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Sarebbe una bugia dire che Papa Francesco non abbia spiazzato tutti, conservatori e progressisti, invitando i cattolici, sabato 29 settembre, giorno in cui la Chiesa Cattolica celebra la memoria liturgica degli arcangeli, a «[…] pregare il Santo Rosario ogni giorno, durante l’intero mese mariano di ottobre; e a unirsi così in comunione e in penitenza, come popolo di Dio, nel chiedere alla Santa Madre di Dio e a San Michele Arcangelo di proteggere la Chiesa dal diavolo, che sempre mira a dividerci da Dio e tra di noi». Lo ha fatto domandando di imitare «i mistici russi e i grandi santi di tutte le tradizioni», che «consigliavano, nei momenti di turbolenza spirituale, di proteggersi sotto il manto della Santa Madre di Dio pronunciando l’invocazione “Sub tuum praesídium”», per poi concludere la recita del Rosario con la preghiera scritta da Papa Leone XIII (1810-1903) appunto a san Michele.
L’intenzione di Papa Francesco, con il gesto del 29 settembre, è quella d’impetrare dal Cielo la grazia divina di preservare la Chiesa «[…] dagli attacchi del maligno, il grande accusatore, e renderla allo stesso tempo sempre più consapevole delle colpe, degli errori, degli abusi commessi nel presente e nel passato, e impegnata a combattere senza nessuna esitazione affinché il male non prevalga». Infatti il diavolo, dice il Libro di Giobbe, al capitolo 1, versetto 7, «[…] gira per il mondo cercando come accusare».
Nel 1884, mentre celebrava la Messa, Leone XIII ebbe la visione dell’attacco scatenato dal diavolo contro la Chiesa. Fu per questo che scrisse la preghiera all’arcangelo Michele da recitarsi al termine di ogni Messa, cosa che è stata fatta fino alla Riforma liturgica e restando, da allora in poi, un efficace esorcismo di uso personale e quotidiano.
Quanto al Sub tuum praesidium, è la preghiera mariana più antica. Risale al secolo III ed è stata rinvenuta ad Alessandria d’Egitto nel 1917, scritta su un papiro egiziano, copto, acquistato nel 1917 dalla John Rylands Library di Manchester e pubblicato per la prima volta nel 1938. Lo scrittore cattolico Vittorio Messori ama descriverla come la madre di tutta l’apologetica, la preghiera apologetica per eccellenza: contiene l’affermazione della maternità divina di Maria, un dogma sancito dopo, nel 431, dal Concilio di Efeso, e (nella versione del rito ambrosiano, quella più vicina all’originale) anche un’allusione all’Immacolata Concezione, dogma proclamato solo moltissimo dopo, nel 1854, ma evidentemente due verità di fede professate dai cristiani da sempre.
Ora, questa preghiera originaria ha tra i propri amatori un personaggio illustre, lo scrittore e filologo inglese J.R.R. Tolkien (1892-1973). In una lettera datata 8 gennaio 1944 e indirizzata al figlio (e futuro erede letterario) Christopher, esordendo con un «ricordati il tuo angelo custode», Tolkien scriveva: «Se non lo fai già, prendi l’abitudine alle “preghiere”. Io le uso molto (in latino): il Gloria Patri, il Gloria in Excelsis, il Laudate Dominum, il salmo domenicale Laudate Pueri Dominum (al quale sono particolarmente affezionato), e il Magnificat. E anche la Litania di Loretto [sic] (con la preghiera Sub tuum prasidium). Se le conosci a memoria, non avrai mai bisogno di altre parole di gioia. È anche una cosa buona e ammirevole conoscere a memoria il Canone della Messa, cosi lo puoi recitare nel cuore se le circostanze ti impediscono di sentire la Messa».
