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idem sentire
Pubblicato da Marco Respinti in 4 marzo 2016
L’alternativa a Donald Trump oggi c’è e si chiama Ted Cruz. Non perché Trump sia in sé l’uomo da battere, ma perché Trump è l’uomo che può concretamente far perdere le elezioni presidenziali del 2016 ai Repubblicani. Tra i Repubblicani, solo il senatore Cruz, che al Congresso federale di Washington rappresenta il Texas, è, in questo momento, capace di relegare Trump in un cantuccio. I dibattiti televisivi tra gli aspiranti Repubblicani andati in scena in agosto e in autunno hanno infatti sempre premiato Trump. In un paio di occasioni, Carly Fiorina e Ben Carson sono riusciti a tenere testa al re del mattone newyorkese, ma sono stati fuochi di paglia. Il caso di Cruz sembra invece più solido. Cruz non è un neofita e non appartiene ai politici da rottamare; è sufficientemente addentro alle meccaniche di partito e al contempo può giocare la carta dell’uomo nuovo. Ma soprattutto ha la retorica pubblica giusta per non sottrarsi alla questione che adesso tiene banco nell’elettorato americano: l’immigrazione.
Quello dell’immigrazione è un problema serio, di attualità e di prospettiva. Benché parecchio diversa da come si manifesta in Europa, la questione dell’immigrazione angoscia una porzione ampia dell’elettorato statunitense. Farne la radice di ogni male, come una parte di quell’elettorato fa, è sbagliato, ma non per questo quella parte dell’elettorato americano smette di farlo. In qualunque modo la si giudici, questa percezione soggettiva è un fatto con cui fare i conti. Ma da soggettiva la questione diventa oggettiva se si considera l’incidenza che il fattore immigrazione ha, e sempre più avrà, sulla composizione demografica degli Stati Uniti. La popolazione bianca degli Stati Uniti si sta infatti assottigliando. Lo farà sempre più. La questione dell’elettorato “ispanico”, legato all’immigrazione, diventa dunque decisiva e su questo fronte i Repubblicani debbono ancora lavorare molto e sodo. Soprattutto debbono scegliere una linea quanto più possibile unitaria. Procedere in ordine sostanzialmente sparso come hanno fatto sinora significa creare un vuoto enorme che gli avventurieri alla Trump colmano in maniera caricaturale sì, ma pure efficace: efficace per i nemici dei Repubblicani, che con politiche urlate e sgangherate come quelle di Trump vanno a nozze.
L’unico che in questo momento pare rendersene conto è appunto Cruz. Cruz ha il physique du rôle per conquistare la destra dell’elettorato (è un conservatore, è pro-life, i “Tea Party” lo amano), ha pure i numeri per attrarre il consenso di diversi “indipendenti” allarmati dalla questione immigrazione e forse, su questo argomento, sta riuscendo a catalizzare l’attenzione anche di quell’elettorato moderato che le mattane di Trump invece alienano. Tant’è che per la prima volta in maniera seria il senatore del Texas ha surclassato il magnate nei sondaggi. Le cifre dei sondaggi sono sempre ipotetiche e quindi bisognerà attendere i primi numeri veri, quelli della prima tornata di primarie, in Iowa, il 1° febbraio; ma il dato cui prestare comunque attenzione sin d’ora è che il vantaggio del 31% dei consensi Repubblicani con cui Cruz sta polverizzando il 21% di Trump è stato registrato proprio in Iowa in un sondaggio commissionato dal maggiore quotidiano di quello Stato, The Des Moines Register, alla rinomata Bloomberg Politics.
Oggi Cruz propone un giro di vite sull’immigrazione legale, condizionandola al fabbisogno, in declino, di forza lavoro degli Stati Uniti, e si oppone decisamente a qualsiasi sanatoria per gl’immigrati clandestini (circa 11 milioni). Qualche anno fa si mostrava più possibilista, persino più morbido. Sosteneva posizioni non lontane da quelle attualmente sostenute dal senatore della Florida, Marco Rubio, anch’egli in corsa nelle primarie presidenziali, che invece tendono a cercare un modo per naturalizzare gl’illegali. Solo che oggi i sondaggi dell’Iowa danno Rubio quarto tra i Repubblicani con un misero 10%. Cruz sembra cioè avere trovato la chiave giusta: fermezza, ma senza strepiti, e persino qualche intelligente paracadute come quando, appunto sugl’immigrati illegali, chiude sì totalmente, ma aggiunge che questo vale almeno finché le frontiere con il Messico non saranno sicure (da trafficanti di droga, bande criminali, magari persino terroristi).
Sarà lui il Repubblicano che sfiderà Hillary Clinton? Impossibile dirlo finché le primarie non entreranno nel vivo (tra marzo e aprile), ma soprattutto fino a quando non risulterà chiaro se l’establishment del Partito Repubblicano vorrà sposare la proposta politica, in specie sull’immigrazione, di Cruz. In tesi oggi l’establishment del partito non è lontano dalle sue sensibilità politiche. Se il matrimonio avvenisse, un finale Cruz contro Clinton diverrebbe verosimile. Ma così la pressante questione della composizione demografica dell’elettorato, argomento su cui il Partito Repubblicano è già in ritardo, verrebbe procrastinata ancora una volta, spostando i problemi invece di risolverli.
Marco Respinti
La successione al presidente dimissionario della Camera federale di Washington John Boehner, è compiuta. A sostituirlo, dal 29 ottobre, è Paul Ryan, giovane, aitante, di ottime prospettive, capace persino (e non è facilissimo) di far scordare certe magre come l’essere stato il candidato alla vicepresidenza di Mitt Romney nel 2012 e di avere con lui fallito.
Deputato del Wisconsin dal 1998 e sempre con margini superiori al 60% dei voti, il vero salto di qualità Ryan lo ha spiccato alla presidenza della Commissione Bilancio della Camera dal 2011 al 2015, quando non ha solo fatto le pulci ai conti della macchina governativa, ma ha pure proposto quei funzionali piani alternativi di riduzione delle tasse e di contenimento della spesa pubblica che ne hanno fatto un beniamino del movimento dei “Tea Party”. Conservatore con le carte in regola a ogni voce di programma (dalla politica interna ai princìpi non negoziabili), Ryan è così divenuto il simbolo vivente della sfida ai vecchi arnesi di partito, vale a dire cioè che con una formula usurata ma sempre efficace viene chiamato “establishment”.
