Ci siamo. Inizia l’Avvento, iniziano le scuse non richieste. Nella fattispecie, sono le scuse di essere quel che si è, di venire da un storia che è quella che è, di avere un passato che è quello che è, di traghettare al futuro una eredità che è quella che è. E siccome i simboli sono fatti apposta per richiamare l’intelligenza e i sensi a una realtà oggettiva, in Avvento le scuse non richieste se la prendono con il Presepe. Logicamente dovrebbero prendersela anche con le conifere addobbate e coi festoni per le strade, ma il razzismo intellettuale degl’illuminati è intermittente come le luci colorate comperate alla Rinascente.
Il Gesù Bambino nella mangiatoia attorniato da san Giuseppe e dalla Vergine Maria, scaldato dal bue e dall’asinello, e adorato da una pletora di figurine le più varie e assortire a rappresentare i mille e uno geni d’intrapresa dell’homo faber, scoccia. Scoccia perché rispetto a una pallina luccicante appesa al pino innevato artificialmente che sta in salotto non si riesce a camuffarlo da gadget. Lui infatti è la seconda persona della santissima Trinità che s’incarna nel Figlio di Dio per morire e poi risorgere il terzo giorno. Nel Presepe ci sta in effige affinché davanti alla sua culla di fortuna si pieghi ogni ginocchio di ogni tempo e di ogni luogo. Dio che incontra la storia è un fatto accaduto una volta sola: per questo lo si ricorda carnalmente ogni dodici mesi ricostruendo come san Francesco d’Assisi la nascita di Cristo la Tigre cara a T.S. Eliot e a Francesco Guccini.
Il Presepe questo è e non altro. Chi lo detesta e lo nasconde, anzi lo abolisce, ha ragione. Non lo si può addomesticare, il Presepe. Se lo allestisci, il Presepe, quello fai: annunci al mondo la venuta del Dio-uomo del cristianesimo. Abbiamo le mani legate, e il Presepe pure. Il Presepe non ce la fa a obbedire ai nostri comandi. Il Presepe fa il Presepe, punto. Nell’impossibilità di travestirlo, meglio lasciarlo in soffitta.
Solo che quando facciamo così ci castriamo. C’infiliamo la maschera di carnevale. Con i gessetti disegniamo baffi finti e cornine puntute alla fotografia che sta sui documenti che portiamo in saccoccia. Se copriamo il Presepe perché ci vergogniamo di lui, ci vergogniamo di noi. Non è una questione di fede; è una questione oggettiva. Togliete il Presepe e che cosa rimane? Niente. Prendete una cartina geografica della città che volete, magari la vostra, ed eliminate uno a uno tutti i riferimenti al cristianesimo: chiese e palazzi ovviamente, ma contemporaneamente anche strade, piazze, giardini, musei, quadri, fontane, i nostri stessi nomi. Niente più Michelangelo, Marc Chagall, ma persino David LaChapelle, fotografo in odore di blasfemia e pulsioni erotomani che non riesce a cliccare uno scatto senza doversi tormentare, per tormentarsi, il sacro cristiano. Niente più Dante Alighieri, ma nemmeno i Giovanni Testori e i Pier Paolo Pasolini, sulfurei da sconsigliare ma che senza il Presepe non sarebbero mai nemmeno venuti al mondo. Il benedettino ungherese-statunitense Stanley L. Jaki, e prima il suo “maestro” Pierre Duhem, ci ricordano che senza il Presepe non vi sarebbe mai stato un computer. Senza il Presepe non avremmo mai avuto uno dei maggiori astronomi del mondo, Silvestro II, Papa nel 999, né il matematico forse più grande di sempre, quel Leonardo Pisano morto nel 1235 che tutti conoscono come Fibonacci. Né avremmo avuto – ricorda Oreste Bazzicchi – la partita doppia e l’economia libera di mercato (nate in conventi francescani come francescano è il Presepe), o – ricorda Rodney Stark – il riscaldamento nelle abitazioni, o ancora – ricorda Léo Moulin – il vermut per l’happy hour che inventarono, oltre ai sistemi agrari che hanno sottratto per sempre l’Europa alla fame e alla miseria in cui vive endemicamente molta parte del resto del mondo, i monaci benedettini. E nemmeno gli ospedali, il calendario (a.C./d.C.) o il vocabolario (“quaderno”, “avere voce in capitolo”, l’“acquavite” che si mescola all’etimologia di “whisky”, “anno sabbatico”, “università”, gli “ostelli” che nascono in Francia nel secolo VII come “Hôtel-Dieu” cioè le strutture di assistenza per i pellegrini dipendenti dal vescovo ed erette nei pressi delle cattedrali, e così via).