Tolkien amava molto la preghiera, e molto le preghiere cattoliche canoniche. Le amava tanto da farci pregare anche gli Elfi della sua narrativa, detta, non a caso, “realismo fantastico”. Premesso che tutta la costruzione tolkieniana è definibile come una “composizione di luogo” atta a dare “cittadinanza” alle lingue che egli anzitutto inventò (cioè personaggi credibili che le parlassero credibilmente in luoghi credibili e ricchi di una storia credibile), assume significato particolare il fatto che il cattolicissimo Tolkien volle tradurre in elfico le preghiere cattoliche fondamentali. Tra queste appunto il Sub tuum praesidium, tradotto in Quenya, il “latino elfico”, negli anni 1950 con il titolo Ortírielyanna. Nel 2002 la preghiera è stata pubblicata in edizione critica – con il placet di Christopher Tolkien – sul n. 44 del periodico statunitense di filologia tolkieniana Vinyar Tengwar dagli studiosi Patrick H. Wynne, Arden R. Smith e Carl F. Hostetter. Non solo. Tolkien tradusse in tutto cinque preghiere cattoliche: il Pater Noster, l’Ave Maria, il Gloria Patri, le Litanie lauretane e appunto il Sub Tuum Praesidium, tutte pubblicate criticamente su Vinyar Tengwar nei numeri 43 e (il citato) 44.
Ora, al padre gesuita Robert Murray (1925-2018) ‒ l’amico che ebbe modo di leggere parte della sua narrativa prima che venisse pubblicata ‒ Tolkien scrisse, con parole più che note: «Ovviamente Il Signore degli Anelli è un’opera fondamentalmente religiosa e cattolica; all’inizio lo è stata inconsciamente, ma lo è diventata consapevolmente nella revisione. È per questo motivo che non ho inserito, o ho eliminato, praticamente ogni riferimento a qualsiasi tipo di “religione”, culto o pratica religiosa, nel mondo immaginario. L’elemento religioso e infatti insito nella storia e nel simbolismo».
Un po’ per rispetto, un po’ per evitare incongruenze (sincretistiche), la narrativa tolkieniana sembra non parlare di fede. Perché allora dunque tradurre in elfico le preghiere della Tradizione cattolica? Tolkien non ce lo ha lasciato scritto, ma è lecito immaginarlo. Se la sua opera narrativa è intrinsecamente cristiana, e dunque a modo proprio esplicitamente cattolica, il bene e il male che vi si scontrano sono gli stessi della vita reale. Gesù e Satana.

L'”Ortírielyanna”, la versione in elfico Quenya della preghiera “Sub tuum praesidium” scritta di pugno da Tolkien
Nella famosa conferenza Sulle fiabe, del 1939, Tolkien afferma che la narrazione fantastica è «un lontano barlume o un’eco dell’evangelium nel mondo reale», aggiungendo subito che «l’uso di questa parola fa intravedere la mia conclusione». Questa: «I Vangeli contengono una favola o meglio una vicenda di un genere più ampio che include l’intera essenza delle fiabe. I Vangeli contengono molte meraviglie, di un’artisticità particolare, belle e commoventi: “mitiche” nel loro significato perfetto, in sé conchiuso: e tra le meraviglie c’è l’eucatastrofe massima e più completa che si possa concepire. Solo che questa vicenda ha penetrato di sé la Storia e il mondo primario; il desiderio e l’anelito alla subcreazione [cioè la creazione artistica] sono stati elevati al compimento della Creazione. La nascita del Cristo è l’eucatastrofe della storia dell’Uomo; la Resurrezione, l’eucatastrofe della storia dell’Incarnazione». Con «eucatastrofe» Tolkien intende la «[…] “buona catastrofe”, l’improvviso “capovolgimento” gioioso» della storia nel momento più buio quando tutto sembrerebbe invece perduto. La creazione narrativa, dunque, «[…] volge lo sguardo in avanti (oppure all’indietro: la direzione in questo caso è irrilevante), verso la Grande Eucatastrofe». Ebbene, rispetto alla narrazione fantastica, «la gioia cristiana, la Gloria, è dello stesso genere», ma il punto “di non ritorno” è che essa è «[…] preminentemente (infinitamente, se la nostra capacità non fosse finita) alta e gioiosa», e questo perché «[…] questa vicenda è suprema; ed è vera». E quindi «Dio è il Signore, degli angeli, degli uomini – e degli elfi».