Ora, nel personale di quell’establishment i “Tea Party” avevano da tempo iscritto anche Boehner che proprio per questo, al termine di un lungo braccio di ferro, ha lasciato. Che al suo posto sia arrivato Ryan significa che l’establishment ha perso e che l’ala più barricadera ha vinto. Il candidato più naturale per la successione a Bohner era infatti il deputato della California Kevin McCarthy, buon conservatore pure lui. McCarthy era il favorito un po’ perché leader della maggioranza Repubblicana alla Camera, un po’ perché in sintonia con lo stesso Boehner, ma gli oltranzisti che hanno avuto ragione di Boehner sono riusciti a bloccare pure lui assicurandosi uno dei posti chiave dell’architettura istituzionale degli Stati Uniti. Sconfitto è insomma l’establishment più disponibile al compromesso con l’Amministrazione Democratica; meglio: quello che l’ala dei Repubblicani facente riferimento ai “Tea Party” percepisce come l’establishment più disponibile al compromesso se non addirittura all’inciucio. Le due cose, infatti, sono molto diverse.
Delle molte considerazioni possibili, la prima ha la veste di una notizia. Questa: il mondo dei “Tea Party”, ultimamente dato (dai media) per disperso, è tornato, e in verità non se n’è mai andato. È attivo, è forte, e forse lo è più di prima. Certamente più di prima riesce a incidere nel profondo del Partito Repubblicano (dove ha fondato una vera e propria colonia) e, per suo tramite, nelle istituzioni del Paese. All’arco ha ancora molte frecce, temibili in un anno di elezioni quale sarà il 2016.
La seconda considerazione è che con l’avvento di Ryan alla presidenza della Camera il baricentro politico del Partito Repubblicano, in costante spostamento a destra da decenni, ma in fortissima accelerata negli anni della presidenza di George W. Bush (2000-2008) e di Barack Obama (dal 2008), si è mosso ancora più a destra.
La terza è che questo spostamento a destra non avviene affatto ai danni della “Sinistra” interna ai Repubblicani per il semplice fatto che la “Sinistra” interna non c’è più. Storicamente, il cosiddetto establishment ha incarnato l’ala liberal del partito, per lungo tempo maggioritaria, e per questo avversata dai conservatori. Ma proprio perché il baricentro del partito sta da anni puntando a destra, lo spazio politico dei liberal si è assottigliato fino di fatto a scomparire. Il risultato è che quello che viene chiamato establishment oggi non è più la Sinistra liberal interna, ma una Destra diversa da quella movimentista aggregata ai “Tea Party”.
Quarta considerazione: con l’uscita di scena di Boehner (e di McCarthy), l’establishment (oramai di destra, benché di una Destra diversa da quelle dei “Tea Party”) di fatto evapora lasciando il posto a un “monocolore” movimentista. Fine dello scontro? Forse no. Come dimostrano queste vicende, in casa Repubblicana il termine establishment ha perso i connotati ideologici finendo per significare soltanto politica di governo (dei quadri Repubblicani). Ma se così è, una volta eletto alla presidenza della Camera (politica di governo dei quadri Repubblicani) l’anti-establishment Ryan è già automaticamente il simbolo dell’establishment (nuovo). Vale a dire: o i “Tea Party” sono la nuova “casta” Repubblicana, oppure il vecchio gergo politico è oramai afono. Potrebbero sembrare solo oziose questioni di filologia, se non persino di vacuo nominalismo, ma non lo sono affatto. La presidenza Ryan è infatti il vero banco di prova (qualcuno direbbe le forche caudine) dei “Tea Party”, chiamati finalmente a essere il nuovo “sistema” del Partito Repubblicano, con tutto ciò che questo comporta, oppure destinati a non sbocciare mai in un’autentica cultura di governo. Visto che prestissimo dovranno accompagnare la selezione del candidato presidenziale che sfiderà lo sfascismo dei Democratici, e auspicabilmente governare il Paese più importante del mondo, è ora che facciano mente locale. Il poscritto non secondario è che entrambe le Destre del Partito Repubblicano, “casta” e “movimento”, hanno espresso figure istituzionali (Boehner e Ryan) di grande serietà e di sicura fede, cattolica.
Marco Respinti
Più lo Stato islamico avanza, massacra e distrugge, più monta l’ennesima teoria del complotto, ovviamente antiamericana, antioccidentale, antisraeliana. È vero. Barack Obama manca del tutto, e non da oggi, di una politica estera ragionata e coerente, e le poche volte che è sceso direttamente sullo scacchiere internazionale lo ha fatto puntualmente dalla parte sbagliata, alimentando così i malumori e aumentando i dissapori. Ma questo non significa, come affermano i complottisti hard e soft, che l’Isis (o qualunque sia il l’ultimo nome assunto dall’ultimo incubo islamista) sia un prodotto della Cia. Con questo pensiero sullo sfondo della mente, abbiamo ragionato di Isis e dintorni con Massimo Introvigne, il noto sociologo delle religioni. Perché lui e non un professionista dell’analisi geostrategica internazionale? Perché rispetto a molti altri addetti ai lavori Introvigne non procede mai per compartimenti stagni, pretendendo d’isolare artificiosamente (e quindi erroneamente) il mondo delle religioni dal regno delle politiche economiche e militari.
«L’Isis nasce remotamente nel 2006», ricostruisce il sociologo, «quando Osama bin Laden (1957-2011) rompe, per motivi di strategia e di metodo, con il terrorista Abu Mus‘ab al-Zarqawi (1966-2006) attivo in Iraq e probabilmente fornisce agli americani informazioni su dove trovarlo e ucciderlo. Da allora fra al-Qa’ida e la sua filiale irachena c’è tensione, con occasionali ma temporanee rappacificazioni, finché la rottura si consuma nel febbraio 2014 e nasce quello che oggi viene chiamato Isis. Studi esaustivi su questa nuova organizzazione terroristica ancora non ce ne sono. Un buon libro è Le piège Daech. L’État islamique ou le retour de l’Histoire (La Découverte, Parigi) di Pierre-Jean Luizard, pubblicato in febbraio; intendiamoci, Luizard pensa peste e corna degli americani, ma è il maggiore esperto di cose irachene vivente».
Introvigne, perché Bin Laden ruppe con al-Zarqawi?
