domani immaginare a come blindare il partito. Per esempio indicendo “primarie conservatrici interne” per selezionare il condottiero conservatore capace di unire tutti i reggimenti e sfidare gli hyksos che vengono da fuori. Non è un’utopia. Esisteva la Christian Coalition che questo mestiere iniziò a farlo, esistono oggi realtà come la Conservative Political Action Conference e il Values Voter Summit. Nessuno lì potrà tentare alcuna scalata perché il movimento sorveglia e non dorme mai. I conservatori del GOP debbono insistere, perfezionare, rigorizzare. La posta in gioco è inestimabilmente più importante degli sberleffi di Trump.
Marco Respinti
Fidel Castro è come Sergio Marchionne, persino come Silvio Berlusconi. Loro hanno lanciato la moda della politica (industriale o politicante) fatta con il maglioncino, Fidel quella del riposo del rivoluzionario in tuta da ginnastica. La differenza tra i due capitalisti italiani e il comunista cubano però c’è, e salta all’occhio. I due capitalisti indossano panni anonimi, il comunista preferisce invece il capo firmato. Adidas. Del resto anche “Che” Guevara amava le griffe, e ai bei tempi della motocicletta che hanno stregato Gianni Minà e Robert Redford vestiva rigorosamente solo giubbotti di marca, per l’esattezza Belstaff.
Nulla di male, per carità. Solo che noi eravamo rimasti alle masse diseredate e alla teologia della liberazione, all’opzione preferenziale per i poveri e all’annullamento del debito estero, al no logo e ai norteamericanos sfruttatori, alla lotta di classe e sì, insomma, al sano, vecchio comunismo. Alla revolución doc della proprietà privata che è un furto, il capitalismo solo di rapina, la concorrenza una malattia venerea, le multinazionali una pestilenza e la colpa sempre e comunque degli yankee. Eravamo fermi al kaki barricadero di Fidel e al look trasandato del “Che”, al sigaro mescolato al sudore e alle gavette a pugno chiuso sulla sierra, a Guantanamera stonata e Hasta la victoria siempre, alla doccia una tantum e il bidè pure, ai capelli che «ospitano le pulci» (come cantava Hair, la title-track dell’omonimo musical/film già bibbia dei figli dei fiori) e le barbacce anche. Roba bella e garantita da “Mi piace la puzza del socialismo al mattino”, la collettivizzazione e il Macondo, la liberazione e i centri sociali, «La C.I.A. ci spia e non vuole più andare via», L’amore ai tempi del colera e persino l’orgasmo estremo di “La Cina è vicina”. E invece no, era una patacca, un marchio contraffatto. La rivoluzione non c’è mai stata, il sogno era un incubo e anch’io non mi sento tanto bene. Arrendiamoci all’evidenza. Fidel Castro è solo un travestito.
Marco Respinti
Versione completa e originale
dell’articolo pubblicato con il medesimo titolo
in l’intraprendente. Giornale d’opinione dal Nord,
Milano 21-09-2015
Domenica il Santo Padre Francesco celebrerà la santa Messa a L’Avana, capitale di Cuba, i Lo sovrasterà un’immagine enorme di Enesto Guevara de la Serna, detto “el Che” (1928-1967). I giovani sano bene chi è Papa Francesco, ma non hanno la minima idea di chi sia “Che” Guevara. Pensano, come Checco Zalone, che sia il brand di una maglietta. Siccome le televisioni di tutto il mondo mostreranno il Santo Padre in compagnia di Guevara, è opportuno un ritratto, perché sennò molti potrebbero pensare che i due staranno in tivù assieme solo perché di comuni natali argentini.
Francesco infatti di professione fa il Papa, mentre il “Che” faceva il terrorista. Comunista. Fu lo stesso “Che” a dirlo, definendosi «vivo e assetato di sangue» e poi, nel Messaggio alla Tricontinentale del 1967 (la Conferenza di solidarietà dei popoli dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina che si tenne a L’Avana), cantando «l’odio come fattore di lotta ‒ l’odio intransigente contro il nemico ‒ che spinge oltre i limiti naturali dell’essere umano e lo trasforma in una reale, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere».
Trasferitosi a Cuba, nel 1959 Guevara scese dalla sierra con Fidel Castro per rovesciare il governo filostatunitense di Fulgencio Batista (1901-1873), corrotto ma averne (chi non ci crede riguardi il bellissimo Havana, diretto nel 1990 da Sidney Pollack e interpretato da un Robert Redford pur ammaliato dal mito guevarista). I due fecero la revolución dei barbudos, comunista, ma pare che i migliori successi militari di Guevara siano stati solo frutto di patteggiamento.