Ne Il Signore degli Anelli, l’Oscuro Nemico ‒ il nemico della natura umana, direbbe sant’Ignazio di Loyola (1491-1556) ‒ si chiama Sauron, emissario storico di Morgoth. In una lettera a Milton Waldman, editor della Collins, scritta probabilmente verso la fine del 1951, Tolkien annota: «Sotto Sauron sorge una nuova religione, e l’adorazione dell’Oscurità con il suo tempio. I Fedeli vengono perseguitati e sacrificati». Dunque, «Ortírielyanna rucimme, Aina Eruontari, alalye nattira arca·ndemmar sangiessemman ono alye eterúna me illume ilya raxellor alcarin Vénde ar manaquenta»: sì, anche gli Elfi pregano la Madre celeste affinché ponga la Creazione sotto il proprio mantello materno, anche gli Elfi pregano con il Papa per proteggere la Chiesa da Sauron e dal suo padrone “antico” Morgoth.
A 120 dalla nascita, Giulio Cesare Andrea Evola (1898-1974), in arte prima Jules e poi Julius, diventa fiction nei 18 racconti dell’antologia di sapore calvinista (nel senso di Italo Calvino) Il Barone immaginario, curata da Gianfranco De Turris, segretario della Fondazione Julius Evola, per i tipi della milanese Mursia (284 pagg., 19 euro). Firmano nomi affermati e altri meno della “narraltiva”, il narrar alternativo ai quattro scrittori prezzemolini di cui vivono le major italiane e il monocolore televisivo: Adriano Monti-Buzzetti, Max Gobbo, Marco Cimmino, Mario Farneti, Mario Bernardi Guardi, Manlio Triggiani, Errico Passaro, Dalmazio Frau, Alberto Henriet, Giulio Leoni, Marcello de Angelis, Mariano Bizzarri, Augusto Grandi, Andrea Scarabelli, Antonio Tentori, Enrico Rulli e Marco Rossi, tutti autori di racconti originali, a cui si aggiunge il conte Vincenzo Fani Ciotti, alias il poeta e giornalista “Volt”, futurista e fascista, con Le parole che uccidono del 1920.
L’operazione è facile ‒dopo che qualcuno l’ha pensata. Un intellettuale vero, da alcuni osannato come un dio e da altri odiato come un diavolo, fa il verso a se stesso trasformandosi in soggetto letterario. Un po’ (se gli evoliani non si offendono) come Essere John Malkovich, il film diretto nel 1999 da Spike Jonze in cui la grande maschera di Hollywood interpreta se stesso. Per farlo bisogna essere grandi e avere quel senso dell’ironia che rende tali. Sarebbe comodo, infatti, liquidare l’operazione De Turris come l’ennesimo “culto serale” che gli adepti tributano al “filosofo maledetto”, un vate pubblicato e ripubblicato, antologizzato, compendiato, spezzettato in decaloghi pronti all’uso, e poi citato e persino plagiato, spiegato, glossato, intrepretato, giustificato a ogni salto di essere, dagli esordi dadaisti al tradizionalismo perennialista, dall’“inviolabile” Rivolta contro il mondo moderno al saggetto Psicologia criminale ebraica.
Al contrario, è un esperimento ben riuscito che segna l’ingresso di Evola fra i grandi editori non “di settore”. Ben riuscito poiché drammaticamente sdrammatizza. Prende cioè il “toro sacro” per le corna e lo scompone restituendolo trasfigurato. E così l’ariosofo della via italica agli dèi (almeno di una sua corrente), l’antisemita spiritualista che l’Ahnenerbe nazista teneva d’occhio (è l’oggetto degli studi di Nicola Cospito), il mago del Gruppo di Ur, il sodale del massone Arturo Reghini, il neopagano che è riuscito ‒ almeno in qualche fase ‒ a concepirsi cattolico senza essere cristiano si fa protagonista da copione, magari buono per una traslazione televisiva. A volte pure macchietta (come nell’iniziale affettatamente maiuscola del titolo nobiliare che fa da titolo all’antologia), ma ci sta perfettamente.
