L’editore londinese George Allen & Uwin Ltd. pubblicò Lo Hobbit di J.R.R. Tolkien (1892-1973) il 21 settembre 1937 in 1500 copie; tra 12 mesi compirà 80 anni senza nemmeno una ruga in volto. Battendo in breccia ogni altro possibile evento celebrativo, la HarperCollins ‒ l’editore che oggi pubblica Tolkien dopo avere assorbito nel 1990 la Unwyn Hyman, evoluzione del ramo inglese della multinazionale Allen & Uwin ‒ manda in libreria un’elegante cofanetto con il facsimile della prima edizione di The Hobbit, or There and Back Again con lo stesso lettering e le stesse illustrazioni all’epoca preparate con cura certosina da Tolkien.
Sarebbe facile, anzi facilone, gridare all’ennesimo gadget commerciale. Tutt’altro. Perché la prima edizione de Lo Hobbit è una peculiarità preziosa. La versione canonica del racconto è la terza riveduta del 1966, corretta da Tolkien per rendere il testo sempre più armonico con la logica sia de Il Signore degli Anelli, nel frattempo pubblicato (1954-1955), sia della fase compositiva di allora di quei “racconti perduti” che sarebbero stati dati alle stampe solo postumi, in epitome come Il Silmarillion (1977) e in dettaglio nei 12 volumi (1983-1996) più uno di indici (2002) come The History of Middle-earth a cura del figlio Christopher. Ma la prima sostanziale revisione era avvenuta nella seconda edizione del 1951.
Tolkien cominciò a scarabocchiare quello che sarebbe diventato Lo Hobbit su pezzi di carta raccogliticci all’inizio degli anni 1930, forse persino nel 1929. Nel 1932-1933 la composizione era virtualmente conclusa. Il testo fu letto da alcuni amici, tra cui C.S. Lewis (1898-1963). Nel 1936 uno di loro, Elaine Griffiths (1909-1996), lo fece giungere all’Allen & Uwin, addirittura al titolare, Stanley Unwin (1884-1968), il quale a propria volta lo passò al figlio Rayner (1925-2000), di 10 anni, vorace lettore di fantascienza e di fantasy, promettendogli la paghetta di uno scellino se ne avesse poi redatto una scheda. La recensione entusiasta del piccolo fu il via libera a un imperituro successo mondiale. Davanti a quell’exploit inaspettato, l’editore chiese a Tolkien di scrivere subito un seguito. Il Nostro lavorava già da anni al legendarium della Terra di Mezzo, di Númenor e del reame beato degli Elfi, ma con esso Lo Hobbit non c’entrava. Era essenzialmente una fiaba per ragazzi, l’aveva pensata principalmente per i suoi figli e di per sé non era neanche destinata alla pubblicazione. Lo scrittore-filologo accettò però la proposta ritenendola l’occasione buona per pubblicare proprio il legendarium, ma interpretò la fretta dell’editore a modo proprio. Scrisse tutt’altro che un sequel, partorì 15 anni dopo Il Signore degli Anelli (a cui sperava di accompagnare le corpose saghe delle epoche precedenti) e a quel punto aveva incorporato la trama de Lo Hobbit negli eventi cruciali degli ultimi anni della sua Terza Era facendo dell’Unico Anello il focus culminante della propria creazione letteraria. Solo che nel 1947 il rigore che lo ha sempre contraddistinto gl’impose di rivedere una parte determinante de Lo Hobbit non più confacente alla narrazione de Il Signore degli Anelli.
Scrisse la nuova versione, la mandò a Stanley Unwin che friggeva sulla graticola in attesa di quel seguito che mai arrivava e per anni non ebbe risposta. Il 19 luglio 1951 se la trovò stampata su una di quelle 3500 copie che l’editore aveva mandato in distribuzione. La modifica maggiore riguarda il capitolo 5, Indovinelli nell’oscurità, quando Bilbo Baggins incontra Gollum nelle caverne delle Montagne Nebbiose. Nella versione del 1937 l’Anello è il premio che Gollum gli dà per avere vinto nella gara d’indovinelli, nella seconda del 1951 il monile maledetto passa nelle mani di Bilbo con l’inganno. Tolkien cambiò la storia rendendosi contro che la prima versione non avrebbe affatto retto gli sviluppi successivi; mai Gollum avrebbe mai ceduto l’Anello spontaneamente. Siccome però il gioco narrativo di tutto questo legendarium si regge sull’idea che Tolkien sia soltanto lo scopritore di antichi manoscritti della Terra di Mezzo che poi avrebbe tradotto in inglese moderno, non era affatto possibile cambiare un testo fingendo di nulla. E fu così che Tolkien, per bocca di Gandalf al Consiglio di Elrond (ne Il Signore degli Anelli), spiegò che la versione 1937 del capitolo 5 era soltanto il racconto bugiardo che un Bilbo irretito dall’Anello voleva accreditare (liberandosi pure dal sospetto di essere un truffatore), ma che invece lo Stregone Grigio smascherò rendendo nota la versione 1951. Oggi questo tassello, indispensabile per comprendere nel dettaglio la raffinata psicologia del legendarium, torna finalmente disponibile.
Certo che, direte voi, districarsi in questo mare magnum non è semplice. Vero. Per questo un sestante come il Dizionario dell’Universo di J.R.R. Tolkien, compilato dalla Società Tolkieniana Italiana e fresco di stampa da Bompiani (pagg. 448, euro 15) con introduzione di Gianfranco de Turris, è indispensabile. Uscito per Rusconi nel 1999 e poi per Bompiani nel 2003, questa nuova edizione aggiornata e ampliata introduce numerose voci di luoghi e personaggi tenendo conto delle opere tolkieniane nel frattempo edite in italiano e pure delle nuove acquisizioni critiche. Scrive bene De Turris che con Tolkien l’Immaginario esce finalmente dal ghetto dell’ostracismo per salire maestoso in Paradiso.
Marco Respinti
Versione originale e completa dell’articolo pubblicato con il medesimo titolo
in Libero [Libero quotidiano], anno LI, n. 272, Milano 02-10-2016, p. 25
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