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Due ricercatori del Weizmann Institute of Science di Rehovot, in Israele, Shmuel Pietrokovski e Moran Gershoni, hanno reso pubblici i risultati di un importante studio genetico nato come indagine sulle cause della sterilità umana. Ne emerge che ben 6500 geni si attivano in modo diverso nei maschi e nelle femmine, anche in reazione ai farmaci, poiché, a seconda che appunto appartengano a un maschio o a una femmina, quei geni sintetizzano diversamente le proteine. Per la scienza si tratta di un’acquisizione tanto sorprendente quanto importante.
Ovvio, infatti, che il dimorfismo sessuale tra maschio e femmina umani, o certe caratteristiche tipiche dell’uno e dell’altra, siano dovute a un modo diverso di esprimersi di geni uguali, ma i risultati ottenuti dalla ricerca del Weizmann Institute si spingono più in là. Si parla infatti di differenze importanti, talora decisive, nel determinare il modo di essere fisico, e appunto persino l’insorgere di talune patologie con la conseguente responsività relativa ai farmaci atti a curarle, del maschio e della femmina, identici nel loro essere umani diversi l’uno dall’altra.
Tracciando dunque una mappa dettagliata di questi geni i due ricercatori israeliani hanno dovuto arrendersi ad alcune evidenze che non obbediscono affatto a certe presunzioni correnti. Per esempio quelle legate all’ipotesi evoluzionista, oggi data per scontata ma che evidentemente – così si è scoperto al Weizmann Institute – così scontata non è. Constata infatti Gershoni che «più un gene è specifico a un sesso e meno su quel gene è visibile la selezione». Tradotto, significa che l’azione della selezione naturale debitamente “spiegata” negli schemi intellettuali evoluzionistici come motore della speciazione per mutazione genetica non viene invece riscontrata dall’osservazione scientifica degli esseri viventi.
Di più: più si ha a che fare con individui concreti, tanto unici quanto irripetibili proprio nella loro individualità (ben denotata, per esempio, dalla sessualità: un maschio è sempre un maschio, e non è interscambiabile ad libitum con una femmina, e viceversa, con buona pace dell’ideologia di gender), più l’effetto della selezione naturale come motore di speciazione per mutazione genetica non è attestato.
Un interessante servizio su questa scoperta trasmesso lunedì 8 maggio da TGR Leonardo evidenzia bene l’impasse. La diversa reattività mostrata dai geni a seconda del sesso, dice la giornalista Cinzia di Cianni, «[…] dimostra che le differenze tra i sessi vanno ben oltre quelle più appariscenti, fino a delineare una storia evolutiva interconnessa ma distinta». Due punti: primo, le differenze tra maschio e femmina sono intrinseche alla loro natura specifica di maschio e di femmina, tanto che persino la loro natura biologica ugualmente umana è (parzialmente) diversa a seconda del sesso.
Secondo, l’“evoluzione” dell’essere umano è un enigma enorme, tanto che bisogna postularne non una bensì due, una per i maschi e l’altra per le femmine, evoluzioni in qualche modo “parallele” eppure distinte. Conclusione: l’evoluzione è un’astrazione cui la realtà si ribella e che va dunque continuamente rimodulata, ma ogni rimodulazione equivale a una smentita. Tant’è che alla fine è costretta ad affermarlo la giornalista stessa, la quale, sintetizzando la ricerca del Weizmann Institute, dice: «Dal punto di vista evolutivo, la cosa non ha senso. Ogni mutazione che provoca la riduzione della prole minacciando la sopravvivenza della specie dovrebbe essere eliminata dalla selezione naturale, ma lo studio mostra invece che più grandi sono le differenze di espressione di un gene tra uomini e donne, minore è la selezione sul quel gene, e questo vale soprattutto per gli uomini. Ecco perché, ad esempio, le mutazioni che ostacolano la formazione dello sperma» – la ricerca è stata avviata appunto per indagare le cause della sterilità umana – «non scompaiono come ci si aspetterebbe».
Insomma, il postulato secondo cui l’evoluzione avanzerebbe per effetto di una selezione naturale che a livello genetico premierebbe le caratteristiche più adatte alla sopravvivenza costringendo quelle meno adatte all’estinzione si comporta invece in modo contrario. Colpo al cuore del dogma evoluzionista centrale. In natura l’evoluzione non si comporta affatto come sta scritto nei libri degli evoluzionisti. Lo afferma la scienza “evoluzionista”. Dal punto di vista evolutivo, la cosa non ha senso: lo afferma la RAI.
Marco Respinti
Un’équipe di cinque specialisti, quatto cinesi e uno inglese, ha compiuto una scoperta clamorosa. Nelle rocce sedimentarie della provincia di Shaanxi, nella Cina centrale, hanno rivenuto una quarantina di fossili di un esserino di un millimetro la cui forma a sacchetto e la spropositata bocca “coronata” funzionante anche da ano gli ha guadagnato il nome scientifico Saccorhytus coronarius. Visse circa 540 milioni di anni fa, al tempo dell’“esplosione” della vita nel periodo Cambriano e appartiene al superphylum dei Deuterostomia, una delle categorie biologiche fondamentali con cui viene descritto il regno animale.
Il rapporto scientifico del ritrovamento è stato sottoposto al periodico specializzato Nature a metà di agosto, ha superato la peer review in dicembre e il 30 gennaio è stato pubblicato, rimbalzando immediatamente sulla stampa. Come mai? Perché la scoperta è sensazionale: dai Deuterostomia si sono infatti sviluppati, dicono gli studiosi, tutti i vertebrati; tra i vertebrati c’è anche l’uomo; essendo il Saccorhytus cinese il più antico di tutti, è quindi partendo da questo microrganismo senz’ano che si è giunti a san Tomaso d’Aquino, Albert Einstein e Belén Rodriguez. In esso si è infatti «identificato il più antico progenitore dell’uomo», come ha lanciato l’agenzia ANSA e come ugualmente hanno sparato la Reuters, The Guardian, The New Scientist, Wired, la Repubblica, Forbes, TGR Leonardo, il Post, Focus e così via. In italiano c’è già persino una voce di Wikipedia.

Una ricostruzione del “Saccorhytus coronarius” basata sui ritrovamenti fosili originali e realizzata il 30 gennaio 2017. Courtesy Illustration by Jian Han/Handout via REUTERS
Perché gli scienziati dicono un’enormità del genere? Perché l’hanno letta in Charles Darwin, stupefatto perché al principio vi furono «[..] poche forme» di vita o anche «[…] una sola» e poi «[…] si svilupparono da un principio tanto semplice e ancora si sviluppano infinite forme sempre più belle e meravigliose». È l’ultima frase del celeberrimo On the origin of species by means of natural selection, or the preservation of favoured races in the struggle for life, ovvero L’origine delle specie, frase immutata in tutte le sei edizioni rivedute che il suo autore pubblicò dal 1859 al 1876. Ma è un trucco. L’assunto iniziale è infatti solo una ipotesi. Che il Saccorhytus coronarius, o chi per esso, sia l’antenato di tutti i vertebrati e quindi anche di un vertebrato come l’uomo è vero solo se è vera l’ipotesi evoluzionista in base alla quale le specie viventi nuove sono modificazioni genetiche dalle antiche lungo un albero filogenetico che si ramifica da un antenato comune. Questo è però proprio ciò che non mai stato dimostrato. Darwin lo dice, ma non ve n’è prova. Non un passaggio evolutivo, non uno snodo, non un anello di congiunzione è stato attestato a norma di metodo scientifico. Nessuna traccia fossile esiste di “esseri intermedi” o di organi in trasformazione. Anzi, i fossili restituiscono solo resti interi o parziali di individui perfettamente compiuti senz’alcun gradualismo.
