Celebrare in Italia l’eredità politica di Ronald Reagan significa imbattersi costantemente nella domanda “come si fa a impiantare da noi un conservatorismo all’americana?”. E in questi giorni in cui Silvio Berlusconi sembra avere scoperto che negli Stati Uniti esiste un Partito Repubblicano il quesito ronza nelle orecchie come una canzonetta. La risposta peraltro c’è; la si dice a malincuore, ma c’è. Importare da noi quel modello è impossibile perché tra Italia e Stati Uniti (o comunque mondo anglosassone) ci sono troppe differenze culturali e istituzionali. Al massimo ci si può sforzare d’imitarli un po’, gli americani. E ciò detto, si ripiomba subito nell’italico costume delle occasioni perdute e del grande futuro dietro le spalle. Perché è vero, sacrosanto: tra Italia e mondo anglosassone ci sono differenze forti, enormi. Ma il punto è: quali? In un Paese, il nostro, in cui tutti sono Ct della Nazionale, ognuno sa fare il suo bell’elenchino. Eppure la differenza è una sola. La Rivoluzione Francese. Noi, l’Italia, la Rivoluzione Francese l’abbiamo avuta, patita, subita, sopportata, e ci ha maledettamente azzoppato. Il mondo anglosassone invece no. La Rivoluzione Francese non l’ha avuta; e appena ne ha fiutata all’orizzonte il lezzo, l’ha combattuta fino a sconfiggerla. Il primo critico organico della Rivoluzione Francese (e primo significa quello da cui tutti i successivi, di qualsiasi nazionalità fossero, hanno imparato) era un anglosassone: in realtà un irlandese, ma anglicizzato nel migliore dei sensi possibili senza mai rinunciare alla propria identità originaria, attivo per 29 anni nel parlamento di Westminster. Edmund Burke (1729-1797), che appunto è il fondatore riconosciuto di quello spirito che chiamiamo conservatorismo anglosassone. È stato Burke a insegnare al mondo cos’è la Rivoluzione Francese e contestualmente agli anglofoni cos’è il conservatorismo. Con Burke la critica serrata alla Rivoluzione Francese genera lo spirito conservatore e lo spirito conservatore è anzitutto opposizione alle ideologie e ai giacobinismi.
Da noi, invece, i critici della Rivoluzione Francese sono considerati minuscole note a più di pagina della “Grande Storia”, degli eterni perdenti, della macchiette. Insomma, gente da scordare.
La differenza è questa, e non è conciliabile. Per rendersene conto è bene riferirsi al libro di Beniamino di Martino, Rivoluzione del 1789. La cerniera della modernità politica e sociale (Facco, Treviglio 2015), un libro prezioso. I più rubricano argomenti come questo alla voce “parrucconismo”; la pubblica (d)istruzione delle scuole ci passa sopra come acqua fresca” e la bibliografia italiana sul tema manca clamorosamente di opere di agile consultazione e facile inquadramento critico. Tanto ormai, si dice, non serve più; anzi, per il conformismo imperante è controproducente rivangare la storia, riaprire vecchie questioni, tornare a interrogarsi su certi fatti. Farlo potrebbe infatti spingere qualcuno a porsi domande serie e magari a trovare anche, seria, qualche risposta.
Perché la matrice della palude in cui sguazziamo è proprio il mito incapacitante della Rivoluzione Francese: quella che ha creato lo statalismo contemporaneo, la leva obbligatoria, la tassazione inaudita, la scuola statale, la religione civile della “cosa pubblica”, il cittadino-servo, le ideologie e l’esperimento-madre (riuscito) dell’inveramento delle ideologie nelle ideocrazie, il totalitarismo, la guerra come levatrice della storia, le rappresaglie sulla società civile, il genocidio, il laicismo, l’uomo a una sola dimensione e il materialismo greve.
La nostra storia è zavorrata da questa eredità a dir poco ingombrante, mentre il mondo anglosassone no. Ovvio che poi là nascono i Ronald Reagan e le Margaret Thatcher. L’origine di quella cultura politica e istituzionale che per il mondo anglosassone chiamiamo conservatorismo è infatti l’esatto contrario dello spirito della Rivoluzione Francese, la sua negazione. «Lo Stato, la sua edificazione, il suo perfezionamento», scrive Di Martino, «è non solo lo strumento prescelto dai teorici illuministi e dal giacobinismo politico, ma il vero obiettivo di quella grande concezione, al tempo stesso culturale e politica, che si definirebbe “modernità”». Al centro, origine, fulcro e meta, c’è lo Stato, che con «la sua carica eversiva della società naturale, con la sua forza impositiva, con la sua gelosia nei confronti della religiosità, con la sua lotta alla coscienza personale, la politica assume il compito di trasformare la natura delle cose e di cambiare l’esistente. Bene dice, quindi, Bertrand de Jouvenel quando qualifica “lo Stato come rivoluzione permanente”».
Ora, Beniamino Di Martino è un sacerdote cattolico di Napoli; uno di quelli buoni e veri, di quelli che non si trastullano nell’illusione di stravolgere la dottrina alla mattina e il Catechismo alla sera. In quanto sacerdote cattolico così, è un ammiratore del mondo anglosassone “premoderno” e un avversario della Modernità ideologica-ideocratica forgiata dalla Rivoluzione Francese. Sa trarre giovamento tanto dai libertarian alla Murray Rothbard quanto dai tradizionalisti alla Russell Kirk. «È con la Rivoluzione», osserva con lucidità invidiabile don Di Martino, «che il processo di statalizzazione della società diviene irrevocabile; è con la Rivoluzione che il processo di accentramento politico acquisisce la sua vittoria decisiva». Eccolo qui bell’e pronto il programma del “Partito Repubblicano all’italiana”. Solo che per attuarlo bisogna fare fatica, applicarsi, studiare, scavare a fondo, investire su tempi medio-lunghi: insomma, il contrario di quello che la nostra politica è disposta a fare.
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