Dopo il “trionfo”, il “Che” diresse la prigione di La Cabaña, La chiamavano tutti la “galera de la muerte”, comunista, perché le esecuzioni erano sommarie e i processi una farsa. Il tribunale presieduto da Guevara era preciso a quello di Gotham City occupata da Bane e uguale a quello di George Jacques Danton (1759-1794) nella Francia terroristica del 1793, ben descritto dall’avvocato francese Jean Marc Varaut (1933-2005), specialista dei grandi processi e dei grandi tribunali della storia, nel suo impareggiabile La terreur judiciaire. La Révolution contre les droits de l’homme (Perrin, Parigi 1993). Tutti gli accusati dal tribunale che per definizione detiene la verità poiché è rivoluzionario sono degli assassini (e sennò perché li si accuserebbe?) e quindi debbono morire. Anche perché, diceva il “Che”, «nel dubbio fucilare». Pare che in meno di sei mesi siano stati uccise 400 persone.
Fu il “Che” a spingere Cuba nell’abbraccio mortale con la burocratica e fredda Unione Sovietica, altro che rivoluzionario romantico dal cuore buono, il sigaro pure e la chioma folta al vento.
La nuova iniziativa del “Che” fu poi la creazione della polizia politica, comunista, quello strumento cesellato a puntino che continua a funzionare a meraviglia anche oggi che Barack Obama ha deciso che i comunisti cubani, sempre al potere da soli, non sono più cattivi. Grazie all’alacre attività della polizia guevariana, comunista, l’Isola è diventata un Gulag tropicale, internando per decenni nei campi di concentramento dissidenti politici, poeti che avevano il solo torto di scrivere versi non marxisti (Armando Valladares), cattolici, protestanti, testimoni di Geova, omosessuali, malati di Aids, “asociali” vari e prostitute non cooperanti (perché le altre, di qualsiasi sesso fossero e impegnate con qualunque dei sessi, sono invece sempre state una grande fonte di reddito e d’informazioni, come scrissi anni fa su La Padania raccogliendo le memorie di un testimone ex comunista che sapeva di certi viaggi organizzati anche dall’Italia ). Dal carcere alla tomba è poi per molti sempre stata solo una questione di tempo.
Quando dal 1959 e il 1961 fu prima direttore della Banca Nazionale e poi ministro dell’Industria, Guevara precipitò il Paese nell’abisso. Non era capace. E la sua statalizzazione comunista mandò in rovina anche quel poco che di Cuba restava. Si dovette razionare il cibo. La riforma agraria strappò le terre ai proprietari e le diede ai membri dell’apparato comunista. Fu solo l’antipasto del grande disastro cubano che ha poi gettato l’Isola nella miseria più nera, miseria in cui l’Isola è rimasta per decenni, anzi sempre, anzi ancora oggi, motivo per cui il regime ha bisogno degli aiuti esterni come dell’aria per respirare.
Fu a quel punto che il suo compagno Fidel Castro decise per lui una vacanza, all’estero. Guevara pensò di approfittarne per esportare la rivoluzione, comunista, ma non fu capace nemmeno di questo. Provò in Nicaragua, Repubblica Dominicana, Panama, Haiti, Congo e ovunque fu una disfatta. Provò allora in Bolivia, ma lì non lo appoggiava nessuno, nemmeno i comunisti locali. I militari boliviani lo presero il 9 ottobre 1967 e lo ammazzarono. Sul tema c’è un bel libro tutto da leggere, quello di Alvaro Vargas Llosa intitolato Il mito Che Guevara e il futuro della libertà (trad. it., Lindau, Torino 2007).
Ora, domenica il Santo Padre Francesco celebrerà la santa Messa a L’Avana, capitale di Cuba, in Plaza de la Revolución. Lo sovrasterà un’immagine enorme di Enesto Guevara de la Serna, detto “el Che”. Fa bene, il Santo Padre. Missione e vocazione unica della Chiesa Cattolica è quella di bere dalla spugna intrisa di aceto fissata su una canna, di annunciare Cristo anche nei bassifondi, nella melma, tra i ladri, le puttane, i comunisti e gli assassini.
Marco Respinti
Versione completa e originale
dell’articolo pubblicato con il titolo
Il Papa sotto il ritratto del Che non si ouò vedere
in l’intraprendente. Giornale d’opinione dal Nord,
Milano 19-09-2015
I Gay Pride vilipendono spesso l’abito di sacerdoti e suore, ma sabato 9 maggio, a Cuba, all’VII Giornata contro la omofobia e la transfobia, il prete c’era davvero: Roger LaRade, un ex gesuita omosessuale che, con diversi altri, non perde occasione per usurpare il titolo di “cattolico”.
