Prima era palese, dopo il “Supermartedì” è ufficiale. Donald Trump ha lanciato una OPA sul Partito Repubblicano degli Stati Uniti d’America. Ma ascoltando i commenti e la valutazioni della stampa italiana nessuno potrebbe nemmeno sospettarlo; anzi, nessuno saprebbe neanche dire di cosa si tratti.
Passare una notte in bianco a inseguire i fusi orari dei risultati elettorali statunitensi dà vantaggi immensi. Si passa dalla CNN, che finge di essere un canale istituzionale per dare oggettività alla propria chiave di lettura liberal ma che comunque assicura informazione vera in presa diretta, a Fox News, che non finge nemmeno per un attimo di non essere conservatrice e che alle notizie di prima mano aggiunge poker su poker di commenti e analisi di tutto il jet set conservatore e Repubblicano, a RAI News 24, e qui casca l’asino. Tre, quattro, massimo cinque servizi ripetuti per ore e ore; commenti all’osso; aggiornamenti fatti sulle tivù, i siti e i giornali americani; inviati che intervistano i due di picche; e l’impressione netta che nessuna sappia di cosa si stia parlando. Del resto che importa, si tratta solo del Paese più potente del mondo. Gianni Riotta e Giovanna Botteri usano le parole in libertà. Dicono e ripetono “conservatori” per dire Repubblicani, ma mostrano di non avere la minima idea di quando e di come sia lecito, e a che prezzo, farlo; ogni tanto entra in scena il termine “moderato” e ti scappa da ridere pensando a un Ted Cruz o un Marco Rubio tra i “moderati” di casa nostra. Quanto tocca a lei, la Botteri definisce Bernie Sanders un “socialista annacquato” (non si sa se con rammarico) e Rubio “il più Democratico dei Repubblicani”: fortunatamente né l’uno né l’atro possono sentirla. Poi sempre a Sanders dà del liberal per distinguerlo da Hillary Clinton e allora uno si chiede cosa sia la Clinton. E persino a Trump dà del “conservatore”. Un disastro.
Torniamo alla OPA di Trump. Se avesse acceso la televisione notturna italiana, il miliardario newyorkese avrebbe desistito, ma invece sta oltre l’Atlantico e quindi insiste caparbio. Tracciamo una mappa.
Il conservatorismo statunitense e il Partito Repubblicano sono due cose diverse. Nascono diversi e diversi crescono. Per parecchio tempo nemmeno si guardano. Poi qualcosa cambia, qualcosa di grosso, d’importante, e così la domanda e l’offerta s’incontrano. Il conservatorismo necessita di una rappresentanza politica e dentro il Grand Old Party (GOP, l’altro nome del Patito Repubblicano) qualcuno abbisogna di un elettorato. Il connubio si celebra contribuendo a irrobustire l’appena nato movimento conservatore (come distinto dal pensiero conservatore in quanto tale) e a iniziare a renderlo incisivo sul piano concreto. Ma dentro il GOP avviene lo sconvolgimento, perché, di per sé, il GOP non è affatto un partito conservatore. Siamo negli anni 1960. Il nome d’obbligo qui è il senatore Barry M. Goldwater (1909-1998). Lo sconvolgimento prosegue e il tentativo di trovare la giusta quadra al connubio tra il GOP (cioè una sua parte, all’inizio nemmeno maggioritaria) e il movimento conservatore anche, finendo per generare il primo esperimento, un successo. Siamo negli anni 1980, e alla Casa Bianca arriva Ronald Reagan (1911-2004).
A quel punto l’esperimento ottiene conferma sperimentale, più di una, ripetibile, osservabile, descrivibile, e quindi l’ipotesi, a norme di metodo galileiano, diventa teoria scientifica. Senza il movimento conservatore il GOP perde; con i conservatori vince. Tutte le volte che ha vinto o ha perso è andata sempre così. La saldatura tra GOP e movimento conservatore viene dunque scaldandosi o raffreddandosi a seconda che il personale del GOP al comando, o se non altro quello almeno disponibile, sia sensibile al conservatorismo oppure a esso allergico. È la storia degli otto anni della presidenza di George W. Bush Jr.
Il movimento a fisarmonica di avvicinamento e di allontanamento tra GOP e conservatori, movimento che dipende dal personale in determinati frangenti disponibile, prosegue ciclico e un po’ frustrante, ma come tutte le cose che si ripetono lascia il segno, crea un solco, genera persino una tradizione. Nel caso americano di specie la fisarmonica sposta progressivamente il proprio movimento di attrazione e repulsione sempre più a destra, sia impercettibilmente (cioè fisiologicamente) sia per merito di personale politico cosciente. E di conseguenza l’ampiezza del movimento a soffietto si restringe. Alla fine la fisarmonica non suona più, il movimento conservatore ha preso possesso del GOP e l’allontanamento periodico tra i due cessa. Il GOP non è un partito conservatore tout court, ma al suo interno esistono solo conservatori. È la storia del dopo Bush Jr. fra “Tea Party”, vittorie e sconfitte elettorali.