Uno degli scopritori del Saccorhytus è il celebre paleontologo di Cambridge Simon Conway Morris, un “concordista” che cerca di cristianizzare l’evoluzionismo come del resto faceva all’inizio lo stesso Darwin salvo poi perdere completamente la fede a causa delle sue infondate supposizioni biologiche, come si evince chiaramente dalla sua autobiografia, The Autobiography of Charles Darwin 1809-1882. With the original omissions restored. Edited and with appendix and notes by his granddaughter Nora Barlow (Collins, Londra 1958). Dice Conway Morris: «È difficile ovviamente tracciare una precisa linea di discendenza tra noi uomini e il Saccorhytus coronarius, tuttavia non c’è dubbio che possiamo realmente considerarlo un nostro antichissimo antenato»: «è difficile» significa impossibile, ma «non c’è dubbio» perché… «non c’è dubbio».
Anzi, lo stesso concetto di “esplosione del Cambriano”, implicante la comparsa improvvisa e strutturata della vita senza progenitori, imbarazzantissimo per l’evoluzionismo, può essere del tutto archiviato. Come? Affermando che anche prima del Cambriano c’era vita e così finalmente risolvendo l’annoso «dilemma di Darwin».
Ebbene, sull’ipotesi di vita precambriana infervora da tempo il dibattito. Mettiamo che certe tracce precambriane siano davvero vita o che certe tracce di vita siano davvero precambriane. Tutto sta però nelle definizioni. I fossili che si scoprono non hanno l’etichetta e lo stesso le suddivisioni della scala dei tempi terrestri. La nomenclatura tassonomica e geologica è coniata dagli studiosi in base a determinati parametri. Si tratta cioè di nomi arbitrari, scelti in base a certi elementi d’identificazione. Per esempio “Pitecantropo” significa letteralmente “uomo-scimmia”, ma non ha mai mostrato la carta d’identità: fu chiamato così poiché il suo scopritore, l’antropologo neerlandese Eugène Dubois (1858-1940), voleva fargli recitare una parte ben precisa. Infatti quei nomi mutano, scompaiono, vengono accorpati. Il “pitecantropo” oggi si chiama Homo erectus e il celeberrimo Quaternario di quando studiavamo da piccoli è oggi declassato e completamente riformulato. Così anche il Cambriano, che spacca in due la storia tra deserto e vita, è una convenzione. Chi si occupa di stabilire quando un periodo geologico inizia e finisce è la Commissione Internazionale di Stratigrafia, la quale discute e discute e discute fino a che non raggiunge un accordo sui criteri d’individuazione di un intervallo temporale: la presenza di fossili detti “guida” o di certe rocce. Ma è il contrario di una scienza esatta. La durata di un periodo può infatti variare a seconda del luogo geografico e i periodi si sovrappongo abbondantemente; l’individuazione di nuovi criteri più stringenti può rendere obsolete le definizioni e superate le suddivisioni; oppure specie viventi ritenute originarie di una data epoca possono rivelarsi più antiche. È un caso particolare e concretissimo del famoso giro mentale descritto dall’epistemologo statunitense Thomas Samuel Kuhn (1922-1996) ne La struttura delle rivoluzioni scientifiche, del 1962 (trad. it., Einaudi, Torino 2009): nuove scoperte generano nuovi paradigmi interpretativi.
Vale a dire: se prima del Cambriano vi erano esseri viventi, bisognerà rivedere il concetto di Cambriano o retrodatare l’esplosione della vita. Ma la questione resta: nel Cambriano o altrove, la vita è sorta senza derivare da altro. Potremo infatti sempre trovare fossili più vecchi di quelli che ora riteniamo i più antichi, ma il “fossile zero” che si trasforma nell’albero filogenetico manca all’appello. Finché mancherà, saremo sempre davanti all’esplosione della vita “dal nulla”, cambriana o no che sia. E finché mancheranno le prove empiriche della trasformazione delle specie viventi le une nelle altre, il Saccorhytus coronarius cinese non sarà affatto il progenitore dell’uomo. Non basta dargli un nome o un titolo di giornale per rendere scientifico l’evoluzionismo.
Marco Respinti
La nascita della vita sulla Terra, milioni e milioni di anni fa, è un mistero di gratuità e di bellezza che nessun meccanismo semplicemente naturalistico è in grado di spiegare.
Tutto l’essenziale si compie di fatto durante il Cambriano (tra circa 541 e 485 milioni di anni fa) e l’Ordoviciano (tra circa 485 e 444 milioni di anni fa), che sono il primo e il secondo periodo dell’era Paleozoica, la prima dell’eone Faneorozoico. L’immenso abisso della “notte dei tempi” precedente viene descritto sulla scala dei tempi geologici in tre eoni (Adeano, Archeano, Proterozoico) raggruppati nel superone Archeozoico detto anche Precambriano. Gli ordini di grandezza temporali sono enormi e incommensurabili: l’intero Precambriano misura infatti quattro miliardi di anni, laddove il Fanerozoico che inizia con il Cambriano e l’Ordoviciano “solo” mezzo miliardo. Come suggerisce chiaramente la nomenclatura, è il Cambriano il turning point decisivo che segna il “prima” e il “dopo”. Perché? Perché quello è il “momento” in cui la vita sorge “improvvisamente” in tutte le proprie varietà e magnificenza. In un tempo geologicamente assai limitato, compaiono cioè tutti gli attuali phyla (un phylum, un tempo detto “tipo”, definisce la classificazione di base di gruppi di animali estinti o attuali) forse a eccezione delle spugne. Prima invece non c’è praticamente alcunché; la natura di alcuni ritrovamenti che testimonierebbero l’esistenza di organismi pluricellulari prima del Cambriano è infatti molto dubbia e comunque ampiamente discussa. I phyla del Cambriano non sono insomma mutazioni di creature precedenti. Non hanno antenati, non hanno progenitori e non sono l’uno l’evoluzione dell’altro; sono semplicemente se stessi.
È quella che i biologi chiamano “esplosione” del Cambriano. Nell’Ordoviciano si verifica poi il secondo grande balzo: la vita si diffonde, quasi quadruplicando il numero di specie e di generi che pure si distribuiscono più globalmente. Dopo il “big bang”, la radiazione. I biologi parlano di Grande Evento di Biodiversificazione dell’Ordoviciano reso con la sigla G.O.B.E. (dalla dizione canonica inglese “Great Ordovician Biodiversification Event”). Un particolare rende peraltro la questione ancora più affascinante. Tra l’esplosione cambriana e la radiazione ordoviciana non c’è sviluppo lineare, ma catastrofe. Alla fine del Cambriano moltissime specie si estinguono, e lo stesso faranno altre alla fine dell’Ordoviciano, ma ciò che non si estingue sono i phyla, definiti una volta per tutte. Sono proprio i fossili a testimoniare che l’impianto della vita non muta e che i viventi non si evolvono saltando da un phylum all’altro.