«Le cause storiche del dissenso tra al-Qa’ida e Isis sono due. Primo: la violenza estrema di al-Zarqawi ‒ grande fan delle decapitazioni in diretta streaming ‒ per al-Qa’ida non è teologicamente immorale, ma è sbagliata perché politicamente controproducente. Secondo: al-Zarqawi e oggi l’Isis, entrambi musulmani sunniti, pensano che i musulmani sciiti debbano essere semplicemente uccisi. Ripeto, uccisi: neppure cioè essere ridotti alla condizione di dhimmi, i cittadini di “serie B” (come i cristiani e gli ebrei), tollerati perché pagano un tributo, poiché la condizione di dhimmi non è prevista per gli eretici, quali i sunniti al-Zarqawi e Isis considerano gli sciiti. O convertiti o uccisi: questa la sorte che spetta loro. Bin Laden invece, pur venendo da una tradizione anti-sciita, ha sempre mantenuto rapporti con l’Iran della shi’a».
Solo questioni di “guerra civile teologica” intramusulmana, insomma…
«No, non solo quello. Vi è anche una distinzione strategica: al-Qa’ida e Isis pensano entrambi che sia venuto il tempo di trasformarsi da organizzazione terroristica a Stato, ma al-Qa’ida pensa a una costellazione di piccoli staterelli (se cade uno, restano gli altri) mentre l’Isis a un grande califfato mondiale (propagandisticamente seducente, ma se cade non resta più niente). A scanso di obiezioni prevedibili ma speciose, voglio precisare che queste distinzioni sono reali tanto che in Siria al-Qa’ida e Isis non si fronteggiano per mere disquisizioni teologiche, ma per scontri armati che comportano centinaia di morti. Certo, non si può però escludere che le divisioni attuali siano superabili. Nel passato i due gruppi erano uniti e potrebbero rimettersi insieme in futuro. Ma per ora le notizie su ipotetiche “fusioni” tra quei due mondi provengono solo da media arabi in forte odore di disinformazione alimentata da servizi segreti…».
Il successo odierno dell’Isis significa la sconfitta della prospettiva politico-culturale di al-Qa’ida?
«A differenza di al-Qa’ida, che ha governato malissimo i propri sultanati, spesso imponendo dirigenti stranieri, dove l’Isis governa gode di un certo genuino consenso della popolazione sunnita poiché si appoggia su leader tribali locali e perché fa leva su rivendicazioni di sunniti maltrattati da sciiti in Iraq o da alauiti (uno scisma della shi’a) in Siria. A breve, anzi a brevissimo termine, la risposta è dunque un parziale sì. Questo consenso all’Isis si estende infatti al mondo mediorientale in genere, dove molti vedono il Califfato come la prima realtà che ha fatto qualcosa contro la discriminazione dei sunniti a opera degli sciiti. Questo vale per l’opinione pubblica del Qatar e della Turchia, di cui i governi tengono conto. Quelli che vanno a combattere con l’Isis dalla Turchia provengono infatti dal medesimo bacino di utenza degli elettori del premier Recep Tayyip Erdogan».
Molti affermano, anzi gridano evidente che, pur avendo la possibilità concreta, i nemici dell’Isis esitano a fermarne la sanguinosa avanzata. In pratica, sarebbe un complotto. Cosa ne pensa?
«Penso piuttosto che ci sono diversi snodi politici che spiegano la difficoltà statunitense di fermare l’Isis. I principali sono due. Il primo riguarda i curdi. I turchi ‒ e per altri verso gl’iraniani (che però ovviamente sono sciiti e giocano dunque una partita diversa) ‒ non sostengono i curdi che stanno in prima linea contro l’Isis per due motivi. Il primo è che sono convinti che ai curdi non interessi fermare l’Isis, ma perseguire l’ideale di uno Stato curdo indipendente. A questo scopo, del resto, i curdi trattano occasionalmente anche con l’Isis, del che ci sono ampie prove. Il secondo è che per la Turchia, per l’Iran e anche per il governo di Baghdad la nascita di un Kurdistan indipendente è la peggiore delle sciagure, rispetto alla quale tenersi il califfato dell’Isis è di gran lunga preferibile. Dell’Iraq sarebbe infatti distrutta la (artificiale) integrità territoriale ‒ ogni componente etnica vorrebbe andare per conto proprio ‒ e, quanto alla Turchia e all’Iran, le regioni curde che si trovano all’interno dei loro confini comincerebbero ad agitarsi per unirsi al Kurdistan. Il secondo snodo politico riguarda il premier siriano Bashar al-Assad. La famiglia Assad, alauita, ha massacrato almeno 100mila sunniti, forse di più. Nessun politico sunnita che abbia bisogno del consenso perché ha ambizioni internazionali (Qatar) o perché a casa sua si tengono elezioni sostanzialmente “vere” (Turchia) può permettersi piani per la Siria che non contemplino la destituzione di Assad. Se li può permettere invece l’Egitto, perché lì le elezioni sono fasulle. La posizione della Turchia può non piacere, ma ha il pregio di essere chiara: noi interveniamo e spazziamo via l’Isis, ma ci lasciate arrivare a Damasco e impiccare Assad…».
Niente complotto, insomma. Perché altrimenti ne farebbe inevitabilmente parte Israele…
«Israele sostanzialmente ricava vantaggi dallo status quo. Il Califfato non lo minaccia direttamente giacché le sue priorità sono altre. Inoltre costringe gli sciiti libanesi di Hezbollah a mobilitarsi in forze per combattere l’Isis onde impedire che esso vinca in Siria con conseguente massacro di sciiti e alauiti anziché rivolgere le proprie attenzioni a Israele. Peraltro Israele gode di una vecchia sapienza politica: quando i musulmani si ammazzano tra loro si dedicano meno ad ammazzare gli ebrei».
E gli Stati Uniti, la cui schiacciante superiorità aerea spazzerebbe via l’Isis in un baleno?
«Gli Stati Uniti sono influenzati dalla posizione di Israele, che sostanzialmente non favorisce un intervento risolutivo contro l’Isis. Inoltre sono tra l’incudine e il martello perché si stanno convincendo che l’opposizione laica e democratica ad Assad non esiste. Intervenendo contro l’Isis irriterebbero Israele e favorirebbero una vittoria di Assad, che sarebbe nel contempo una vittoria di altri tre soggetti che non sono affatto amici degli Stati Uniti: l’Iran, Hezbollah e la Russia. Non intervenendo contro l’Isis si tengono il Califfato e le critiche dell’opinione pubblica. Può darsi che alcuni strateghi del Partito Democratico considerino la seconda situazione preferibile alla prima. Anche un’ipotetica amministrazione Repubblicana però si troverebbe di fronte agli stessi problemi, che sono oggettivi».
