Porto Rico è un microcosmo indispensabile per comprendere lo scenario politico statunitense.
L’isola è in preda a una crisi economica perdurante e per questo parecchi dei suoi abitanti l’abbandonano in cerca di fortuna sul Continente, ovvero in quegli Stati Uniti che ne sono indubbiamente il fratello maggiore, ma con cui ancora non c’è rapporto alla pari. Porto Rico, infatti, non è uno Stato dell’Unione nordamericana, ma una sua dipendenza. È così dalla guerra ispano-americana del 1898, al termine della quale l’isola passò dalla Spagna agli Stati Uniti. Da allora l’attraversa un inestinguibile spirito indipendentista che però si scontra con un non meno diffuso movimento di opinione favorevole a un’unione sempre più stretta con gli USA in nome di vantaggi economici oggettivi. A Porto Rico si dice infatti che tra la gente i partiti sono sempre e solo tre, tutti inesorabilmente trasversali agli elettori sia Democratici sia Repubblicani: il partito di chi che mira a fare dell’isola il 51° Stato dell’Unione americana (nel 2012 un referendum ha avviato la macchina legislativa), quello di coloro cui va bene la soluzione intermedia attuale e quello degl’indipendentisti.
In periodi di elezioni presidenziali tutto questo acquista enorme significato simbolico e materiale. Simbolico perché Porto Rico assomma tutte le contraddizioni ma pure tutte le potenzialità di una società, come quella statunitense, sempre più “ispanica” in un tempo in cui un partito come quello Repubblicano non può certamente permettersi il lusso di diventare (o di essere percepito) come il “partito dei bianchi”. Materiale perché il peso elettorale dell’isola non è ininfluente.
I suoi abitanti, infatti, che pure sono cittadini statunitensi dal 1917, non hanno diritto a votare per il presidente né per il Congresso federali, ma alle primarie sì. Lo stesso accade in tutte le altre dipendenze statunitensi (Guam, Isole Vergini americane, Marianne Settentrionali e Samoa americane), ma la differenza tra quelle e Porto Rico è che la popolazione di quest’ultima conta 3,7 milioni di persone, cioè praticamente quanto l’Oklahoma, eleggendo alla Convenzione nazionale Repubblicana più delegati (23) di quanti ne elegga il Vermont (16) e più delegati (60) a quella Democratica di quanti ne eleggano quattro degli Stati che hanno votato nel “Supermartedì” (Alabama 53, Arakansas 32, Oklahoma 38 e Vermont 16).
Ebbene, il 6 marzo, giorno di primarie Repubblicane (i Democratici le svolgeranno il 5 giugno), i 23 delegati di Porto Rico sono stati vinti in blocco dall’unico candidato del Grand Old Party (GOP, l’altro nome dei Repubblicani) che non abbia trascurato la cura di quel territorio tanto emblematico: Marco Rubio, tra l’altro favorevole è fare dell’isola un nuovo Stato dell’Unione nordamericana (laddove Donald Trump e John Kasich sono a favore dell’autodeterminazione, mentre Cruz non si pronuncia). La legge elettorale di Porto Rico assegna i delegati con criterio proporzionale, ma chi supera il 50% dei consensi li vince tutti e Rubio si è imposto con più del 75% dei suffragi diventando così il primo candidato Repubblicano nelle primarie del 2016 ad avere oltrepassato (e di gran lunga) la metà più uno dei voti.
Alla vigilia del voto, un osservatorio attento come il mensile The Atlantic ‒ informato, centrista, equidistante e quindi inevitabilmente liberal ‒ ha impostato la questione alla perfezione: «A seconda che suggelli l’inevitabilità di Trump o dia una fiammata di speranza a Rubio o a Cruz, Porto Rico contribuirà a decidere se le ultime fasi delle primarie Repubblicane saranno un’incoronazione o una scazzottata». La prima ovviamente per Trump se i suoi avversari non si decidono a scatenare la seconda.