Ebbene, il riduzionismo naturalistico cerca di spiegare la comparsa improvvisa della vita sulla Terra e la sua diffusione diversificata come l’effetto di condizioni ambientali particolari o il prodotto di eventi cosmici accidentali in grado di svelare che il presunto mistero è solo un meccanismo. Se in genere per l’esplosione cambriana si parla dunque di un fantasioso e indimostrato “brodo prebiotico” (nonostante le dimostrazioni scientifiche dell’impossibilità di generare la vita dalla non-vita), per la radiazione ordoviciana si tira in ballo la pioggia di meteore caduta sul nostro pianeta in seguito a uno scontro tra asteroidi che, alterando l’atmosfera e il clima, avrebbe modificato gli ecosistemi marini e quindi dato impulso alla grande varietà. La formulazione più compiuta di questa ipotesi è quella ultimamente offerta dal geologo svedese Birger Schmitz, apparentemente confermata da una serie di recenti conferme empiriche tanto importanti da portare a interessarsi dell’argomento anche un organo di comunicazione di massa come il quotidiano la Repubblica. Ma non è affatto così.
Sull’Ordoviciano piovvero sì meteoriti (come le ricerche di Schmitz hanno riscontrato), ma queste con la biodiversificazione non c’entrano. I frammenti della grande collisione cosmica caddero infatti sul nostro pianeta dopo la radiazione della vita, un paio di milioni di anni più tardi. A stabilirlo categoricamente sono i rilevamenti millimetrici effettuati da un équipe congiunta dell’Università svedese di Lund (la medesima di Schmitz) e dell’Università danese di Copenhagen guidata dal geologo Anders Lindskog, che, proprio citando la formulazione classica della teoria delle meteoriti del collega Schmitz, dimostra l’errore di valutazione dandone comunicazione su Nature, ripreso da Le Scienze.
Insomma, come sulla Terra sia esplosa e grandiosamente si sia diffusa la vita in tutta la sua varietà nessuno scienziato sa dirlo. Le ipotesi vengono formulate per essere smentite dalla ricerca. Per certo i fortunali cosmici non c’entrano e la bellezza del mistero permane.
Marco Respinti
Le Grotte di Postumia sono un meraviglioso complesso di caverne a stalattiti e stalagmiti che il fiume Pivka scava per circa 21 chilometri (quelli scoperti sino a oggi da che si cominciò nel 1818) nel sottosuolo dell’omonima cittadina della Slovenia. Fra i tanti spettacoli che offrono al visitatore uno è davvero singolare: il Proteus anguinus, un anfibio caudato classificato nel 1768 dal biologo austriaco di origine italiana Josephus Nicolaus Laurenti (1735-1805). Può raggiungere i 25-30 centimetri di lunghezza, è raro e quindi è iperprotetto. Vive solo nelle acque del sistema carsico delle Alpi Dinariche che costeggia l’Adriatico Orientale dal bacino dell’Isonzo goriziano-triestino alla Slovenia meridionale proseguendo attraverso la catena costiera dell’Istria e della Dalmazia croate fino alle montagne marittime della Bosnia occidentale (di recente è stato registrato anche nella parte occidentale del Montenegro). In America Settentrionale ha dei cugini, le sette specie in cui si suddivide il genere Necturus che appunto con il genere Proteus forma la famiglia dei Proteidae, originaria del periodo Miocene (tra circa 23 milioni e poco più di 5 milioni di anni fa).
Stante la scarsità di cibo (vive d’insetti e di piccolissimi crostacei), può campare senza nutrirsi per periodi enormi: perfino una decina di anni. Non ha occhi, inservibili al buio, sostituiti da organi lievemente fotosensibili coperti da uno spesso strato di pelle. E la sua epidermide senza pigmentazione è trasparente (si scorgono gli organi interni), rosacea solo per riflesso quando lo s’illumina (in Slovenia lo hanno soprannominato “pesce uomo”). E questo perché? Perché il proteo sarebbe la dimostrazione più palese dell’evoluzionismo, l’esito per mutazione genetica del lungo processo con cui un essere in origine diverso dall’animaletto attuale (cioè vedente e pigmentato) avrebbe violentato la propria biologia per sopravvivere in un habitat scomodo. L’ambiente avrebbe cioè costretto il suo genoma a produrre caratteri del tutto nuovi che poi, una volta selezionati solo quelli utili, sarebbero divenuti ereditari evolvendolo. Mai esposto alla luce, il proteo avrebbe progressivamente perso gli occhi e mutato la pelle non più bisognosa di protezione, anzi strategicamente più utile al mimetismo se incolore. Ma c’è più di un intoppo.
Il primo è che l’intero assunto è solo un enunciato ipotetico. Nessuno sa documentare biologicamente come la pressione ambientale possa indurre novità inedite nel DNA. L’abate Gregor Mendel (1822-1884) ha descritto la regola con cui nelle specie si trasmettono i caratteri ereditari dominanti e recessivi già presenti nel corredo genetico, mostrando che la ricombinazione di quello che nel 1953 si sarebbe scoperto essere il DNA non avviene casualmente mediante trasformazione dell’informazione genetica in qualcosa che prima non c’era, bensì attraverso un’alternanza matematica di caratteri già tutti e sempre presenti nel corredo genetico di partenza (che tra l’altro spiega perché i figli sono sempre diversi dai genitori). La pietra tombale sulla questione l’ha posta il biologo e botanico tedesco Friedrich Leopold August Weismann (1834-1914), peraltro evoluzionista, che confutò definitivamente la pretesa ereditarietà di caratteri acquisiti inesistenti nel genoma quando, nel 1883, tagliò le code ad alcune coppie di topi, le incrociò e constatò che la prole nasceva con code regolari e che lo stesso facevano i loro discendenti per diverse generazioni. Così facendo accertò che i responsabili della trasmissione dei caratteri ereditari sono le cellule germinali, ovvero i gameti, le cellule sessuali, e non quelle somatiche. È la cosiddetta “barriera di Weismann”, che impedisce alle variazioni indotte dall’ambiente di andare oltre il singolo vivente che le subisce: le informazioni ereditarie si muovono cioè solo dai geni che le posseggono alle cellule somatiche, mai in senso contrario. Diverso è invece il caso del polimorfismo, quando uno stesso genotipo può dare vita a fenotipi diversi: qui appunto la potenzialità mendeliana di un carattere latente è già tutto insita nel DNA della specie e dell’individuo. Celebre è l’esempio delle falene punteggiate delle betulle.