Il Barone immaginario nasce quando «mi sono reso conto che il livello di quanto detto su Julius Evola aveva raggiunto e superato il livello di guardia (e della sopportazione)», scrive De Turris nell’introduzione, lenta nell’avvio un po’ bilioso da vestale ferita nell’orgoglio ma poi godibilissimamente colta e più che illuminante. In questi racconti, Evola incontra i grandi della cultura, della politica e dell’esoterismo del suo tempo, scambia con i quidam de populo e si trova faccia a faccia con alieni, dèi iperborei e i Grandi Antichi di Howard Phillips Lovecraft, più una mummia egizia. I temi tipici della sua riflessione, masticata e digerita da generazioni e rigenerazioni di studiosi e iniziati, da libri, periodici e fanzine, sono evocati un po’ tutti nei 18 racconti: le arti figurative, le meditazioni dalle vette montane, l’orientalismo (compreso l’orientalismo occidentalizzato), il simbolismo, l’immancabile antiamericanismo, la mistica monarchica, il tramonto dell’Occidente e l’incognita oltre la morte.
Mozzafiato la chiusa, affidata all’estro di Rossi che immagina Evola all’Inferno dialogante con René Guénon (1886-1951), l’esoterista islamico suo maestro, in un calco del Dialogue aux enfers entre Machiavel & Montesquieu di Maurice Joly (1829-1878), pubblicato a Bruxelles nel 1864 e modello per la creazione a tavolino della “bibbia” dell’antisemitismo, I Protocolli dei Savi di Sion. I due si domandano cosa ancora voglia da loro, anche lì, Lui, l’Angelo della Guerra, ora che il Kali-Yuga ha giustiziato anche l’ultima speranza, Vladimir Putin. Berranno dalle acque del fiume Lete e sarà solo oblio. Dimenticare è l’unica via per tornare, appuntamento chissà dove, chissà quando.
Marco Respinti
Versione originale e completa dell’articolo pubblicato con il medesimo titolo
in Libero [Libero quotidiano], anno LIII, n. 136, Milano 19-05-2018, p. 24
Rino Cammilleri, firma di punta de La nuova Bussola Quotidiana e apprezzato collaboratore de il Giornale, è noto soprattutto per le numerose opere di apologetica e per i molti bei libri dedicati ai santi, ma la sua vera passione (nemmeno nascosta) è la narrativa. Nei panni del romanziere ha pubblicato il pionieristico e fortunato L’inquisitore (tre editori – l’ultimo San Paolo, nel 1998 – e sei lingue), Sherlock Holmes e il misterioso caso di Ippolito Nievo (San Paolo, 2000), Immortale Odium nonché Il crocifisso del samurai (Rizzoli, Milano rispettivamente 2007 e 2009). Due sono gli assi, pressoché ubiqui, nella narrativa di Cammilleri: il fascino per il genere “giallo” e l’amore per la storia. Intrecciati in trame intriganti, rivelano un’altra costante dell’autore: quello che se Cammilleri fosse un pittore chiameremmo il d’apres. Diverso dalla volgare imitazione, ma distinto anche dal più altolocato “falso d’autore”, il d’apres è il gusto di cimentarsi con ambienti e tecniche altrui. La letteratura pulp e pop (e nessuno dei due termini è spregiativo) ne straripa, e lo stesso fa il fumetto (riferimento di rigore essendo in ballo Cammilleri, appassionato lettore e intelligente esegeta del fumetto, nonché disegnatore dotato): personaggi che nascono da una penna e traslocano a un’altra, oppure prestati per vivere vite nuove. Dosando con cura gli elementi per non esondare con effetti farseschi, il segreto di Cammilleri è un amalgama che attira il lettore. Sì, ma dove?
Per iniziare a rispondere è utile la sua ultima fatica narrativa, I delitti della camera chiusa – che riprende e amplia I delitti della stanza chiusa (Piemme, Casale Monferrato [Alessandria] 2004) –, volume di racconti edito nella famosissima collana “Il giallo Mondadori”. Il prestigio di questa veste è un po’ premio alla carriera. Per un giallista, infatti, essere ammesso in questo reame è come toccare il cielo con un dito. Com’è noto, se non esistesse quella collana, in Italia non esisterebbero nemmeno i “gialli” che così si chiamano proprio in riferimento al colore delle proverbiali copertine della serie. All’estero il genere si chiamano infatti thriller (con anche la variante metaphysical thiller), detective story o persino mystery, e qui siamo già a metà dell’opera di ricerca della destinazione cui Cammilleri porta i lettori.
