Mentre il mondo delle anime belle continua a stracciarsi le vesti per quel che tutti sapevano già prima, ovvero che Donald J. Trump è Donald J. Trump, Hillary Clinton procede indisturbata di abuso in abuso e di scandalo in scandalo senza che alcuno, soprattutto in Italia, scriva un rigo serio in proposito.
A far sbigottire ancora una volta è un ennesimo tassello dello “scandalo delle email”. L’antefatto è questo. Mentre era Segretario di Stato e trafficava in maniera tanto indecente quanto milionaria attraverso la Clinton Foundation, l’ex First Lady sbrigava disinvoltamente la posta elettronica istituzionale attraverso un server privato non criptato e non sicuro gestito dalla Platte River Networks (PRN). Fu a quei tempi, l’11 settembre 2012, tra l’altro, che i terroristi di Ansar al-Sharia attaccarono obbiettivi americani a Bengasi, in Libia, uccidendo l’ambasciatore J. Christopher Stevens (1860-2012), il diplomatico Sean Smith (1978-2012) e due funzionari della CIA, Glen Doherty (1970-2012) e Tyrone S. Woods (1971-2012). Quando, nel marzo 2015, si seppe che la Clinton eludeva i canali informatici ufficiali, scattò una indagine dell’FBI che volle prendere visione delle email mal gestite in quel modo ma che non lo poté fare completamente giacché migliaia e migliaia di quelle email la Clinton le sottrasse alla giustizia e pure in parte le distrusse. Nel 2016 l’FBI concluse la propria inchiesta formale sull’accaduto stabilendo che il comportamento della Clinton è stato colmo d’illeciti, eppure il suo direttore, James Comey (un ex Repubblicano voluto alla guida del Bureau dal presidente Barack Obama nel settembre 2013), ha sorprendentemente deciso di chiudere non uno ma entrambi gli occhi con un gesto che ha sorpreso e mal disposto gran parte del personale dello stesso FBI. Per questo Comey è stato ascoltato il 7 luglio dalla Commissione Giustizia della Camera federale dei deputati, ma la sua deposizione ha mostrato più buchi del groviera. Quel che però è ancora più inquietante è il prosieguo, imperniato su Cheryl D. Mills ed Heather Samuelson.
Cheryl D. Mills, classe 1965, è stata a suo tempo il consigliere legale n. 2 del presidente Bill Clinton e in questa veste lo ha difeso nel 1999 dal processo d’impeachment per spergiuro e ostruzione della giustizia seguito al “caso Monica Lewinksy”. Poi è diventata consigliere di primo piano di Hillary durante la campagna per le presidenziali del 2008 e ora nulla la separa dall’ex First Lady. Ovviamente fa parte di quel “cerchio magico” che si autodefinisce “Hillaryland”, 13 donne e un solo uomo ma gay che sta appiccicato come un francobollo all’ex First Lady sin dai tempi della prima campagna elettorale presidenziale di Bill nel 1992 e che poi ha scortato in formazione pretoriana l’Hillary senatrice federale dello Stato di New York (2001-2009), l’Hillary Segretario di Stato (2009-2013) e oggi l’Hillary aspirante presidente. Per questi motivi l’FBI ha considerato la Mills una persona certamente informata dei fatti relativi all’affaire delle email e l’ha inserita tra i sospetti.
Ebbene, a fine settembre il Bureau ha però concesso alla Mills l’immunità da qualsiasi procedimento legato a eventuali informazioni incriminanti che potrebbero essere contenute nel suo computer portatile e questo allo scopo di convincerla a rendere disponibili agl’inquirenti proprio quella macchina. Strano, anzi stranissimo poiché non ce n’era affatto bisogno: bastava infatti una citazione in giudizio (sub poena) e il sequestro di tutti i materiali ritenuti importanti. Negli Stati Uniti, infatti, il diritto è sovrano e non c’è alcun bisogno di accordi a umma umma tipo repubblica delle banane.
La medesima immunità è stata garantita dall’FBI anche a Heather Samuelson, che da anni lavora per Hillary sotto la direzione della Mills. Grazie a questo patto, la Mills e la Samuelson, che sono avvocati, hanno continuato a rappresentare legalmente la Clinton per la vicenda delle email: fa niente se 1) erano finite tra i sospetti di quello stesso caso e 2) al tempo dei fatti contestati fossero funzionari governativi implicati in azioni oggi sotto inchiesta. Non è del resto la prima volta che strettissimi collaboratori dell’ex First Lady ottengono immunità di questo tipo.