Nascondere il Presepe sotto il tappetto come si fa con la polvere significa dimettersi dall’essere quel che si è, occidentali. Certo, noi occidentali siamo abituati a sputare nel piatto in cui mangiamo, a spernacchiare i genitori, a vergognarci di mamma e papà, ma i risultati in effetti si vedono. Ed è per questo che gli altri, da fuori, ci prendono in giro più che ammazzarci. Poi ci ammazzano pure, ma non senz’averci prima canzonato.
Con il Presepe censurato noi occidentali facciamo ridere tutto il mondo. Perché ci condanniamo a essere apolidi, apatridi, homeless, muti, sordi e ciechi senza più nemmeno le pezze per il fondoschiena e i cartoni per dormire davanti alle clèr dei negozi. Ma il mondo ride perché noi facciamo tutto questo senza che nessuno ce lo abbia mai chiesto.
Fare il Presepe oggi, oggi, è un gesto anche politico. Se questo suona duro alle nostre orecchie è perché da tempo pensiamo che “politica” voglia dire soltanto Luigi Einaudi, Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti, Enrico Berlinguer, Giulio Andreotti e Marco Pannella, Bettino Craxi, Massimo D’Alema e Silvio Berlusconi, Umberto Bossi, Gianfranco Fini e Antonio Di Pietro, Beppe Grillo, Angelino Alfano e Matteo Salvini, Matteo Renzi, Susanna Camusso, Vauro e Crozza. Invece la politica è una cosa seria. È ciò che da quando è uomo fa ogni uomo che non voglia rassegnarsi a chiudere i propri giorni in uno scantinato atterrito dalla propria ombra. Il Presepe come segno di quella civiltà di cui siamo fatti anche quando ce ne vergogniamo è un gesto profondamente politico: per questo va fatto anche in pubblico, anche nelle scuole, nelle aule di tribunale, nelle ASL, alle poste, nei mezzanini del metrò e sotto le pensiline dei tram. Anche se non ci crediamo, anche se siamo laici, anche se lo Stato e il comune di residenza lo sono. Pare che Michael Jackson facesse di tutto per sbiancarsi la pelle odiando quella che aveva; se evitassimo di farlo anche noi, il mondo di fuori c’irriderebbe di meno.
L’islam non centra un fico secco. Le anime meschine che corrono a mettere le mutande al Presepe danno la colpa all’islam, ma non è così. Dicono che al Presepe mettono il burqa perché sennò gl’islamici si offendono, ma sono balle. A Rozzano il preside dell’Istituto Garofani, Marco Parma, ha sostituito le recite e le carole natalizie con una “festa d’inverno” (a gennaio), ma il TG3 di sabato 28 novembre ore 14,20 ha mostrato diversi islamici locali basiti. Viviamo un mondo surreale in cui sul Presepe i post-occidentali nichilisti vengono sconfessati dai musulmani. Siamo oramai tutti Barack Obama. Ci ammazziamo da soli annunciandolo su Twitter, tanto la cosa non ci preoccupa più dello spazio di un tweet. Mi ha sempre angosciato che il creatore di Twitter sia una ditta di San Francisco che sia chiama Obvious Corporation. È questa la tragedia dell’Occidente masochista (e il preside Parma dovrebbe andare in ufficio a Rozzano mentre le famiglie dei suoi alunni, cristiani, musulmani e miscredenti, fanno le vacanza natalizie).
Marco Respinti
Versione completa e originale
dell’articolo pubblicato con il medesimo titolo
in l’intraprendente. Giornale d’opinione dal Nord,
Milano 130-11-2015
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