Il secondo intoppo è che si fa presto a parlare di mutazioni genetiche, ma esse sono sempre e solo patologiche (sempre degenerazioni d’informazioni genetiche esistenti, mai comparsa di nuove ancorché morbose). Non possono cioè affatto essere il motore dell’evoluzione, come ha documentato il celebre studio L’évolution du vivant: matériaux pour une nouvelle théorie transformiste (Albin Michel, Parigi 1973) di Pierre Paul Grassé (1895-1985), zoologo francese neo-lamarckiano per ciò stesso attentissimo alle variazioni dei viventi e all’impatto ambientale.
Il terzo è però quello più critico. Perché del Proteus anguinus esiste un parente diverso, scoperto nel 1986 nella regione slovena della Carniola Bianca (Bela krajina): un parente dotato di occhi sviluppati e di epidermide pigmentata di nero che per questo nel 1994 i biologi Boris Sket, sloveno, e Jan Willem “Pim” Arntzen, neerlandese, hanno identificato come la sottospecie Proteus anguinus parkelj riclassificando l’altra come la sottospecie Proteus anguinus anguinus. Ora, Sket e Arntzen affermano che il Parkelj vedente e nero presenta differenze genetiche con l’Anguinus cieco e trasparente di Postumia, ma non con l’Anguinus cieco e trasparente delle da lui poco distanti grotte di Stična. In questo modo però il proteo di Stična dovrebbe essere contemporaneamente sia diverso sia uguale a quello di Postumia: i due biologi non ne fanno infatti né una sottospecie né tantomeno una specie a sé, e per tutti i tassonomi l’Anguinus è e resta l’unica specie del genere Proteus nonché l’unica europea della famiglia Proteidae. Persino piccole differenze genetiche non determinano cioè esemplari in essenza diversi e talora nemmeno varianti. Non a caso qualche studioso sostiene che il proteo vedente e nero sia solo una varietà (esempio di polimorfismo) di quello (unico) cieco e trasparente. Sket e Arntzen comunque non ci stanno e aggiungono che il Parkelj è classificato ora come sottospecie solo per prudenza, in verità forse meritando addirittura lo status di specie nuova).
Sia come sia, tutti i protei delle Alpi Dinariche vivono perennemente al buio e si cibano quando capita. Eppure quello nero e vedente non si è evoluto in quello cieco e trasparente. Se la selezione naturale non ha penalizzato il primo, la presunta evoluzione del secondo è l’adattamento migliorativo di quale animale? Protei in sé simili ma con apparati visivi tanto diversi che convivono nel medesimo ambiente; ennesimi “fossili viventi” identici oggi a com’erano in origine e a come sono stati per milioni di anni; la genetica che dice una cosa e assieme il suo contrario; nessuna trasformazione della specie per selezione: insomma, un’altra cantonata del neodarwinismo.
Marco Respinti
La mela di Newton, estensione web dell’Almanacco della scienza di MicroMega, Telmo Pievani, responsabile entusiasticamente darwinista sia del blog sia dell’”Almanacco”, pubblica l’articolo La falena delle betulle sbaraglia i creazionisti. Il caso è quello, citato in ogni libro di testo, della falena punteggiata delle betulle, Biston betularia, in inglese peppered moth. Nel distretto industriale della Manchester ottocentesca si sarebbe scurita imitando le betulle imbrunite dalla fuliggine e dalle piogge acide causate dall’inquinamento della Rivoluzione Industriale onde continuare a nascondersi dai predatori. Per Pievani (che per tutto l’articolo si produce in una prosa inutilmente sardonica) è uno dei «[…] tantissimi esempi probanti un’evoluzione darwiniana in atto» e un «[…] archetipo della spiegazione darwiniana» per effetto di un articolo comparso sul numero datato 2 giugno della prestigiosa rivista Nature, a cui vanno certamente aggiunti un secondo articolo e l’editoriale “benedicente” che Pievani non cita. Pievani sunteggia il primo spiegando che un’équipe formata da otto specialisti dell’Istituto di Biologia integrativa dell’Università di Liverpool e uno del Wellcome Trust Sanger Institute di Hinxton, in Inghilterra, «[…] ha scoperto che la mutazione all’origine del melanismo industriale in Inghilterra consiste nell’inserzione di un grosso elemento trasponibile nel primo introne del gene cortex (preposto alla divisione cellulare, ma coinvolto anche nel mimetismo attraverso la sua azione sullo sviluppo delle ali delle falene)», un “gene saltatore” responsabile della novità adattativa. Ovvero: un pezzo del DNA che salta da una parte all’altra del genoma è finito dentro un certo gene influenzandone il comportamento.
Questa però non è affatto «evoluzione darwiniana in atto». Il rimescolamento delle informazioni genetiche esistenti in una specie è infatti cosa completamente diversa dalla comparsa dal nulla d’informazioni genetiche nuove. I due fenomeni sono noti come microevoluzione e macroevoluzione. La prima è la variabilità interna a una specie, la seconda la nascita di una specie completamente nuova per trasformazione sostanziale di una vecchia (speciazione). Li divide l’abisso che corre tra un fatto osservato e un’ipotesi mai provata.
Del resto le falene chiare e scure coesistono: non sono una specie trasformata in un’altra. Quella scura (carbonaria) non è un’altra falena; è la stessa falena chiara (typica) che sviluppa appieno una possibilità prima attuata in modo limitato: è detta “punteggiata” proprio perché il pigmento scuro c’è benché limitato ad aree specifiche (i puntini neri sulle ali). Il fenomeno è ben noto e si chiama polimorfismo. Ne sono responsabili gli alleli, le due o più forme alternative del medesimo gene che si trovano nella stessa posizione su ciascun cromosoma omologo. Controllano lo stesso carattere, ma possono portare a risultati quantitativamente o qualitativamente diversi: la Donax variabilis, un mollusco bivalve, esiste in varie forme diversamente colorate; le pantere nere sono solo giaguari e leopardi melanici. La ricerca della succitata équipe di scienziati ha dunque scoperto il “gene saltatore” che rende scure le falene. Chapeau. Ha scoperto anche la data del suo “salto” nel genotipo di quei lepidotteri, circa il 1819, molto prima (30 generazioni, stante che il ciclo riproduttivo delle falene si ripete ogni anno) dei primi rilevamenti di fenotipi scuri, verso il 1848, cioè prima anche di una presenza massiccia di fabbriche. Chapeau. Dunque la comparsa di una nuova specie per adattamento agli effetti dell’inquinamento non c’è e la mutazione mimetica per sopravvivere nemmeno (le falene non riposano sui tronchi degli alberi, ma sui ramosi frondosi più alti e gli uccelli le predano soprattutto in volo): per quale motivo si dovrebbe allora parlare di evoluzionismo?
Negli uomini accade la stessa cosa. La melanina, che dà la pigmentazione estesa a tutto il corpo degli africani subsahariani, è presente in tutti gli uomini; è quella che, stimolata dalla radiazione solare, è responsabile dell’abbronzatura estiva dei bianchi (l’assenza totale di melanina provoca infatti negli uomini l’albinismo, che ha caratteri paragonabili a quelli di una patologia). I neri sono geneticamente uguali ai bianchi ma la loro cute è più adatta alla vita in un preciso contesto. La pelle nera protegge dai melanomi, che sono mutazioni genetiche (patologiche come tutte le mutazioni genetiche) indotte dai raggi ultravioletti; motivo per cui d’esatte i bianchi si cospargono di protettivi solari.