Un partito così però ha problemi seri a relazionarsi al proprio elettorato. Se l’elettorato è quello conservatore (anche perché altrimenti non si vincerebbe), e i candidati sono tutti conservatori (pur di scuole e sfumature diverse), ogni tornata di primarie è allora una guerra fratricida, un massacro.
Il problema si è presentato per la prima volta in tutta la sua rotondità nel 2012. Mai come in quel momento storico il GOP fu rappresentato da conservatori, e persino animato da cattolici. Herman Cain, Michele Bachmann, Rick Santorum, Newt Gingrich, Ron Paul, Rick Perry, Mitt Romney erano tutti conservatori sul piano fiscale, sul piano della politica economica, sul piano della politica estera, sui “princìpi non negoziabili”. Tutti erano sinceramente e pubblicamente religiosi, e Santorum e l’ex presidente della Camera federale Gingrich (per conversione adulta) cattolici, così come cattolico era Paul Ryan, candidato alla vicepresidenza, e pure John Boehner, divenuto presidente della Camera nella medesima tornata elettorale, e da poco sostituito dall’appunto cattolico Ryan. Il GOP, questo GOP, perse le elezioni perché non riuscì a trovare una guida unitaria. Era un problema di crescita.
Oggi però la situazione si ripete identica, e quindi è più grave. Tutti sono buoni conservatori, Jim Gilmore, Mike Huckabee, Carly Fiorina, Rand Paul, Santorum, Jeb Bush, Ben Carson, John Kasich, Chis Christie (che pure dopo il ritiro appoggia Trump), Marco Rubio e Ted Cruz. E ancora non riescono a trovare una sintesi efficace che permetta la vittoria. Un tempo i nemici erano i liberal, diffusissimi anche tra i Repubblicani; oggi che l’opera di bonifica è stata compiuta, i conservatori del GOP si divorano l’un l’altro. Ed è qui che entra in scena Trump.
Trump è un alieno. Viene da altrove. Con questo GOP e con i conservatori non c’entra, ma è astuto. Sa di potere approfittare della situazione e quindi gioca le proprie chance. Uomo di minoranza (ha circa un terzo dei voti delle primarie) e divisivo, sta disfacendo ciò che faticosamente era stato costruito. La notte del “Supermartedì” ha gongolato dicendo che con lui il Partito Repubblicano si sta allargando. Forse è vero, ma non è una buona notizia. L’omogeneità culturale del GOP raggiunta a caro prezzo in anni sta cedendo sotto i suoi colpi. Ieri i nemici dei buoni Repubblicani erano interni, oggi vengono da fuori. Il tentativo di Trump (chissà quanto cosciente) è quello di disfare una forza politica che, riconciliatasi con i custodi dell’autentico spirito della nazione, sta, per la prima volta nella storia americana, tentando la restaurazione, il ritorno al principio e fondamento dell’esperienza storica statunitense, e dunque al suo senso profondo. La sua forza è quella di riuscire a sfruttare malanimi, malesseri e difficoltà reali vendendo a parte dell’elettorato conservatore del GOP un conservatorismo falsificato che risponde alla rivoluzione di Barack Obama con una rivoluzione di segno contrario, populista. La debolezza dei suoi avversari è quella di non essere ancora usciti dalla fase rissosa della crescita e di non riuscire ancora a rendersi fino in fondo contro che il grande referendum sull’OPA Trump che l’auspicabile riunificazione tra le anime conservatrice del GOP deve indire ora è la scelta tra la rivoluzione e la contro-rivoluzione.
Il GOP deve portare a casa la pelle in fretta, e per domani immaginare a come blindare il partito. Per esempio indicendo “primarie conservatrici interne” per selezionare il condottiero conservatore capace di unire tutti i reggimenti e sfidare gli hyksos che vengono da fuori. Non è un’utopia. Esisteva la Christian Coalition che questo mestiere iniziò a farlo, esistono oggi realtà come la Conservative Political Action Conference e il Values Voter Summit. Nessuno lì potrà tentare alcuna scalata perché il movimento sorveglia e non dorme mai. I conservatori del GOP debbono insistere, perfezionare, rigorizzare. La posta in gioco è inestimabilmente più importante degli sberleffi di Trump.
Marco Respinti
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