Il “giallo”, infatti, nella misura in cui costeggia l’insolito un po’ pure inquietante (in inglese uncanny, un altro superbo sottogenere letterario), il misterioso e l’insondabile è un genere perfetto per portarci alle soglie di quella dimensione ulteriore che i cinque sensi non colgono, ma che la ragione intuisce. E qui Camilleri ci sguazza come un topo nel formaggio.
Anzitutto il “giallo” gira sempre attorno a un argomento maledettamente serio da cui nessuno può sfuggire: la morte. Per contrasto, il “giallo” parla dunque anche della vita. Con questo si sarebbe già detto tutto se si pensa che, in una lettera, a quelli che pensavano che Il Signore degli Anelli fosse solo una banale e un po’ manichea allegoria della lotta tra il Bene e il Male J.R.R. Tolkien rispondeva che si tratta invece di un continuo interrogarsi proprio sulla Morte e sulla Vita. Ma c’è di più. La morte e la vita non sono infatti due categorie astratte del pensiero con cui fare conti intellettuali, ma la nuda realtà che attraversano persone di carne e ossa. Il “giallo” è dunque come si muore e come si vive, ma anche perché si muore e perché si vive. La banalità del Bene/Male entra in scena solo qui, ed è qui che si spoglia di qualsiasi possibile manicheismo facendosi tema serissimo. Il thriller, insomma, racconta vite normali travolte da un insolito destino e pertanto uniche; così uniche da diventare paradigmatiche. Per questo vale la pena che il giallista, che Camilleri le metta per iscritto, e che noi le si legga.
Come sempre in letteratura accade, nel fare questo lo scrittore diventa il dio del proprio racconto. Ne conosce l’ordito nel suo stesso dipanarsi, è il custode del suo ordine ed è il garante della legge che decide quando una vita inizi e quando cessi. Tutta la letteratura è così, ma il “giallo” ancora più consapevolmente perché mette su carta dei delitti. E dei colpevoli. E degli esiti.
Il “giallo” infatti ha, famosamente, solleticato le voglie di sostituire completamente a Dio la ragione che tutto pretende di comprendere, lo scetticismo che nulla vuol più concedere al mistero, il calcolo ragionieristico che tutto spiega anche quando non c’è proprio più nulla da spiegare. Detective famosi della letteratura hanno prestato le arti del mestiere alla dimostrazione romanzata dell’inutilità di Dio, piccoli darwinismi perfetti degni del migliore dei CICAP. Ma esiste anche un altro filone del “giallo”, capace di rintuzzare parola su parola e di battere l’avversario con le sue stesse armi. È il filone delle “bocche spalancate”: spalancate per la meraviglia, per l’irriducibile complessità del cosmo, per l’imponderabile irraggiungibile. Bocche spalancate come quelle di un bambino di fronte alla volta stellata o di un quidam de populo, o di un luminare del ramo, davanti alle proporzioni geometriche della sezione aurea.
Cammilleri appartiene coscientemente a questo secondo filone senza che l’appartenervi appunto coscientemente offuschi l’immediatezza del narrato. Nei 19 quadri di cui si compone la mostra I delitti della camera chiusa mette in scena investigatori che ci somigliano e al contempo no. Che hanno pregi e difetti, capacità e limiti, talenti e mancanze. Persone cioè normali di quella norma che non è piattezza bensì blasone; uomini a tutto tondo che davanti alla morte, e alla vita, non si arrendono alla prima soluzione, ma tornano, domandano, insistono, «Sentinella, quanto resta della notte?». Tutto perché la ragione dei detective di Cammilleri non è una gabbia in cui costringere anche ciò che non vi sta, ma la capacità di andare oltre intuendo di essere costantemente sulla soglia di un’altra dimensione e al cospetto di qualcosa di più grande. È così che quei detective colgono sul serio la verità sulla morte, e sulla vita, delle vittime. La verità sulla morte e sulla vita. «O’Connell non era mai stato molto religioso», scrive Camilleri nel racconto L’ora della pensione, «per lui si trattava di cose da donne. Però aveva sempre pensato che Dio dovesse avere qualcosa a che vedere con lui. Se era vero quel che dicevano i preti, e cioè che il Creatore aveva fatto gli uomini a propria immagine e somiglianza, ebbene lui, Steve O’Connell, davvero gli era simile nel suo rincorrere, da tutta una vita, la verità e la giustizia». Sì, forse è il “giallo il colore di Dio.