L’Isis però minaccia il nostro mondo anche da sud, dalla Libia…
«In Libia il Califfato controlla per ora una zona relativamente piccola. Il problema è quello dei due governi, il governo di Tobruk riconosciuto da Stati Uniti e Unione Europea, e il governo di Tripoli riconosciuto dalla Turchia e da vari Paesi arabi. Tra i due litiganti il terzo, l’Isis, gode».
Un vespaio immane da cui sembra impossibile uscire…
«La questione Isis non ha soluzioni facili. L’unica prospettiva seria è mettere attorno al tavolo tutti gli attori significativi ‒ comprese Russia e Turchia ‒ e trovare una soluzione condivisa alla “miccia” della situazione mediorientale, che è la Siria, con l’allontanamento possibilmente incruento di Assad e la transizione a un qualche governo gradito a russi, turchi, israeliani (silenziosamente) e americani, e per di più non male accetto alla popolazione. Ovviamente è molto difficile. In Iraq è necessario che siano date garanzie a sunniti e curdi da parte della maggioranza arabo-sciita, con una qualche soluzione di tipo genuinamente federale. In Libia non si sa neppure dove mandare delle truppe e contro chi, ma anche qui si tratta di far parlare le due parti con un misto di bastone e carota. Insomma, difficoltà enormi che però il continuo procrastinare non rimpicciolirà di certo. Anzi».
Marco Respinti
Versione completa e originale
dell’articolo pubblicato con il titolo
Introvigne: «Tutti i problemi di una vera guerra all’Isis»
in l’intraprendente. Giornale d’opinione dal Nord,
Milano 12-06-2015
Cosa ci dice l’esito delle elezioni regionali 2015? Dice che l’Italia ha un governo nullafacente eletto da nessuno, ma che nessuno è capace di mandare quel governo a farsi eleggere da un’altra parte. Dite quel che volete, ma alla vigilia della festa della Repubblica l’unica notizia è che viviamo in un Paese vergognoso.
Giovanni Toti, neoeletto alla guida della Regione Liguria, dice che se fosse unito il centrodestra sconfiggerebbe il centrosinistra. Non è vero. Al centrodestra non manca il collante: manca il cemento. Creare maggioranze patchwork che strappino una seduta agli avversari non è impossibile: all’Italia non serve però un “pentapartito”, serve sconfiggere il nemico con una idea virtuosa.
Il primato infatti è dell’idea, i frontmen vengono dopo: e in un mondo fatto bene quei frontmen sono i servi, quelli che sanno mettersi al servizio dell’idea. La gente li porta poi sul palmo della mano proprio per questo. L’esito della tornata elettorale di ieri è comunque chiarissimo. Manca tutto. Idee, leader e per questo si sta perdendo un po’ pure la gente. Eppure per smontare pezzo per pezzo la Sinistra di governo parolaia il partito ci sarebbe. In gran parte sta nel non-voto, in parte sempre più sottile si attarda a votare qualcuno dei rottami anonimi dell’ex centrodestra. Anche le idee ci sono, e per fortuna sono sempre le stesse: meno Stato, meno tasse, meno spesa pubblica (quanto alla libertà, lasciate fare perché la sua misura non la determina certo la graziosità dello Stato). Quel che invece (da tempo) manca è una narrativa coerente che le trasformi in una bandiera, poi un sacrosanto lacchè che quella bandiera la sollevi da terra e allora così la gente, scorgendone i colori pure da lontano, tornerà sì a gremire le piazze (e le urne). Matteo Renzi, infatti, sta dove sta mica perché ha vinto le lezioni: sta dove sta perché ha occupato uno spazio vuoto.
Facciamo gli esterofili, ché serve. In un Paese a caso, gli Stati Uniti, la battaglia la combattono così da decenni. Il Partito Repubblicano, da decenni, altro non è che questo. Il tentativo di articolare in una narrativa coerente la filosofia pubblica alternativa ai dirigismi che non dirigono, ai relativismi che assolutizzano, ai democraticismi che degradano la democrazia, ai progressismi che regrediscono. Dopo Nicolas Sarkozy che ha rifondato l’Union pour un mouvement populaire con il nome Les Républicains (e però Sarkozy non è una bellissima notizia…), da qualche settimana va di moda anche da noi parlare di Partito Repubblicano italian-style. Partito Repubblicano o come caspita si chiamerà mai (il rischio infatti è che invece di Ronald Reagan spuntino i La Malfa), non deve più essere soltanto un contenitore sterile in cui ognuno riversa un po’ di quel che in soffitta proprio non ci sta più.
Bisogna invece che prima si prenda di petto la realtà, quella che nell’Italia non di sinistra è fatta di liberali, libertari, indipendentisti, conservatori e cattolici; poi che quella realtà la si prenda per mano; e infine che la si conduca a un tavolo dove le seggiole non siano poltrone (queste ultime infatti inducono attaccamento e torpore) per cercare non la sintesi impossibile ma quella cosa che oggi, dopo il voto di ieri, sembra mancare a tutti: la voglia sincera di uscire dal pantano. Per farlo ci vogliono le cose che da sempre servono per mettere su le cose serie: tempo e fatica, umiltà e generosità. I papaveri marcheranno visita immediatamente, ma forse gli altri qualcosa di utile lo faranno.
Alle 16,00 di domani, al Teatro Nuovo di Piazza San Babila a Milano, l’ex capogruppo della Lega Nord alla Camera, Marco Reguzzoni, lancia un movimento politico, “I Repubblicani”. Sono al suo fianco Sveglia Centrodestra, Tea Party Italia e Modernizzare l’Italia. Avranno voglia di metterci del tempo e di fare fatica, di agire umilmente e di pensare generosamente? Al Paese è questo che serve, dicono le migliaia di partite Iva e di rosari che in Italia (contate bene, sommate tutti gli addendi) sono ancora la maggioranza.
Marco Respinti
Versione completa e originale
dell’articolo pubblicato con il medesimo titolo
in l’intraprendente. Giornale d’opinione dal Nord,
Milano 01-06-2015
Nel giro di cinque giorni sono scomparsi tre pensatori statunitensi di enorme grandezza. Martin C. Anderson, classe 1936, si è spento il 5 gennaio. Harry V. Jaffa, classe 1918, e Walter Berns, classe 1919, si sono spenti il medesimo giorno, 10 gennaio. Una coincidenza, ma come non vedervi al lavoro un qualche importante arcano, visto che Jaffa e Berns stati a lungo stati due rappresentanti eminenti dell’eredità culturale lasciata da Leo Strauss (1899-1973), il controverso Leo Strauss, anzi forse gli ultimi due capofila straussiani ancora, fino a poco fa, in vita? Sia come sia, con la scomparsa in contemporanea di Anderson, Jaffa e Berns si chiude un’epoca della cultura americana, della cultura della Destra americana. Forse anche questo è in qualche modo un arcano da divinare correttamente.