Ogni presunta prova fornita dai neodarwinisti è insomma sempre e solo la constatazione di un caso di variabilità interna a una specie (microevoluzione), mai di speciazione dal nulla (macroevoluzione). Nessuno infatti mette oggi in dubbio la variabilità e la selezione naturale, nemmeno i più incalliti tra i creazionisti come dicono proprio i più incalliti tra i creazionisti (anche se si può legittimamente contestare la felicità dell’espressione). La selezione è osservabile: praticata dall’allevatore, dall’agricoltore o da un “attore” ecologico diverso. Ma è una scelta limitata entro un ambito dato, non la produzione dal niente di geni nuovi. Lo scrive l’équipe scientifica nell’articolo citato da Pievani: «le nostre scoperte colmano una sostanziale vuoto di conoscenza riguardo l’esempio-simbolo del cambiamento microevolutivo, aggiungendo un ulteriore livello di comprensione del meccanismo di adattamento in risposta alla selezione naturale». Nell’introduzione all’edizione del 1972 de L’origine delle specie di Darwin, lo zoologo evoluzionista inglese Leonard Harrison Matthews (1901-1986) ha scritto che gli esperimenti sulle falene «dimostrano meravigliosamente la selezione naturale […] in atto, ma non mostrano l’evoluzione in divenire; perché, per quanto le popolazioni possano variare nel numero di esemplari chiari, intermedi o scuri, tutte le falene rimangono, dall’inizio alla fine, Biston betularia». Niente evoluzionismo, il caso è archiviato da tempo; quella pubblicata da Nature è una bella storia che parla di altro.
Marco Respinti
L’evoluzionismo è la spiegazione della nascita e dello sviluppo della vita sulla Terra così come ipotizzato dal naturalista inglese Charles Darwin e in seguito elaborato attraverso la cosiddetta “Teoria sintetica”. Suoi perni centrali sono la “selezione naturale”, il “caso” e la necessità di tempi geologici enormemente lunghi. Ma nulla di tutto ciò è osservabile empiricamente: darwinismo e neodarwinismo si sottraggono dunque sistematicamente alla necessaria verifica a norma di metodo scientifico. Le affermazioni evoluzioniste sono peraltro lacunose e contraddittorie, e a volte persino truffaldine come nel caso di certi reperti tanto famosi quanto falsi. È un tema su cui si scatena la propaganda e infuria la battaglia culturale. Se infatti l’evoluzionismo radicale avesse ragione, Dio non servirebbe.
I Quaderni del Timone A38
© 2016 I.d.A. – Istituto di Apologetica, Via Benigno Crespi 30/2 2015 Milano
ISBN 978-88-97921-16-5
info@iltimone.org
INDICE
Introduzione
Capitolo I. Scienza e ipotesi evoluzionista
Il metodo scientifico
L’Illuminismo e Lamarck
Charles Darwin
Capitolo II. Darwinismo, genetica e neodarwinismo
Darwin sfratta il Creatore
Il monaco e l’eclisse
La conferma da Nobel
La controffensiva della “Teoria sintetica”
Capitolo III. L’origine della vita
Il falso mito della “generazione spontanea”
Il “brodo primordiale”
Gli esperimenti non conclusivi di Urey e di Miller
I fossili non sono una prova
Capitolo IV. La paleontologia obietta
I “fossili viventi”
L’“effetto Lazzaro”
L’esplosione della vita
Capitolo V. L’anello sempre mancante
Il pipistrello per avvocato
Rettili e uccelli
Piume e penne
Capitolo VI. L’Homo sapiens
L’uomo fra le bestie
Giocare a dadi con l’ignoto
Chi è l’uomo di Neanderthal?
L’uomo e la sua unicità
Conclusione
Bibliografia e sitografia
RECENSIONI:
È la notizia del giorno, battuta lunedì pomeriggio in simultanea da tutti gli organi di stampa. Sul pianeta Marte c’è acqua allo stato liquido ha detto la NASA in un’attesissima conferenza stampa. La prova arriva dal satellite statunitense Mars Reconnaissance Orbiter. E qui scatta subito il meccanismo pavloviano: se su Marte c’è acqua, allora vuol dire che su Marte c’è vita. O c’è stata, o ci sarà. Ma non è per nulla così facile. A dirlo molto bene è l’astrofisico dell’Accademia dei Lincei Giovanni Bignami, intervistato da La Stampa.
Alla domanda «Abbiamo veramente scoperto l’acqua su Marte?» postagli dal giornalista Enrico Forzinetti, lo specialista risponde: «In verità no, è stata osservata la sicura presenza di sali idrati, tracce di colate che ci dicono che deve essere scorsa dell’acqua liquida nella quale erano presenti sali. È importane sottolineare come l’acqua possa risalire solo al passato perché su Marte, con un’atmosfera così sottile e a quelle temperature, non può esistere acqua liquida. Al massimo può esistere per pochi minuti dato che evapora poco dopo. Comunque l’osservazione fatta si tratta di un’eccellente conferma di quanto già trovato in passato. Non so se definirla una grande scoperta».
Tra l’altro la scoperta non è una novità, come dice ancora Bignami: «Noi sapevamo già dell’esistenza di una quantità consistente di acqua in profondità grazie a dei radar speciali che hanno rilevato diversi strati di ghiaccio. La novità sta nel fatto che non avevamo mai osservato così bene dei sali idrati sulla superficie. È stata fatta un’analisi dettagliata dei sali che sono una sorta di firma della presenza di acqua salata. In passato avevamo solo un’evidenza delle colate di questi sali, ora abbiamo una misura dettagliata».
Ma ovviamente è la questione della vita quella che importa. Così, quando l’intervistatore gli domanda: «C’è vita su Marte?», l’astrofisico replica: «Di sicuro l’osservazione di acqua salata ne aumenta la possibilità. Prendendo come esempio il deserto Atacama in Cile, simile a Marte per aridità, lì si trovano comunità di colonie di microbi alofili. Una forma analoga di vita elementare potrebbe esistere anche su Marte».
I sostantivi e i verbi sono fondamentali. I secondi sono correttamente al condizionale («potrebbe esistere»), i primi parlano di possibilità. A livello teorico, cioè, la presenza di acqua salata, dice lo scienziato, non contraddice il fatto che, in tesi, la vita possa esserci. Anzi. Ma in concreto tra possibilità e probabilità c’è un abisso. L’acqua è infatti necessaria alla vita, ma non è sufficiente. Non è detto che se su un pianeta vi è acqua, automaticamente vi è allora anche vita. Per innescare il meccanismo della vita serve altro. E che cosa serva a generare la vita è ancora un mistero fitto per la scienza, la quale può al massimo elencare altre condizioni necessarie alla vita, ma nessuna di loro sufficiente.
