Il 6 ottobre 1988, Russell Kirk (1918-1994), la figura più eminente ed emblematica della cultura conservatrice statunitense, consigliere di due presidenti (Richard M. Nixon e Ronald W. Reagan) e dell’uomo che ha cambiato per sempre il Partito Conservatore (Barry M. Goldwater), è stato capace di far aprire il cielo americano. Parlando alla prestigiosa e storica Heritage Foundation di Washington davanti a una platea di esponenti a vario titolo del mondo Repubblicano, d’insider, di apparatčik e di nuovi leoncini della politica tutti black tie e arroganza disse che i neoconservatori (lui non era uno di loro) dovevano chiarirsi bene una cosa: che Tel Aviv non è la capitale degli Stati Uniti. In Kirk non c’è mai stata nemmeno l’ombra dell’antisemitismo; quel che quella sua frase significa è un principio sacrosanto: ognuno è padrone a casa propria, e questo vale anche quando le case altrui sono quelle degli amici, degli alleati, dei fratelli. Insomma, che talora si può pure non essere d’accordo con la politica dello Stato d’Israele (uno come Kirk non condivideva certo le politiche laburiste), per esempio quando qualche israeliano pensa che la sovranità dei Paesi suoi alleati sia limitata al mero interesse israeliano. Una ovvietà, ma la polemica si scatenò subito, roboante, stizzita, inviperita. Primi tra i suoi critici furenti, ovvio, furono gli ebrei americani. Come si permetteva Kirk di dire… che la capitale d’Israele è Tel Aviv dato che l’unica capitale d’Israele è Gerusalemme? Era questo, per gli ebrei, il peccato imperdonabile di Kirk.
Oggi torna sul tema Donald J. Trump che, in un comunicato emesso al termine di un incontro avuto domenica con il premier israeliano Benjamin Netanyahu, promette che se sarà eletto alla Casa Bianca riconoscerà subito Gerusalemme capitale dello Stato ebraico, «unica ed indivisibile» come sancito nel 1980 dalla Knesset. Un missile politicamente scorretto e orgoglioso di esserlo lanciato diritto nel campo dei buonisti, dei benpensanti, dei liberal, degl’islamicamente corretti e, ovvio, anche dell’islam. Gerusalemme è infatti ovviamente la capitale di qualsiasi entità statuale ebraica sia mai esistita o possa mai essere immaginata. Impossibile sostenere il contrario. Gli stranieri che l’hanno conquistata nei secoli hanno occupato il centro religioso riconosciuto di tutto l’ebraismo, e forse l’hanno occupata sempre e solo proprio per questo. Visto che nell’anno 33 a Gerusalemme è stato crocefisso il Messia a lungo atteso dagli ebrei, Gerusalemme è sempre stata e sempre sarà la capitale di qualsiasi entità statuale ebraica sia esistita o si possa immaginare inscindibilmente unita al mistero cristiano; pertanto Gerusalemme capitale ebraica non può non avere con il cristianesimo una relazione speciale, anzi unica. Né questo ne può diminuire lo status di capitale di qualsiasi entità statuale ebraica sia esistita o si possa immaginare. Gli altri, non ebrei e non cristiani, vengono dopo. Se alcuni di loro, per motivi teologici propri e quindi diversi da quelli che motivano gli ebrei politicamente e religiosamente, i cristiani solo religiosamente, attribuiscono a Gerusalemme lo statuto di “città santa” bene, bene per loro, ma questo non significa poter cancellare l’evidenza, ovvero che Gerusalemme è sempre stata e sempre sarà la capitale di qualsiasi entità statuale ebraica sia esistita o si possa immaginare.
Di più. Gerusalemme capitale religiosa e politica ebraica che con il cristianesimo mantiene una relazione unica è, proprio per questi motivi, un perno della civiltà occidentale (Kirk lo spiega bene ne La radici dell’ordine americano. La tradizione europea nei valori del Nuovo Mondo, trad. it., Mondadori, Milano 1996). Sono tutte queste cose fondamentali che Trump ha voluto ben dire promettendo al mondo di compiere, se sarà eletto presidente del Paese più importante del mondo, un gesto politico e culturale decisivo.
Così facendo, tra l’altro, Trump taglia opportunamente corto con tutte le voci che lo vorrebbero deciso, magari sperandoci, qualora divenisse presidente, a ridimensionare l’impegno degli Stati Uniti nel mondo, a guardarsi l’ombelico, a disimpegnarsi dallo scenario internazionale che invece ha ancora, come sempre, molto bisogno di Washington.
Riconoscendo un fatto oggettivo, invece, un’oggettività ebraica, cristiana e occidentale, Trump si accoda alla linea politica classica dei Repubblicani: Israele è un alleato regionale, e non solo, insostituibile, e pertanto va sostenuto e difeso dagli attacchi dei suoi nemici che sono anche i nemici dell’Occidente, ma prima ancora Israele è uno stato sovrano legittimo che ha il pieno diritto di essere sostenuto da chi ha a cuore la libertà di tutti e che per esistere né deve chiedere il permesso ai vicini né deve castrare la propria identica storica. Il magnate newyorkese era sceso in campo deciso a rottamare il Partito Repubblicano e invece si rende conto che la tradizione politica Repubblicana e conservatrice non affatto uno scherzo.
Hillary Clinton, che domenica ha incontrato pure lei Netanyahu dopo Trump, si è limitata a poche frasi ovvie e scontate, di quelle che come le metti stanno. E invece prima di lei Barack Obama, nel discorso alle Nazione Unite pronunciato martedì 20 settembre, nel suo ultimo discorso all’ONU ovvero in quello che a tutti gli effetti è il testamento di politica internazionale di una presidenza americana sciagurata, ha detto parole gravissime: «[…] sicuramente le cose tra israeliani e palestinesi andranno meglio se i palestinesi respingeranno le istigazioni e riconosceranno la legittimità d’Israele, ma Israele riconosca che non può occupare e colonizzare per sempre la terra palestinese» (corsivo mio). Gerusalemme capitale vs. occupazione: è una guerra, la nostra guerra. Trump ha alzato una bandiera.
Marco Respinti
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