Martin Anderson era un economista di enorme spessore. Curriculum vitae e cursus honorum specchiati, discepolo tetragono del Libertarianism oggettivista di Ayn Rand (1905-1982), Anderson fu consigliere di primo piano di Richard Nixon (1913-1994) e di Ronald Reagan (1911-2004). Il che significa che fu uno degli uomini chiave di cui Nixon si servì per riorganizzare il Partito Repubblicano dopo la sconfitta di Barry Goldwater (1909-1998) nelle presidenziali del 1964 e soprattutto per mutare tale débâcle in una “disfatta vittoriosa” proprio perché in grado di trasformare il goldwaterismo perdente in reaganismo vincente attraverso la sagace riconquista politica degli Stati del Sud. Alla Casa Bianca fu determinante in molti modi ma certamente indispensabili furono i suoi consigli in economia (oltre all’aver messo fine alla coscrizione obbligatoria). E tutto nonostante abbia abbandonato presto sia Nixon sia Reagan disgustato dal burocratismo veleno che intossica la vera vita politica.
Harry V. Jaffa, scomparso a 96 anni, fu il creatore della celeberrima frase con cui Goldwater nel 1964 rovesciò i tavoli della politica lecchina e leccata, «l’estremismo in difesa della libertà non è un vizio», che però, come troppi scordano, continuava con «la moderazione nel praticare la giustizia non è una virtù». Con Jaffa una delle peculiarità dello straussismo ha toccato un vertice massimo: la re-interpretazione del Founding (l’epoca di fondazione della nazione statunitense) svolta alla luce della filosofia morale e politica aristotelica onde formulare un’idea di eguaglianza non progressista. Forse tutto il regime-change e il nation-building dei neocon della guerra al terrorismo erano già tutti dentro lì: fatto sta che ne è divampato un incendio senza indomabile. L’eruzione finale, spettacolare e maestosa, avvenne con Reagan alla Casa Bianca. Alla Casa Bianca con Reagan era finalmente giunto, dopo anni di attesa, il conservatorismo, oramai strutturatosi in un vero e proprio movimento di opinione forte d’intellettuali, attivisti, periodici, case editrici e think tank. Fu il momento del trionfo, ma coincise con quello del declino. La forza di Reagan si rivelò anche la sua debolezza. Facendo tesoro della lezione del maestro Goldwater, e finendo per superare persino il suo maestro, Reagan compose le varie anime, litigiose, del conservatorismo americano in una sintesi politica che in un determinato momento storico fu in grado di assumere la direzione del Paese, ma non passò molto tempo che gli antichi litigi riaffiorarono. Chiamatelo ozio che è padre dei vizi, evocate gli ozi di Capua o se preferite invocate la vittoria di Pirro, gli è comunque che scoppiarono le “guerre tra conservatori”. All’ultimo sangue. Conservatori classici contro nuovi conservatori, neoconservatori contro tradizionalisti, straussiani contro neo-sudisti, e chi più ne ha più ne metta. E la Sinistra capì che le conveniva sedersi sulla riva del fiume attendendo di veder passare il cadavere dei propri nemici, cadavere che non tardò allora e che non ha tardato nemmeno poi, in mille altri passaggi storico-politici diversi e simili, attualità compresa. La loro fama i neocon se la fecero allora, nel bene e nel male; i tradizionalisti non ne digerirono il successo; i theocon posero radici all’epoca; e a moltissimi parve che la canonizzazione laica di Abraham Lincoln (1809-1965) e l’intronizzazione, da allora e grazie a lui, dell’ideologia da big government, di cui si rese protagonista e alfiere Jaffa, fosse semplicemente il tradimento del vero spirito americano e lo stravolgimento dell’ethos conservatore. Da allora il conservatorismo americano non è mai più stato come prima; ha sempre assomigliato a una guerra civile, fratello contro fratello, pugnalate alle spalle, vecchi amici trasformatisi in nuovi nemici. Ancora.
Berns, scomparso a 93 anni, fu parte integrante di dette “guerre”, fornendo armi di riflessione soprattutto giuridica all’esercito straussiano. Ovvero indispensabili alla galassia neocon. Il suo nome ha sempre fatto il paio con quello di Jaffa, e quindi con lui Berns è sempre stato amato od odiato a seconda dei fronti.
Ora però, a meno che non sia solo il segno della nostra senescenza, tutto questo sembra appartenere solo al passato: Reagan, il reaganismo, le guerre tra reaganiani, il postreaganismo. In più, alle nostre latitudini, cronicamente povere in canna di strumenti adeguati di analisi, questi nomi, queste stagioni sembrano essere solo l’oggetto di culto di qualche iperspecialista; come direbbe Roy Batty di Blade Runner, «e tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire». Quel che sbigottisce è proprio questo. Con tutto il maledire quotidiano gli Stati Uniti che da noi molti praticano come una religione, con tutto lo sparlare per anni (scorsi) di neoconservatorismo (ma come, i neocon erano i padroni giudo-pluto-pippo-e-paperino del mondo e sono scomparsi per effetto di una sola semplice elezione presidenziale?…), con tutto il citare gli straussiani senza mi leggerne un rigo, l’Italia resta una zattera di balbuzienti alla deriva a fronte di un mondo di fermenti culturali che è anni-luce avanti il cicaleccio dei nostri “intellettuali” e tanto capace d’incidere nel concreto da condizionare sul serio la vita politica di un Paese che (se a qualcuno fosse sfuggito) resta il più importante del mondo. Proprio non impareremo mai.
Marco Respinti
Pubblicato con il titolo Omaggio a tre colossi repubblicani che ci han lasciato
in l’intraprendente. Giornale d’opinione dal Nord, Milano 16-01-2015
Shaitan Al-Ramadi: Chris Kyle lo chiamavano “il diavolo di Ramadi” ed era il serviceman americano che in Irak pare avere steso più nemici di tutti (dicono 250 persone). Poi nel 2009 si congedò dalla Marina degli Stati Uniti, rientrò in patria e il 2 febbraio 2013 venne abbattuto con un gesto banale da un reduce svalvolato cui prestava assistenza.
Kyle non era un supereroe che non sbagliava mai; era un uomo che evitava di sbagliare sempre. Quel che Clint Eastwood vuol dirci con il suo nuovo film che ne racconta la storia, American Sniper (lo stesso titolo dell’autobiografia che Kyle pubblicò nel 2012 con la Harper Collins di New York), è semplicemente questo. Chi sceglie tra bianco e nero, a volte sbaglia; chi non sceglie perché nemmeno sa cosa siano il bianco e il nero, sbaglia sempre.