Marco Respinti
Se non si chiamasse Gilbert K. Chesterton (1874-1936) uno che si presentasse con un libro intitolato L’uomo che si mise un cavolo come cappello e altri improbabili racconti (Lindau, Torino, 248 pagg, €21,00) finirebbe subito in coperta a strofinare il ponte. Ma al fuoriclasse inglese è permesso tutto perché nessuno ci ha regalato gialli come L’uomo che fu Giovedì e romanzi come Le avventure di un uomo vivo; il formidabile Padre Brown, investigatore dilettante sempre in missione poliziesca per contro di Dio (da cui scopiazza mezza fiction tivù), e la prima critica all’eugenetica del Novecento; regesti di saggezze come Eretici e Ortodossia; perle degno di Omero come Lepanto e La ballata del cavallo bianco; e ritratti nazionalpopolari di san Tommaso d’Aquino e di san Francesco d’Assisi anti-intellettuali e anti-buonisti. Nessuno come lui ha capito che il capitalismo è un guaio quando ce n’è in giro troppo poco (così poco che ci si gioca pure l’anima); ha stozzato gli strozzini in L’utopia degli usurai; ha scambiato Benito Mussolini per Carlo Magno ne La resurrezione di Roma ma se n’è accorto in tempo; è andato al cuore della questione delle questioni con La Chiesa cattolica; ha bagnato il naso persino a J-Ax con Il bello del brutto (sì, è solo il titolo italiano di The Defendant, ma il concetto è chiaro lo stesso) e nel fare tutto questo ci si è forse guadagnato pure la santità (dal 2014 la diocesi inglese dove lo scrittore visse ha in atto una sorta “di pre-processo” esplorativo).
Quando L’uomo che si mise un cavolo come cappello uscì in inglese nel 1925 s’intitolava Tales of the Long Bow. Quello evocato è il micidiale “arco lungo”, potenza degli eserciti inglesi dal secolo XIII, ma anche l’equipollente del nostro “spararle grosse” (to draw the long bow). Si narrano infatti le mirabolanti gesta di un manipolo di personaggi improbabili, accomunati da comportamenti assurdi e dalla militanza nella Lega dell’Arco Lungo. Non per nulla Chesterton fu uno dei maestri in pectore di J.R.R. Tolkien, altro talento impareggiabile nell’usare i vocaboli a strati (un solo esempio: hobbit, dove si sovrappongo il coniglio rabbit, il romanzo Babbitt di Sinclair Lewis, l’anglosassone holbytla per “scavatore di buchi”).
Gli arcieri stravaganti di Chesterton non sono però dei buffoni, sono cavalieri. Gli ultimi del nostro mondo, come il Don Chisciotte nato dalla penna dell’eroe di Lepanto che nell’immaginazione chestertoniana, pur sottotraccia, non manca mai. Li lega una fratellanza. Proteggere la terra e restituirne la proprietà agli uomini liberi contro i potenti con il pelo sullo stomaco e quelli che hanno perso il gusto delle cose di un tempo. Non perché il passato sia necessariamente migliore dell’oggi, Chesterton non è così banale; ma perché le cose antiche, verificate dal tempo, possano ancora essere coltivate, amate, fatte. C’è qui tutto l’Edmund Burke che definisce la società un patto tra antenati, noi e chi verrà, riecheggiato dallo stesso Chesterton per il quale la tradizione è la “democrazia dei defunti” (lo scrive in un capitolo di Ortodossia che è una manifesto, L’etica del paese delle fate).