Finita? No di certo, perché il presidente della Commissione Giustizia della Camera federale, Robert W. Goodlatte, deputato Repubblicano, ha scoperto che l’accordo tra FBI da un lato e Mills e Samuelson dall’altro ha pure comportato due clausole collaterali: la prima è l’impegno dell’FBI a non indagare alcun documento relativo al caso delle email nascoste e/o cancellate dalla Clinton che porti data successiva al 31 gennaio 2015 e il secondo la promessa da parte del Bureau di distruggere, alla fine dell’inchiesta, i computer coinvolti nella vicenda. Ovviamente, né l’accordo per l’immunità né le due clausole collaterali sono stati resi pubblici. Quando Goodlatte ha scoperto i fatti, ha messo tutto per iscritto in una lettera inviata al Procuratore Generale Loretta Lynch.
E perché mai quegli accordi, si chiede Andrew C. McCarthy su National Review che di seguito sintetizzo? Quei computer sono infatti prove materiali e la legge statunitense prevede che se richiesti debbano essere prodotti. Chi ha l’autorità per richiederli è la “grande giuria”, ma il Dipartimento della Giustizia ha voluto evitato di trasformare l’inchiesta dell’FBI sulla Clinton in una inchiesta della “grande giuria” come invece avviene per tutti i casi di crimini analoghi.
Che cos’è la “grande giuria”? È quella che chissà perché in italiano siamo soliti chiamare con un francesismo ridicolo “gran giurì”; il suo compito è valutare se le prove raccolte per un caso bastino per dar inizio a un processo penale. Non è quindi la giuria, detta “piccola giuria”, che poi deciderà al processo. Nessun ordinamento di Common Law prevede più la figura della “grande giuria”, sostituita dall’udienza preliminare del giudice, tranne gli Stati Uniti.
Perché per la Clinton si è evitata l’inchiesta della “grande giuria”? Perché se fosse stata avviata, il caso sarebbero parso subito serio, cosa che però il Dipartimento della Giustizia dell’Amministrazione Obama non vuole affatto fare onde diffondere l’idea che il candidato presidente del Partito Democratico non abbia commesso alcun illecito.
Del resto, pur essendo una sospettata, la Mills è stata giudicata dall’FBI un teste cooperativo nonostante 1) abbia falsamente negato di non sapere nulla del server private usato dalla sua principale pur essendo all’epoca il capo dello staff della Clinton, 2) le prove indicano che sia stata una di coloro che ha detto alla PRN di distruggere le email immagazzinate nel server privato della Clinton, 3) i computer portatili da lei usati per monitorare la posta elettronica della Clinton contenessero montagne d’informazioni riservate e 4) si sia assicurata di ottenere l’immunità prima di consegnare agl’inquirenti il proprio computer.
Inquietante è poi il limite posto all’indagine: 31 gennaio 2015. Perché? Perché è stato nel marzo 2015 che The New York Times ha rivelato al mondo l’esistenza del server privato usato da Hillary e subito dopo la Commissione della Camera federale sugli omicidi di Bengasi ha convocato in udienza la Clinton. E anche perché è stato in quel lasso di tempo che la Mills e forse altri del “Team Clinton” hanno scambiati messaggi con Paul Combetta, il tecnico della PRN che alla fine ha materialmente distrutto le email sottratte da Hillary all’FBI nonostante egli sostenga di avere fatto tutto in piena autonomia.
Si potrebbe continuare per pagine e pagine, ma a che serve? Hillary Clinton è innocente per definizione, qualunque cosa faccia, non faccia, nasconda, manipoli. I grandi media, i grandi centri di potere, i grandi finanziatori sono tutti comunque dalla sua parte perché con lei presidente ognuno avrà il suo grande share di potere e d’introiti. È un sistema perfettamente sperimentato che funziona alla grande di fronte al quale i puritani dell’ultima ora e i pasdaran (a parole) della trasparenza e della democrazia diretta non fiatano. Un sistema marcio di giustizia politicizzata, corruzione, deviazione delle istituzioni e informazione connivente che per nascondersi fino all’8 novembre ci dà quotidianamente in pasto l’esca Trump a cui tutti, indistintamente, abboccano.
Marco Respinti
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