L’esempio importante citato da Bignami del deserto di Acama in Cile, simile a Marte per aridità, lo dice benissimo. Sul pianeta Terra c’è vita in abbondanza e così anche nelle condizioni estreme del deserto cileno di Acama la vita trova il modo di attecchire. Ma non è che siccome su Marte sono ipotizzabili condizioni estreme simili a quelle che si verificano concretamente in una nicchia bioambientale terrestre allora si possa desumere che su Marte la vita c’è, c’è stata o ci sarà. Nessuna condizione favorevole alla vita genera di per sé la vita. La vita, che per esistere ha bisogno di acqua e di altre cose sia sulla Terra sia su Marte, resta un grande mistero. Sulla Terra c’è, mentre su Marte fa acqua.
Marco Respinti
Pubblicato con il medesimo titolo
sul sito Internet de Il Timone, Milano 29-09-2015
Come titola Le Scienze, due fisici italiani hanno appena compiuto Un passo avanti nella spiegazione dell’origine della vita. Franz Saija e Antonino Marco Saitta ‒ il primo ricercatore dell’Istituto per i processi chimico-fisici del Consiglio nazionale delle ricerche di Messina, il secondo professore di Fisica nell’Università Pierre et Marie Curie di Parigi ‒ hanno infatti riprodotto al computer, e quindi confermato, i celebri esperimenti con cui negli anni 1950 il biochimico statunitense Stanley L. Miller (1930-2007) dimostrò in laboratorio – così sintetizza la Repubblica − «la possibilità di formare spontaneamente gli aminoacidi, le molecole base della vita, sottoponendo a intense scariche elettriche le semplici molecole inorganiche presenti nel brodo primordiale così come ipotizzato già nel 1871 da Charles Darwin». Ma Miller non è mai affatto affatto a trarre la vita dalla materia inorganica.
I suoi esperimenti hanno solo prodotto una grande quantità di composti chimici, “fideisticamente” detti contenere presunti ed enigmatici “elementi prebiotici”, i quali però per “funzionare” dovevano comunque essere estratti e purificati in modo alquanto sofisticato (più parecchi altri materiali “inutili”). Mai cioè tutti e contemporaneamente quei classici 20 aminoacidi proteici che farebbero legittimamente parlare di “vita in laboratorio”. Il tutto con una resa bassissima (il 15% al massimo), che è come dire che l’esito principale di quei procedimenti è lo scarto. Insomma un flop, se l’obiettivo chiesto a Miller è creare dal nulla la vita in provetta spingendo l’inorganico a trasformarsi in organico, ma un grande successo se lo scopo è produrre minestroni chimici destinati alla pattumiera. Del resto, se uno scienziato avesse sul serio creato la vita dal niente, non sarebbe cambiato il mondo? O quanto meno lui non ci avrebbe vinto il Nobel?
L’idea base di Miller fu ricreare le condizioni dell’atmosfera terrestre delle origini così da provocare “come allora” la scintilla della vita e assistere in diretta oggi al processo. Nessuno però ha mai saputo né ancora sa quale sia stata la composizione dell’atmosfera terrestre delle origini. Quindi Miller la inventò, decidendo che l’atmosfera della Terra di “miliardi di anni fa” fosse simile a quella attuale di Giove: in massima parte ammoniaca, metano e idrogeno. Gli esiti dei suoi esperimenti dipesero dunque dalle arbitrarie premesse da cui egli partì all’inizio, dimostrando semplicemente la coerenza interna del suo modello teorico. La più famosa di quelle premesse arbitrarie è il «brodo primordiale», la fantasiosa e gigionesca espressione con cui negli anni 1920 il biochimico russo Aleksàndr I. Oparin (1894-1980), eroe “scientifico” dell’Unione Sovietica comunista, aveva battezzato quell’insieme variegato di sostanze carboniose che, interagendo con la famosa “atmosfera terrestre delle origini” grazie a radiazioni ultraviolette e fulmini, si sarebbe diluita negli oceani per poi casualmente formare le prime biomolecole in perfetta armonia con il materialismo dialettico marxista. Ipotesi analoga fu ideata contemporaneamente ma in modo indipendente dal biologo britannico John B.S. Haldane (1892-1964), altro comunista provetto che restò leninista anche dopo le delusioni provocategli da quella catastrofica “scienza” stalinista che Oparin appoggiava. Oparin non se lo filò nessuno finché il chimico e fisico statunitense Harold C. Urey (1893-1981) formulò un’ipotesi sulla formazione del sistema solare che andava d’accordo con il «brodo primordiale». Insieme a Urey (lui sì Premio Nobel ma per la scoperta del deuterio, un isotopo dell’idrogeno), Miller riprese quindi Oparin (e Haldane), e, osserva il biologo Enzo Pennetta, «costruì un’apparecchiatura e la fece funzionare per studiarne i risultati». Ciò che dimostrano gli esperimenti di Miller e Urey è che i loro esiti sono coerenti con le premesse poste dagli stessi Miller e Urey, coerenti con l’ipotesi di Oparin (e di Haldane), coerenti… con l’ideologia marxista-leninista…
Oggi quel che si dice abbia fatto (e però non è vero) Miller porta il nome, “elegante”, di “abiogenesi”, ma è solo l’antica superstizione (un bel po’ panteista) della “generazione spontanea” della vita da ciò che vita non è, in virtù di un principio “magico” insito nelle pieghe della materia sterile. Questa superstizione, però, diffusa nel pensiero scientista moderno in ripresa degli aspetti più “misteriosofici” e decadenti del pensiero pagano, è stata da tempo rigorosamente confutata a norma di metodo scientifico galileiano dal medico toscano Francesco Redi (1626-1697), dal biologo emiliano Lazzaro Spallanzani (1729-1799) e dal biologo francese Louis Pasteur (1822-1895), tutti buoni cattolici e tutti scienziati autentici, il secondo persino padre gesuita.
Torniamo allora ai due ricercatori italiani. Ciò che la loro riproduzione al computer degli esperimenti di Miller ottiene è, dice Le Scienze, identificare «nell’intensità dei campi elettrici presenti nell’ambiente il fattore chiave che indirizza le reazioni chimiche a produrre particolari molecole complesse invece di altre». Cioè appurare che le scariche elettriche simulate dal loro computer per imitare gli esperimenti di Miller fanno quello che i fulmini simulati da Miller fanno nei suoi esperimenti. L’ennesima constatazione della coerenza interna tra gli esiti di un certo procedimento e le sue iniziali premesse arbitrarie, a loro volta coerenti con premesse arbitrarie precedenti. Giusto per non dire tautologia. Perché, commenta Pennetta, si sa che «i modelli computerizzati possono dare i risultati più disparati in base ai parametri che vengono inseriti». E così l’unico criterio di verifica ammesso dalla scienza, la realtà sperimentale, si allontana drammaticamente sempre di più,
Marco Respinti
Versione originale e completa dell’articolo pubblicato
con il titolo Non muore il sogno della creazione senza Dio
in La nuova Bussola Quotidiana, Milano 14-09-2014
- Louis Pasteur (1822-1895)
- Lazzaro Spallanzani, S.I. (1729-1799)
- Francesco Redi (1626-1697)
Il periodico online Wired.it mette altra carne al fuoco dando voce a Guido Barbujani, presidente dell’Associazione Genetica Italiana. Ed è tutto un programma…
Anatomia: che cos’è una scimmia antropomorfa?