Il conto dei delegati alla Convenzione nazionale Repubblicana di luglio sinora assegnati racconta infatti ancora la storia di una partita aperta: Trump ne ha 384, Cruz 300, Rubio 151 e Kasich 37. Dei candidati ritiratisi resta da vedere che fine faranno gli 8 di Ben Carson, i 4 di Jeb Bush e l’unico delegato a testa guadagnato da Rand Paul (che ha già detto non darà indicazioni di voto ai suoi), Mike Huckabee (che dovrebbe convergere su Trump) e Carly Fiorina. La sola somma tra i delegati di Cruz e di Rubio basterebbe, ora, a battere Trump, ma pare oramai scontato che Rubio, il candidato tra i due più debole, non si ritirerà fino al 15 marzo, giorno di voto nel suo Stato, la Florida, dove mira a fare bene. I sondaggi danno sempre in testa Trump e a questo punto ci si potrebbe chiedere quanto valgono veramente. Ma, sia come sia, se Rubio perderà la Florida, inevitabilmente si ritirerà e però a quel punto potrebbe essere davvero tardi se i 99 delegati che la Florida assegna con il criterio “chi vince prende tutto” andassero a Trump. Se invece in Florida Rubio vincesse, probabilmente non si ritirerebbe, ma nel conto totale dei delegati neppure riuscirebbe a raggiungere Trump (e forse nemmeno Cruz). C’è una terza possibilità, ma sarebbe eroica. Ovvero che Rubio vincesse la Florida dimostrando di essere sul serio qualcuno e poi dimostrasse di essere davvero un grande ritirandosi e convergendo su Cruz in nome del tandem che può sconfiggere Trump. In politica non accadono mai cose così, ma Rubio è un tipo speciale, più fatto di grandi testimonianze che di calcoli micragnosi.
Nel mezzo e durante ci sono altre primarie. Prima l’8 marzo in Hawaii, Idaho, Michigan, Isole Vergini e Distretto di Columbia che assegnano in tutto 138 candidati con criterio proporzionale, Guam che assegna 9 delegati non vincolati ad alcun candidato i quali decideranno chi sostenere alla Convenzione nazionale e 40 delegati che il Mississippi assegna con il criterio “chi vince prende tutto”. Poi lo stesso 15 marzo in North Carolina che assegna 72 delegati con sistema proporzionale e in Illinois, Missouri, Isole Marianne Settentrionali e Ohio che assegnano 196 delegati con il criterio “chi vince prende tutto”. Davvero Cruz e Rubio assieme potrebbero battere il miliardario newyorkese.
Si dice che al conto mancano ancora i cosiddetti “superdelegati”, ma questo ci porta a un ragionamento importante proprio su di essi.
I “superdelegati” sono un’invenzione del Partito Democratico per controllare l’andamento delle Convenzioni nazionali e pilotare il voto popolare. Sono personalità che hanno diritto a un voto indipendente a testa in ragione del proprio status nel partito e in questo modo incarnano il volere dell’establishment del partito stesso al di là dei candidati e dell’opinione degli elettori. Sono tutti i governatori e i parlamentari federali Democratici in carica così come gli ex presidenti e gli ex vicepresidenti Democratici, i presidenti del partito di ogni singolo Stato e altri maggiorenti scelti nel corso delle primarie. In totale quest’anno i “superdelegati” non eletti nelle primarie sono 712 sui 4763 totali della Convenzione Democratica nazionale e di loro già i due terzi, esattamente 480, si sono espressi per l’uno o per l’altro candidato. Per ottenere la nomination Democratica servono 2382 delegati totali. Hillary Clinton ne ha ora 1130, dei quali 458 sono i “superdelegati”; Sanders ne ha 699 totali, di cui 22 i “super”. Ma Sanders non ha ancora smesso di vincere (da ultimo nel Maine il 6 marzo con più del 64% dei consensi). A questo punto i “superdelegati” saranno decisivi. Se infatti i 458 già a favore della Clinton fossero già tutti a favore di Sanders, il candidato socialista avrebbe oggi un totale di 1157 delegati e la Clinton (immaginando che nessun “superdelegato” avesse optato per lei) solo 672. Essendosi espressi con largo anticipo, i “super” condizionano la psicologia dell’elettorato ma anche i finanziatori della campagne elettorali.
Il peso dell’apparto di partito a favore della Clinton è insomma del tutto evidente. Quello stesso peso si palesò del resto a metà marzo 2008, quando il partito scelse Barack Obama contro la Clinton.
Nel Partito Repubblicano, invece, non ci sono “superdelegati” veri e propri. I membri per ciascuno Stato del Republican National Committee, quest’anno 168, hanno la prerogativa di un voto ciascuno alla Convenzione nazionale, ma le regole per il 2016 sono chiare: si esprimeranno a favore del candidato che ha vinto le primarie negli Stati da cui provengono. Un modo semplice per non tradire il voto popolare. Il Partito Democratico è cioè molto più burocratizzato e maggiore è il condizionamento del suo establishment sul suo elettorato, tanto da selezionare il candidato presidenziale in modo molto meno democratico.
Marco Respinti
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