Reginetta del ballo è stata ovviamente Mariela Castro Espín, nipote del Líder máximo, Fidel, e figlia del fratello di questi, Raúl, l’attuale capo indiscusso dell’Isola; lo stesso che il giorno dopo la pagliacciata, domenica 10, ha incontrato Papa Francesco in Vaticano. Tutto è iniziato la sera di venerdì 8 con un gran gala contro l’omofobia ‒ nel Teatro Karl Marx de L’Avana ‒ e con l’assegnazione (alla memoria) del primo premio istituito dal Centro Nacional de Educación Sexual de Cuba, il “braccio armato” della rampolla Castro, a Vilma Espín Guillois (1930-2007), ingegnere chimico, femminista, rivoluzionaria, membro del Comitato centrale dell’Ufficio politico del Partico comunista cubano dal 1980 al 1991, moglie di Raúl e madre di Mariela. Poi sabato, sfidando la legislazione cubana che (nonostante le chiare aperture di papà Raúl) vieta ancora le “nozze” gay, Mariela e soci (in tutto un migliaio di persone) hanno preparato il set sul quale una ventina di coppie omosessuali si è “sposata” con “rito simbolico”.
Gettonato officiante della Wedding Cerimonies (un “tutto compreso” per ogni gusto e sensibilità), il citato LaRade si autodefinisce «ex sacerdote gesuita che attualmente esercita privatamente come analista jungiano» e si vanta di saper celebrare nozze con rito cattolico o «spirituale o non-confessionale», oltre che di «amare la lettura, le passeggiate, la bicicletta, i film e lo studio della chitarra». I suoi ricordi del seminario sono però un po’ diversi. All’epoca, infatti, «condivideva con i compagni di studi una vita contemplativa fatta di preghiera, Scritture e filosofia», e, nel tempo libero, «gite nei bar e nei club gay di San Francisco, o uscite per vedere film a tema gay come La cage aux folles. Alcuni dei suoi compagni di classe portavano anche leziosi soprannomi femminili».
Oggi è arcivescovo e primate di un gruppuscolo attivo in Canada con il nome di L’Église Catholique Eucharistique/The Eucharistic Catholic Church, votato alla «piena inclusione delle persone LGBTQ, che sono doni di Dio, nella vita della Chiesa, la quale comprende pure l’ordinazione sacerdotale e il sacramento del matrimonio». Tutto ebbe inizio negli anni 1940 quando, dopo voci e sospetti, il vescovo della Chiesa ortodossa greca John Augustine Kazantks (morto nel 1957), si dichiarò omossessuale, ruppe con i confratelli ed emigrò negli Stati Uniti. Il nucleo originario di quella che poi sarà l’ECC, orgogliosa prima Chiesa gay, nacque ad Atlanta, il 1° luglio 1946, allorché Kazantks ordinò sacerdote George Augustine Hyde (1923-2010), ex seminarista cattolico. Il loro primo luogo di culto fu una stanza in affitto al Winecoff Hotel di cui pagavano pigione al Cotton Blossom Room, il gay bar dell’albergo.
Il seguito è un intreccio complesso di nuove Chiese e di molti scismi, tutti orbitanti in quel piccolo ma agitato mondo dove s’intrecciano le sigle e le pulsioni dell’ortodossia autocefala di “rito occidentale” statunitense (avente il dichiarato scopo di azzerare l’identità etnico-culturale dei fedeli ortodossi oriundi orientali negli Stati Uniti onde rigenerarli in una nuova ortodossia esclusivamente nordamericana), di un certo “cattolicesimo americano” eterodosso e “nazionalista”, del “vetero-cattolicesimo” americano (la branca locale dello scisma nato da chi tra 1869 e 1871 rifiutò il dogma dell’infallibilità pontificia, promulgato durante il Concilio Ecumenico Vaticano I), ma soprattutto della voglia di rifondare ereticamente il cattolicesimo in una “teologia LGBT”. O, come dicono spesso, LGBTQ, cioè lesbiche, gay, bisessuali, transessuali e queer, cioè “bizzarri”, o questioning, quelli che ancora non han deciso di che sesso essere; oppure ancora ‒ così per esempio preferiscono a Cuba ‒ LGBTI, dove l’ultima lettera sta per “intrasessuali”, coloro che sono affetti da modificazioni patologiche del normale processo fisiologico di sviluppo degli apparati sessuali che però in questa logica surreale diventano l’ennesima possibilità di “scegliersi il sesso”.