Dice l’Enciclopedia Treccani (online: i poveri in Italia son sempre più poveri) che le scimmie antropomorfe sono quelle che «per aspetto esteriore e struttura anatomica si avvicinano molto all’uomo: sono Primati del sottordine Catarrine, famiglia dei Pongidi, privi di coda e di borse guanciali, senza callosità ischiatiche o appena rudimentali; faccia e dita prive di peli, arti anteriori assai più lunghi dei posteriori, denti canini ben sviluppati, placenta discoidale. Comprendono i generi: gibbone, gorilla, orango (o urango o rangutan), scimpanzé».
Perdonate la Treccani: i dettagli della sua tassonomia è un po’ in ritardo sull’ultimo grido della moda evoluzionista, ma il punto è cristallino.
Etologia: un orango può offendersi?
Dicesi “orango” una bestia appartenente a quell’ordine di mammiferi placentati del regno animale che è definito scientificamente Primates a far data dall’edizione del 1758 del Systema Naturae di Carlo Linneo (Carl Nilsson Linnaeus, nobilitato in Carl von Linné e latinizzato in Carolus Linnaeus, 1707-1778). I Primates così son detti poiché sono “i primi”, ovvero “i superiori” tra gli animali, i più sviluppati, i maggiormente evoluti. La tassonomia evoluzionista scientifica oggi vigente (su Wikipedia più aggiornata di quella che compare nell’Enciclopedia Treccani online, anche se sempre in ritardo rispetto all’ultimo grido della moda evoluzionista) suddivide i Primates, così come gli altri animali, in diversi taxa: Sottordini, Infraordini, Parvordini, Supefamiglie, Famiglie, Sottofamiglie, Tribù, Sottotribù, Infratribù, Generi, Sottogeneri, Specie, Sottospecie e Forme (qui la botanica usa invece Varietà), in un ampio e ramificato gioco tra scatole cinesi e matrioske. Tra le Famiglie dei Primates vi è quella degli Hominidae cui appunto appartiene, attraverso la Sottofamiglia delle Ponginae, il genere Pongo, cioè gli oranghi, divisi poi in Specie e Sottospecie, cari estinti compresi. La Famiglia Hominidae fu stabilita nel 1825 dal biologo, zoologo e botanico inglese John Edward Gray (1800-1875), che la fa risalire al Miocene inferiore, il Miocene tout court essendo la prima delle due epoche geologiche in cui si suddivide il Neogene, che è il secondo periodo dell’Era cenezoica, iniziato 23,03 milioni di anni fa e terminò 5,332 milioni di anni fa.
Dire dunque “sottospecie di orango” è affermazione scientifica corrispondente a reperto vivente di raffinata ricerca evoluzionista.
Genealogia: chi era tuo nonno?
Dicesi australopithecus un Genere della Famiglia Hominidae ritenuto appartenere alla linea da cui si è evoluto l’uomo. Il suo nome latino significa “scimmia meridionale”. Non ci sono prove empiriche del fatto che l’uomo derivi dalla scimmia se non nel nome che certi uomini hanno un dì arbitrariamente dato a posteriori a determinati reperti di palese natura scimmiesca ma asseriti come preumani. L’intenzione è tutto e la propaganda il suo profeta.
Anagrafe: chi è chi?
Lo scimpanzé comune, uno dei Primates più evoluti e prossimi al vertice Homo, viene in sede scientifica disinvoltamente definito “troglodita”: Pan troglodytes.
Un suo congiunto strettissimo fa di nome e cognome Pan paniscus: in società lo chiamano bonobo e si porta alquanto bene, ma il popolino lo chiama ancora scimpanzé nano. Nano e troglodita sono, dice la scienza, i parenti più prossimi dell’uomo, ma il biologo molecolare statunitense Morris Goodman (1925-2010) smentisce: sono tutte e tre specie del medesimo Genere Homo. La foto di famiglia goodmaniana ritrae tutti sotto le feste abbracciati con vestiti nuovi di zecca: l’Homo paniscus cioè il nano, l’Homo troglodytes e l’Homo sapiens.
L’attualisismo e scottantissimo tema dell’economia dei derivati: l’uomo deriva dalla scimmia?
Sì. L’eminente storico inglese Edward Gibbon (1737-1794), arcinemico della Chiesa Cattolica, cela nel cognome un nesso fondante con la Famiglia Hylobatida cui appartengono i vari Generi di gibboni.
Cronologia: è nato prima l’uomo o la scimmia?
La scienza attuale si dibatte fra chi afferma che le Famiglie delle scimmie si sono evolute nel genere umano e chi afferma che le scimmie sono umane già da milioni di anni. Talune suonano l’organetto, talaltre sono governanti (oops, c’è già uno che si è offeso perché pensa che gli sia appena stato dato del badante).
Oggi è il Mendel Day, il primo di quella che gli organizzatori si augurano essere una serie lunga e proficua di colloqui pubblici dedicati alla questione più spinosa della scienza contemporanea: l’evoluzionismo. Sì, perché la domanda sull’origine e sullo sviluppo della vita sulla Terra dovrebbe essere oggetto di ricerche e di osservazioni serie e asettiche, mentre invece è costantemente inficiata da considerazioni filosofiche che portano il discorso troppo oltre il seminato e da retro-pensieri persino di natura politica che tutto fanno tranne che giovare al confronto. Vale dunque la pena di provare a rimettere la barra un poco più diritta, nella speranza che la domanda delle domande, quella appunto sul “quando”, sul “come” e sul “dove” la vita abbia cominciato a germogliare sul nostro minuscolo e atipitico, oltre che fortunato, pianetino sperso nella Via Lattea smetta di farri capziosa per tornare a esser dignitosamente intrigante.
Oggi, dunque, a Verona, all’Istituto Alle Stimate di Via Carlo Montanari 1, a partire dalle ore 16,00 l’Associazione Amici di Mendel (www.mendelday.org) battezza la prima giornata mondiale dedicata al padre della genetica con un convegno animato dagli interventi di Francesco Agnoli, Umberto Fasol, Enzo Pennetta e Mario Gargantini.
Agnoli, scrittore e giornalista, si occupa da tempo del rapporto tra scienza e fede. Fasol, preside dell’Istituto che ospita il convegno, è biologo e docente di Scienze naturali nei licei. Pennetta, una laurea in Scienze naturali e una in Farmacia, ha recentemente pubblicato (con Agnoli) il libro Lazzaro Spallanzani e Gregor Mendel. Alle origini della biologia e della genetica (Cantagalli). E infine Gargantini, ingegnere elettronico e già docente di Fisica, opera da anni come divulgatore scientifico.
Perché Grego Johann Mendel (1822-1884)? Perché Mendel, giocando con piante e pianticelle nell’orto del monastero di San Tommaso dell’allora Brünn, oggi Brno, s’imbatté – lo ricordiamo tutti sin dalle elementari – nelle ferree leggi che presiedono la trasmissione dei caratteri ereditari tra i viventi. Senza volerlo. Per caso, scoprì che il caso non esiste. Che le informazioni fondamentali della vita si trasmettono di padre in figlio secondo un andamento regolare e prevedibile; che obbediscono a un disegno intelligente invece di turbinare a capocchia; che ciò che fa di un vivente un essere unico accanto a milioni di altri esseri unici, ma al contempo accomunati tutti da una familiarità evidente, risponde a un criterio oggettivo.