Ma il nostro mondo irresponsabile che si droga quotidianamente con mille sfumature di grigio non capisce. E non capendo, odia. Quindi vitupera, vilipende, offende. Pare infatti che diversi membri dell’Academy of Motion Picture, vale a dire la giuria che assegna gli Oscar per i quali American Sniper è in concorso, siano già pronti alla bocciatura. A prescindere. Perché? Perché American Sniper non è un film in linea con il progressismo culturale dominante e perché il “salotto buono” non ha mai perdonato a quel cane sciolto di Eastwood la gag con cui, alla Convention del Partito Repubblicano nel 2012, l’attore-regista prese sonoramente in giro Barack Obama in mondovisione.
Intendiamoci però. Non è che American Sniper non piaccia a sinistra perché è un film di destra, guerrafondaio, apologetico della violenza, neocon; non è che un pezzo grosso di Hollywood non possa sbeffeggiare Obama; non è che Eastwood sia odiato perché politicamente nemico. Quel che del suo film resta sul gozzo è solo l’uomo Kyle, in arte cecchino: l’uomo di cui in guerra c’è sempre bisogno in carne e ossa e di cui in pace non possiamo fare metaforicamente mai a meno. L’uomo che sceglie. L’uomo che vive un morale chiara e distinta. L’uomo che onora dei principi. L’uomo che agisce. L’uomo (appunto) che a volte sbaglia per non sbagliare sempre. La religione del nostro tempo è il politicamente corretto, il conformismo è la sua Chiesa e dispensatori di melassa sono i suoi preti. Il primo e unico comandamento è “ci pensino gli altri”, e il paradiso un immenso welfare. American Sniper è una bestemmia perché mette in scena il dramma di un uomo che, nonostante tutto, c’è; e Clint Eastwood è un eresiarca perché il 30 agosto 2012, a Tampa, in Florida, rappresentò Obama con una sedia vuota. Muto, sordo, cieco e soprattutto assenteista.
All’Academy of Motion Picture odiano la gente vera che può popolare anche la buona fiction; detestano gli uomini che tengono gli occhi aperti come faceva il Navy Seal Chiristopher Scott Kyle, may he rest in peace, anche quando gli occhi bruciano, anche quando gli occhi piangono, anche quando i morti-in-piedi negli occhi gettano fumo.
Marco Respinti
Pubblicato con il medesimo titolo
in l’intraprendente. Giornale d’opinione dal Nord, Milano 03-01-2015
Il 4 novembre, oltre alle elezioni per il rinnovo del Congresso federale di Washington, negli Stati Uniti si voterà anche per eleggere i governatori di alcuni Stati. Fra questi, il Wisconsin.
Oggi il governatore del Wisconsin è il Repubblicano Scott Walker. In novembre si ricandiderà; nei sondaggi e nel gradimento dell’elettorato è messo piuttosto bene, da tempo è alquanto popolare, ma contro di lui si sono coalizzati i “poteri forti”. Nel Wisconsin i “poteri forti” sono i sindacati. Di sinistra, ovvio. Walker è sostanzialmente percepito come un “thatcheriano”, ovvero uno che l’ha giurata alle consorterie di potere che nel Wisconsin imperversano taglieggiando e ingessando l’economia e il lavoro. Da sempre, peraltro, i sindacati di sinistra sono il nerbo dell’elettorato progressista; lo organizzano, lo mobilitano e ne foraggiano i “comitati di azione”. A differenza del premier britannico Margaret Thatcher (1925-2013), Walker non è però ancora riuscito a stroncare il nemico, ma ci sta provando seriamente e con ampio successo d’immagine. Per questo è già sin d’ora dentro la rosa di quei Repubblicani che potrebbero pensare seriamente alla corsa alla Casa Bianca nel 2016 quando la sfida anche al potere sindacale andrà portata ai vertici del Paese e combattuta su tutti i suoi territori. Ma sarà una lotta dura; già lo è e già lo è stata.
Walker è diventato governatore del Wisconsin vincendo le elezioni dell’autunno 2010 ed entrando ufficialmente in carica nel gennaio 2011. Chi fosse lo sapevano tutti, amici e nemici. Ciononostante gli amici prevalsero sui nemici; e però questi, potenti, ricchi, influenti, sono riusciti a mettere i bastoni fra le ruote in corso d’opera, riuscendo a fare ciò che negli Stati Uniti (un Paese che strutturalmente non può avere, e quindi mai ha avuto, una crisi di governo a livello federale, a ricaduta riuscendo quindi quasi sempre a evitare la vacanza di potere nei singoli Stati) accade davvero raramente. Sono cioè riusciti a far decadere Walker dall’incarico di governatore e quindi a far indire nuove elezioni per il 5 giugno 2012. In tutta la storia degli Stati Uniti una cosa così è accaduta solo tre volte. E una sola volta il governatore sfiduciato e uscente è riuscito a strapazzare il proprio avversario, vincendo. Chi? Esattamente Scott Walker.
Il governatore era stato sfiduciato per avere proposto nel 2011 una riforma del budget del Wisconsin che avrebbe fatto risparmiare all’erario 30 milioni di dollari in quell’anno (così le stime) e altri 300 milioni nel corso dei due anni successivi. Per farlo, Walker pensò di mettere mano alle tasse, modificando e razionalizzando. Come sempre accade in casi così, la questione finisce immancabilmente come il letto di Procuste. Corta la coperta lo è per definizione, e così, tira da una parte, tira dall’altro, qualcuno rischia sempre di restare scontento. Allo stato attuale del mondo, di fronte all’insostenibile pesantezza degli Stati moderni, il governo migliore è quello che riesce a scontentare tutte le parti il meno possibile. Esattamente cioè quello che ha fatto il governatore Walker, criticato a destra da alcuni e odiato a sinistra da molti altri. Non perché (come vorrebbe una certa retorica falsa) avesse penalizzato un po’ “i ricchi” (“la Destra”) e moltissimo “i poveri” (“la Sinistra”), ma perché, riformando, cesellando, riaggiustando, i più colpiti nelle sine curae, nei benefit e negl’interessi consolidati di casta finivano per essere gl’impiegati statali, e soprattutto le loro ricche e potenti organizzazioni sindacali.