Come che sia, alla fine di detto intreccio emerge, distinta dalla ECC originaria attiva negli stati Uniti, L’Église Catholique Eucharistique/The Eucharistic Catholic Church attiva in Canada con due parrocchie nell’Ontario, sette in Camerun e una missione a Güines, isola di Cuba. Arcivescovo e primate dal 2005 ne è appunto LaRade, il quale, dopo l’ordinazione tra i gesuiti, divenne cappellano dell’Università di Regina (Saskatchewan canadese), nel 1990 si è innamorato di un uomo, nel medesimo anno ha gettato alle ortiche l’abito sacerdotale, poi si è immerso nello studio di Carl Gustav Jung tanto da farne un mestiere, dopo 12 anni di convivenza ha “sposato” con rito civile il suo amato e alla fine è tornato prete in ambienti vetero-cattolici.
Carnevalate di chi si arrampica sugli specchi per cercare di definire da sé un cattolicesimo alternativo all’unica Chiesa Cattolica, certo; di ecclesiastici LGBT-friendly dalle carriere pirotecniche esiste del resto una enciclopedia intera. Ma c’è un punto che inquieta. Questo piccolo mondo sin troppo attivo rivendica a gran voce la piena successione apostolica delle proprie ordinazioni. Una pretesa tutta da verificare caso per caso, ma se fosse vera i suoi preti e i suoi vescovi sarebbero anche per la Chiesa Cattolica canonicamente validi benché illeciti. E dunque che fare delle benedizioni e dei sacramenti amministrati da quel clero illecito ma valido? Peraltro Roger LaRade è al di sopra di ogni sospetto: esercita illecitamente l’autorità episcopale nell’ECC, ma la sua ordinazione sacerdotale nella Chiesa Cattolica fu valida.
Marco Respinti
A metà Ottocento, Karl Marx (Karl Heinrich Marx, 1818-1883) prescrisse ai pensatori dell’“età progressista” la consegna rivoluzionaria per eccellenza: smettere di contemplare il creato, come fatto – a suo dire pedissequamente – dai pensatori dell’“età conservatrice”, per impegnarsi finalmente a trasformare radicalmente il mondo. Obbedendogli pure ante litteram, i filosofi moderni si sono infatti distinti da quelli classici (antichi e medioevali) per la smania di creare sistemi di pensiero autocratici che riducessero tutto (come poi sbotterà Arthur Schopenhauer, 1788-1860) a volontà e rappresentazioni proprie. Nel pensiero della Modernità, il mondo ha così smesso di possedere oggettività, finendo per assomigliare a una variante razionalista, laica e occidentale di quel volontarismo assoluto che è essenziale alla teologia islamica dove Dio è in sostanza un demiurgo permanente e un bel po’ gnostico se non persino relativista che in ogni momento e in ogni luogo può mutare a piacimento la natura intima del reale.
Per carità, tutto è avvenuto per gradi, attraverso una miriade di sfumature e a velocità alterne; ma il distacco dal filosofo classico (che in fin dei conti altro non è se non un segugio di razza a metà fra Indiana Jones e il commissario Maigret intento a interrogare le cose in cerca della verità) non potrebbe essere più netto. E nella tortuosa gestazione del moderno, seguita a quello che lo storico neerlandese Johan Huizinga (1872-1945) ha chiamato “autunno del Medioevo” per giungere al mondo in frantumi evocato da Aleksandr Solženicyn (Aleksandr Isaevič Solženicyn, 1918-2008), e affrescato a tinte forti da maestri del pensiero occidentale che vanno da Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995) a Richard M. Weaver (Richard Malcolm Weaver, Jr., 1910-1963), la tappa fondamentale è stata la stagione dell’Illuminismo.
Illuminismo: già il nome è problematico. Analogamente a Rinascimento e Risorgimento si annuncia polemico. Tutto ciò che è venuto prima – sentenzia – è morto e tetro, tant’è che viene chiamato “antichità”, “evo medio” (una parentesi), “regime antico”. Ma c’è di più. L’impossibilità di ridurlo a unità.