Mendel non lo sapeva; ci vorrà, nel 1953, la scoperta del DNA; ma i suoi incroci tra vegetali, operati mentre il mondo attorno non ne aveva la più pallida idea, inventarono nientemeno che la genetica, vale a dire quella frontiera dell’infinitamente piccolo dove il fascino del mistero regna sovrano e la curiosità sana del ricercatore affronta ogni giorno sfide nuove. La genetica è infatti il campo-base della vita, il luogo dove i suoi mattoni fondamentali si ordinano, prendono forma, costruiscono. Può essere l’abisso terribile delle sperimentazioni disumane, ma è sempre più bello pensarla come l’ambito dove l’uomo può essere prossimo all’uomo, curando malattie turpi, debellando sin dal principio virus e altre schifezze simili, svelando per contemplare la mappa meravigliosa della vita. Se non fosse stato per Mendel brancoleremmo ancora nel buio più pesto.
Johann Mendel, che quando si fece benedettino prese il nome di Gregor, quello con cui è passato alla storia, nacque da una famiglia contadina di lingua tedesca in territorio ceco. Lavorò come giardiniere, nel 1843 entrò in monastero, nel 1847 divenne prete e nel 1851 s’iscrisse all’Università di Vienna. Completati gli studi, tornò nel 1863 all’abbazia, insegnando Fisica, Matematica e Biologia. Un giorno prese dei piselli, ne selezionò 22 varietà differenti, si concentrò su 7 paia e incrociandole osservò che la prima generazione dava individui uniformi, mentre le successive mutazioni rispondevano a precise proporzioni matematiche.
Da allora la scienza non è più stata la stessa. La scuola evoluzionista, che per definizione non può fare a meno del caso, si è ripensata in quella “teoria sintetica” che rielabora il darwinismo a fronte della genetica, ma la questione è apertissima.
Da anni il 12 febbraio, data della nascita del padre dell’evoluzionismo, Charles Darwin (1809-1882), si celebra il Darwin Day. Dal 2003, grazie soprattutto all’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalistici, lo si fa anche in Italia. Il Mendel Day non è la contro-risposta. È la giornata del ricordo di un grande e rigorosissimo uomo di scienza, oltre che di fede, alla cui lezione si deve tornare tutti. Perché l’auspicio è che scompaiano presto tutti i Darwin Day e tutti i Mendel Day per lasciare spazio a tavoli di lavoro benemeritamente bipartisan, non-profit e value-free. Quel giorno la scienza riprenderà finalmente a studiare con meraviglia la realtà invece di contemplarsi compiaciuta l’ombelico.
Versione originale e completa dell’articolo pubblicato
con il medesimo titolo in Libero quotidiano [Libero]
anno XLVIII, n. 43, Milano, 20-02-2013, p. 28
Il mio articolo sugli strali lanciati dall’epistemologo neodarwinista contro l’esperto di biologia antievoluzionista Enzo Pennetta, uscito su Libero il 16 gennaio 2013, è stato ripubblicato il medesimo giorno
– sul sito di Francesco Agnoli, Libertà e Persona
– sul sito di Enzo Pennetta, Critica scientifica
Telmo Pievani, autore di celebri libri e firma di Micromega, è il testimonial più laccato che il darwinismo conosca. Sul suo blog Pikaia, sottotitolato pomposamente “il portale dell’evoluzione”, pubblica ben 12 pagine di Lettera a un insegnante antidarwiniano impaginata in pdf, con i «wow» e le note. Da sbadigliare. Lui invece si annoia per le domande. In specie quelle serie, già poste al “rottweiler di Darwin”, Richard Dawkins, e da allora sempre senza risposte: è possibile conoscere un esempio di mutazione genetica “positiva”, o di processo evolutivo in cui si possa vedere un incremento d’informazioni nel genoma, o la nascita di una nuova specie? No, non è possibile; ed è qui che il darwinista inciampa: nelle consegne rigorose di cui il metodo scientifico pretende il rispetto. Pievani, invece, che è un filosofo, se la cava da sofista dicendo che la domanda non ha senso. Ma allora perché prendersela tanto con «un insegnante antidarwiniano»?
Nemico pubblico
Ora, l’«insegnante antidarwiniano» ha però un nome, un cognome e un pedigree. Enzo Pennetta, esperto di biologia, due lauree a La Sapienza di Roma, l’una in Scienze naturali e l’altra in Farmacia, e sul tema due libri per la senese Cantagalli, Inchiesta sul darwinismo (2011) e, con Francesco Agnoli, il nuovissimo Lazzaro Spallanzani e Gregor Mendel alle origini della Biologia e della Genetica. Per Pievani «si definisce docente di scienze naturali in una scuola riconosciuta dallo Stato», il Liceo paritario della Fondazione Cristo Re di Roma, ma è lo Stato italiano che lo definisce così, avendogli regolarmente conferito l’abilitazione all’insegnamento.
A Libero Pennetta anticipa la risposta che spedirà a Pievani: «Non ho mai detto che non insegno la teoria darwiniana; anzi, la insegno bene: infatti solo così i suoi difetti diventano evidenti». Ma allora perché Pievani ce l’ha tanto con lui? «Io critico il neodarwinismo su basi scientifiche», dice l’esperto di biologia. «Del neodarwinismo Pievani è il massimo esponente italiano. Logico che si senta chiamato in causa. Ma il motivo vero per cui s’inalbera è che io mostro il collegamento tra darwinismo e politica eugenetica, razziale e malthusiana, link imbarazzanti che Pievani e soci nascondono. Ma bando alle polemiche. Invito Pievani a un confronto pubblico. Ci sta?».
Vedremo. Intanto non perdetevi la vera perla di tutta l’enciclica pievana, cioè la chiusa: «Dopo questa lettera, se compariranno altri insulti, altre insinuazioni o altri travisamenti intenzionali del mio pensiero non sarò più io a rispondere ma i miei legali». Insiste Pievani: «Può la libertà di insegnamento spingersi fino a tollerare che i nostri studenti siano esposti a tesi di questo tipo in una scuola regolarmente riconosciuta dallo Stato italiano?». Accipicchia.
La “trasparenza”
Il filosofo invita i suoi lettori a «mandarci segnalazioni su come si insegnano le scienze naturali, e in particolare l’evoluzione, nelle scuole private paritarie di questo paese. Gli Istituti confessionali, se riconosciuti dallo Stato italiano, sono tenuti a rispettare i programmi ministeriali. Confidiamo che facciano tutti un egregio lavoro, ma è pur sempre bene verificarlo con la massima trasparenza». Siamo alla polizia politica per il reato di pensiero libero e lesa maestà darwiniana?
Pubblicato con il medesimo titolo
in Libero quotidiano [Libero], anno XLVIII, n. 13, Milano 16-01-2013, p. 32
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