USA e non getta logoMa, come detto, nemmeno sfiduciandolo i sindacati della Sinistra organizzata sono riusciti a eliminare Walker. Che è tornato a guidare il Wisconsin, che ha cercato di fare al meglio il suo lavoro, che in novembre si riproporrà al vaglio dei cittadini con il vento in poppa e che nel frattempo è riuscito virtuosamente a ricucire (come solo gli uomini politici davvero capaci e carismatici sanno fare) lo strappo (in realtà lo “strappino”) con alcuni settori del movimento dei “Tea Party”. Oggi infatti Walker ha i “Tea Party” tutti dalla sua, ha le carte in regola e, protestante evangelical devoto, anche la cosiddetta Destra religiosa lo apprezza molto per la sua difesa aperta dei “princìpi non negoziabili”. Da notare bene: negli Stati Uniti, i veri conservatori in ambito economico lo sono praticamente sempre anche in campo morale e persino religioso.
Qualcuno dice che Walker potrebbe persino riuscire a unificare il Partito Repubblicano per le sfide più decisive contro i Democratici. Diamo tempo al tempo; mentre lo facciamo, consideriamo però il “cartello” dei suoi oppositori, capitanati dal famoso sindacato, di sinistra e laicista, AFL-CIO, che in tutti gli Stati Uniti quest’anno ha raccolto qualcosa come 300 milioni di dollari per finanziare la battaglia contro i candidati al Congresso e ai governatorati più conservatori del Partito Repubblicano. Sigle cioè come la Emily’s List (organizzazione che statutariamente seleziona e sponsorizza le candidature politiche di personale filoabortista, meglio se donne, Democratiche e possibilmente lesbiche), la Planned Parenthood (il più grande abortificio del mondo, con i piedi negli USA e le mani ovunque), Ready for Hillary (il “comitato d’affari” di Hillary Clinton, quintessenza del relativismo liberal in politica) e il famoso ultramilionario di sinistra George Soros. Fosse solo per i suoi nemici, Scott Walker è già un amico.
Marco Respinti
Campagna elettorale. David Brat (sulla moto) con Randy “Zippo” Breen (a sinistra) e Tanner “Clear Coat” Mansfield, membri dell’associazione per l’apostolato cristiano ai motociclisti Heaven’s Saints, al Golden Corral di Glen Allen, in Virginia, il 26 aprile 2014. Sul giubbotto di pelle di Tanner si leggono i due slogan del gruppo: «United for Christ» e, sotto, «Jesus is Lord»
La vittoria, il 10 giugno, di Dave Brat contro Eric Cantor nelle primarie per la designazione del candidato che rappresenterà il Partito Repubblicano nel 7° distretto dello Stato della Virginia alle elezioni per il Congresso federale del 4 novembre è stata davvero clamorosa, con pochissimi precedenti e per molti versi inattesa.
David Alan “Dave” Bratt, infatti, è sostanzialmente uno “sconosciuto”. Con questa espressione non si deve però intendere un uomo ignoto agli elettori ‒ la cui maggioranza lo ha infatti preferito al notissimo Cantor ‒, quanto dire che certamente non si tratta di un abitué delle tribune politiche, delle “stanze del potere” e dei “salotti buoni”.
Nato nel 1964 a Detroit, Brat insegna Economia al Randolph-Macon College, di Ashland, in Virginia. Cantor, invece, nato a Richmond, in Virginia, nel 1963, è uno degli uomini più importanti ed esposti del Partito Repubblicano. Deputato alla Camera della Virginia dal 1992 e al Congresso federale dal 2001, nel partito ha fatto carriera diventando, nel 2009, vice-leader della minoranza alla Camera e nel 2011, quando i Repubblicani riguadagnarono il controllo di quell’assise, leader della maggioranza. Per questi motivi appariva già proiettato a prendere, prima o poi, il posto dell’attuale Presidente repubblicano della Camera, John Boehner. E invece no. A gennaio, esattamente il 3, giorno in cui s’insedierà il 114 Congresso degli Stati Uniti (quello che sarà eletto appunto il 4 novembre), Cantor uscirà di scena (anche se nulla gl’impedirà di rientrarvi: tanto per fare un esempio piuttosto clamoroso, l’ex senatore Rick Santorum è fuori al Congresso federale sin dal 2007 ma niente gli ha impedito di correre per la Casa Bianca, con risultati più che lusinghieri, nel 2012).
Ora, la sfida tra Brat e Cantor esemplifica nel modo più evidente possibile la “guerra” senza quartiere da tempo in atto dentro il Partito Repubblicano americano; una “guerra” la cui posta in gioco è l’anima stessa del Partito Repubblicano.
Quel partito, infatti, non è certo nato, nella seconda metà dell’Ottocento, come un partito conservatore; anzi, per molti versi nel suo seno hanno albergato, e per periodi significativi pure dominato, correnti di pensiero progressista. L’inversione, clamorosa, di tendenza è iniziata con la data simbolo del 1964, allorché il senatore Barry Goldwater (1909-1998) cercò l’elezione alla Casa Bianca presentandosi nelle file di un Partito Repubblicano che però aveva seriamente l’intenzione di trasformare profondamente, tanto che allora furono proprio certi compagni di partito i suoi nemici più implacabili. Ciononostante ‒ nonostante cioè quel “fuoco amico” che allora ebbe la meglio ‒, la trasformazione del partito da lui innescata proseguì (e non sempre solo in maniera carsica), raggiugendo un “punto di non ritorno” nel 1980 con la vittoria alla Casa Bianca di Ronald Reagan (1911-2004), un successo ai vertici politici della nazione che costituì pure una significativa (benché ancora parziale) vittoria interna sulle ali liberal del partito.
La “staffetta” Goldwater-Reagan ha cioè costituto la lunga fase di gestazione della trasformazione dei Repubblicani e innescato la “guerra” dei decenni successivi. Di questa sono state fasi dibattute e tormentate, cioè non sempre indolori, quelle che hanno visto salire alla ribalta (cioè tornare) i cosiddetti neoconservatori (meglio, la “seconda generazione” neocon) durante i due mandati presidenziali di George W. Bush Jr., dal 2000 al 2008, e quindi comparire il fenomeno eclatante del movimento dei “Tea Party”, capace di condizionare fortemente il Partito Repubblicano nelle elezioni per il Congresso federale nel 2010 e nel primarie per le presidenziali del 2012.
La trasformazione del partito è avvenuta per gradi, a marce variabili e non senza contraccolpi; ma è avvenuta. Oggi i conservatori dominano il Partito Repubblicano, una formazione “irriconoscibile” rispetto a solo qualche decennio fa. L’ala liberal, che ancora ai tempi di Reagan contava moltissimo, è solo un ridotto che vivacchia. La variegata formazione politica di un tempo al cui interno viveva anche una rappresentanza conservatrice ora è un partito mediamente improntato al conservatorismo con qualche eccezione che conferma la regola.