La querelle sull’Illuminismo data dagl’illuministi stessi. Immanuel Kant (1724-1804) lo definì la fuoriuscita dalla stato di minorità dell’uomo diventato finalmente adulto, emancipato e liberto. Ma nemmeno questo basta. A malapena è sufficiente a rappresentare la Francia, dove l’Illuminismo fu il tritacarne indispensabile a fare tabula rasa del filosofare indagatore e conservativo precedente. Senza di esso, i pensieri sistemici delle epoche successive (al centro dei quali il filosofo si tramuta in deus ex machina di nuovi universi autoreferenziali) non sarebbero sorti. L’Illuminismo francese fu insomma più un metodo di critica radicale dell’esistente che un pensiero originale, un acido per sciogliere più che un mattone per costruire novità.
Ma si può dire lo stesso dell’Aufklärung tedesco, in cui (per quanto contraddittorio possa sembrare) già erano qua e là presenti i semi della reazione (antilluminista) romantica? Si può dire lo stesso di quel coacervo di tendenze che viene definito “Illuminismo scozzese”, germinato gomito a gomito alla filosofia (antilluminista) del Common Sense e trasportato pari pari nelle colonie britanniche (conservatrici) oltre l’Atlantico? Si può dire lo stesso del cosiddetto “Illuminismo lombardo”, arduo da separare dalla potenza reazionaria per eccellenza di allora, la Corona asburgica?
No, non si può. E cercare di farlo è solo l’ennesimo, miope e pervicace esempio di riduzionismo moderno posto al servizio del nuovo “sapere per il potere” (cioè l’ideologia), che, incapace di pensare genuinamente la totalità, non sa far altro che generalizzare indebitamente le esperienze prendendo lucciole per lanterne, anzi per lumi.
Lo statunitense Peter J. Stanlis (Peter James Stanlis, 1910-2011), il massimo studioso novecentesco del padre del conservatorismo, Edmund Burke (1729-1797), canzonava quei critici che sono abituati a definire “illuministi” tutti i pensatori che, evidentemente senza sceglierlo, si sono trovati a nascere nel secolo XVIII. Pensiamo che persino l’antimoderno Giambattista Vico (1668-1744) è stato spesso definito “protoilluminista”, e “proto” solo perché nato prima del Settecento. Nessuna meraviglia, allora, che possa spuntare a un certo punto persino un Voltaire cattolico (Lindau, Torino 2013), come magistralmente illustra Antonio Gurrado nel suo gustosissimo volume.
Bene inteso, cattolico Voltaire non lo è mai stato neanche di striscio. Basta rileggere la sua famosa geremiade sul “se Dio esiste perché c’è il male”, confezionata in forma di poema-riflessione dopo il terremoto di Lisbona del 1755, per rendersi conto che il nostro il catechismo lo bigiava. Ma la dotta quanto provocatoria analisi di Gurrado non sbaglia.
Lo conferma, da tempo, un testimone al di sopra di ogni sospetto: Erik von Kuehnelt-Leddhin (1909-1999), uno degli spirito più raffinati del secolo XX, austriaco accasatosi fra i conservatori americani, pago di descriversi monarchico filoasburgico, liberale e reazionario assieme. Uno dei suoi testi brevi più significativi (1992) distingue fra ben quattro diversi “liberalismi”, cioè forme antitetiche d’Illuminismo. Nel seno di uno di quelli conservatori, d’imprinting cristiano, annovera in modo guascone (con Burke e Adam Smith [1723-1790]) pure Voltaire, «un uomo […] completamente frainteso dai suoi contemporanei e dalle generazioni successive». Citando il poeta inglese Alfred Noyes (1880-1958), un convertito al cattolicesimo, biografo di Voltaire, ricorda che l’illuminista francese «fece costruire una chiesa a Fernet, andava a Messa ogni domenica ed era tutto fuorché un democratico».
Contraddizioni? Più che altro un reale più complesso di quello cui ci abituano gli schematismi, anche quando sensati. Per questo servono sempre mappe ben redatte tipo The Roads to Modernity: The British, French and American Enlightenment (Vintage, New York 2005) della storica statunitense Gertrude Himmelfarb (moglie del “padrino” dei neocon, Irving Kristol [1920-2009], e quindi madre del neo-neocon William Kristol). Il suo libro (che parrebbe riecheggiare persino in Papa Benedetto XVI) insegna a separare l’Illuminismo amico della religione e della libertà politica dall’Illuminismo rivoluzionario. Molte lingue, insomma, e non tutte biforcute. Persino in bocca a un mangiapreti del calibro di François-Marie Arouet detto Voltaire (1694-1778).
Versione originale e completa dell’articolo pubblicato con il titolo
Le mille facce dell’illuminismo: liberale e rivoluzionario,
in Libero [Libero quotidiano], anno XLVIII, n. 169, 17-07-2013, p. 32
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