Ma allora cosa significa il braccio di ferro tra Brat e Cantor? Significa che, all’interno dei Repubblicani, la guerra tra liberal e conservatori è finita, sostituita dalla sfida tra i conservatori.
I due contendenti delle primarie della Virginia lo dimostrano benissimo. Brat è contrario all’aborto e ai “matrimoni” omosessuali, e si fa un punto d’onore nel difendere la libertà religiosa sancita a chiare lettere dalla Costituzione federale statunitense. Cantor anche, da sempre. Eppure Cantor ha perso clamorosamente contro Brat, stabilendo un record: è il primo leader di maggioranza nella Camera federale di Washington ad aver perso una elezione nelle primarie del proprio partito da che negli Stati Uniti è stata creata la figura del leader di maggioranza alla Camera, cioè dal 1899. Quindi? Quindi quello che sta accadendo oggi negli Stati Uniti è che l’elettorato Repubblicano, che è conservatore, può permettersi “il lusso” di scegliere fra Repubblicani conservatori. In questo momento storico, l’elettorato Repubblicano, cioè conservatore, del 7° distretto della Virginia ritiene che la politica economica proposta da Brat sia migliore di quella seguita da Cantor. Il nocciolo della sfida tra i due esponenti Repubblicani, infatti, è stato principalmente di natura economica. Questione importantissima, talora fondamentale, ma in ballo non ci sono “princìpi non negoziabili”. Non perché essi non siano rilevanti, ma per la ragione esattamente opposta. Dentro il Partito Repubblicano ‒ elettorato e personale politico ‒ mediamente nessuno mette in discussione i “princìpi non negoziabili”; molto dell’elettorato conservatore sceglie il Partito Repubblicano proprio per questo e proprio per questo boccia il Partito Democratico, che specularmente è divenuto il bastione cosciente del relativismo in politica. Ciò di cui si discute oggi nel mondo Repubblicano è invece come difendere concretamente i “princìpi non negoziabili” nella vita politica quotidiana e contro i loro nemici Democratici, ovvero si parla di ciò che è lecitamente negoziabile. E dunque su questo ci di divide lecitamente.
Marco Respinti
Il secondo mandato presidenziale di Barack Obama sarà una botta di radicalismo, maggiore di quello visto sin qui. La riforma della legge sull’immigrazione, per esempio, per strumentalizzare ideologicamente i latinos e i loro molti bisogni.
Il mio articolo sul pellegrinaggio anche politico di Rand Paul in Israele, uscito su Italia Domani il 18 gennaio 2013, è stato ripubblicato il 20 gennaio su
– quotidiano L’Opinione delle Libertà
– sito Internet de L’Opinione delle Libertà
Il beniamino dei “Tea Party”, figlio d’arte, si porta dietro la nomea dì”isolazionista”. Non gli dispiace, ma il suo pellegrinaggio anche politico in Terrasanta e quel che ci vuole per iniziare a farla finita con una serie di illazioni stupide. Tre urrà.
Rand Paul in Israele.
Chiacchierato, ma opportunamente strategico
Ho visto il TG1 della sera. Ma perché ho visto il TG1 della sera?
La Banca d’Italia comunica che a novembre il debito pubblico dello Stivale ha toccato un nuovo record. Lo ha fatto pure il gettito fiscale degli ultimi tempi. Ma guarda un po’! E la richiesta di mutui degl’italiani per acquisto della casa nel 2012 è calata sensibilmente. IMU chi legge. Hanno ammazzato il risparmio, il guadagno e le famiglie, cosa ci si aspettava di altro?
Negli Stati Uniti, intanto, Barack Obama dice che i Repubblicani sono dei puzzoni perché non gli autorizzano l’innalzamento del tetto massimo della spesa pubblica. Sono invece dei santi.
Intano il primo presidente mezo nero della storia degli USA annuncia che proporrà una legge per abolire le armi d’assalto. In campagna elettorale, infatti, se n’era dimenticato. Menomale. Sennò avrebbe perso la Casa Bianca. La fantastica inviata Giovanna Botteri commenta che Obama ha pure detto che purtroppo non si è riusciti a salvare i piccolini caduti nell’ultima strange. Vuol dire che Obama, per riparare pubblicamente, mercerà il 25 gennaio dal Mall di Washington sin davanti alla Corte Suprema con i pro-lifer antiabortisti?
Poi ci annunciano che l’attrice Jodie Foster ha ammesso davanti a tutti di essere lesbica. Davanti anche ai suoi due figli. Che ridevano. Che applaudivano.
Quindi Vincenzo Mollica ci comunica che Vasco Rossi ha detto su Facebook che torna sul palco.
Nel mezzo, ho cercato di spiegare ai mei due figli di 10 e 9 anni cosa sono stati gli Anni di piombo, le Brigate Rosse e il terrorismo comunista in Italia. Prospero Gallinari è morto, sempre senza pentirsi.
Mi consola solo l’immagine di un soldato francese inmpegnato a dare una mano al Mali con un bel Mirage.
Ma perché ho visto il TG1 della sera? Alla fine mi hanno pure ricordato che debbo immancabilmente pagare il canone di “mamma RAI” anche se uso il tivù come fioriera, vasca per i pesci o pitale.
Il mio articolo per il centenario della nascita di Richard Nixon, uscito su Italia Domaniil 9 gennaio 2013, è stato ripubblicato in
– the Right Nation dello stesso 9 gennaio
– il sito Internet del quotidiano L’Opinione delle Libertà del 12 gennaio
– il quotidiano L’Opinione delle Libertà del 12 gennaio
Richard Nixon nacque esattamente un secolo fa, il 9 gennaio 1913.
Tutti ricordano giustamente la sua presidenza per la Guerra del Vietnam, per lo “scandalo Watergate”, per l’abbandono del riferimento aureo del dollaro, per i viaggi nella Cina comunista, per il trattato SALT per la limitazione delle armi strategiche, per il Programma Apollo, i più raffinati magari persino per l’“Operazione Condor”, ma della sua “missione pubblica” vi è un altro aspetto fondamentale (introvabile su Wikipedia…) che cerimonie e celebrazioni lasciano immancabilmente inesplorato, e che dunque la rubrica USA… e non getta vuole rievocare.
100 anni fa nasceva Richard Nixon. Un ritratto fuori dal coro
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