Una delle battute più belle de L’uomo che si mise un cavolo come cappello è di uno di questi assurdi eroi, che ricorda il Robin Hood evocato nell’epilogo: «Non mi venite a parlare di uno Stato Mondiale. Non vi avevo detto che preferivo un’Eptarchia?» dove il riferimento è ai sette regni degli aviti tempi anglosassoni. Sono dei rivoluzionari i sodali dell’Arco Lungo, ma della rivoluzione vera, quella che gli anglosassoni hanno in mente da sempre. Non la sovversione delle cose come stanno, ma il suo contrario: come in astronomia, un moto circolare completo che riporti le cose a posto. «Il giorno in cui arriverà la vera rivoluzione, i giornali non ne faranno parola» dice uno di loro. L’amore per l’ordine e per le cose ben fatte, direbbe uno hobbit. Non è un programma politico, ma una dichiarazione di guerra giusta culturale e metapolitica. Le sue armi sono l’estetica e la poetica, la bellezza e il racconto. Gli arcieri tanto strampalati di questo libro sono forse allora soltanto degli uomini finalmente normali. Fanno cose bislacche solo perché è il mondo che, squilibrato, li percepisce fuori luogo. Lo dice Chesterton: «Questi racconti narrano di imprese ritenute impossibili da realizzare, impossibili da credere, e persino (potrebbe sostenere l’annoiato lettore) impossibili da leggere». È il mondo, il mondo intero che sbaglia. Con il suo sorriso pastoso e i suoi 100 e passa chili di peso Chesterton lo dice senza pudore.
Marco Respinti
Versione originale e completa dell’articolo pubblicato con il medesimo titolo
in Libero [Libero quotidiano], anno LI, n. 142, Milano 24-05-2016, p. 24
«Cara, piccola, bella Pinoka, il tuo fratello grande che fa la guerra, ha ricevuta oggi con grande piacere la tua lettera, e siccome vede che fra tutti quelli di casa tu sei la più premurosa nel dargli notizie, vuol farti una bella sorpresa, e farti trovare, subito dopo il tuo arrivo a Bellaria, la presente lettera. Dunque tu sei al mare con l’Angela [un’altra sorella], e chissà che gioconde nuotate fai. Mi verrebbe quasi voglia di invidiarti un po’, ma poi mi riprendo; se non ci fossimo noi a far la guerra con i comunisti, sai, al mare non ci potrebbe andare nessuno di noi Italiani. Chissà che disastro se questi Russi avessero invaso l’Italia! Ma la Provvidenza non l’ha permesso!».
A scrivere è Eugenio Corti (1921-2014), il grande romanziere cattolico famoso in mezzo mondo – dagli Stati Uniti al Giappone – per l’epopea epica de Il cavallo rosso e autore de I più non ritornano, Gli ultimi soldati del re, Il Medioevo e altri racconti, ma pure Processo e morte di Stalin nonché la ricca raccolta di saggi Il fumo nel tempio. Quando Corti scriveva quelle parole era tutto un altro mondo; era il 5 agosto 1942, in Russia, durante quell’immane e immonda Seconda guerra mondiale che, prolungando la Prima e sfociando nel totalitarismo comunista realizzato anche grazie a un democraticismo imbelle incapace di averne ragione, ha segnato il punto più buio della storia umana, il Novecento. Quel “secolo breve” (oppure lungo, lunghissimo, almeno 200 anni, a far data dalla Rivoluzione Francese che ne ha innescato gli orrori fino al trionfo della post-modernità relativista) Corti lo ha attraversato tutto. Anzi, lo ha vissuto, lo ha animato, lo ha fatto proprio e spesso lo ha combattuto con le armi della fede, dell’intelligenza, della cultura. Sì, il Novecento sarebbe stato un altro se non ci fosse stato anche Corti, che dalla sua piccola “Vandea brianzola” (così amava chiamarla) godeva di un punto privilegiato per osservare i marosi del mondo, ma pure di un’agguerrita ridotta per non darla vinta al male.
Di lettere come quella proposta in stralcio Corti ne ha scritte parecchie. Adesso la sua casa editrice di sempre (e benemerita per averci prima scoperto e sempre caldeggiato un autore del suo calibro), la Ares di Milano, quelle lettere le raccoglie in un volume, curato da Alessandro Rivali, sempre a suo agio tra romanzo e poesia. Il volume s’intitola «Io ritornerò». Lettere dalla Russia 1942-1943 (pp. 248, €14,00). Diciamocelo subito. Gli epistolari sono in genere pizzosi. Intimistici. Quindi spesso inutili. Per essere davvero interessanti debbono avere quel colpo d’ala che riesce solo quando non lo si cerca. Quando cioè giustappongono lettere vere, non scritte per la pubblicazione e quindi rivelatrici del cuore umano. Del cuore, non di altro. Un epistolario vero non è Facebook, che esiste soltanto per farsi gli affari degli altri. Un epistolario vero svela la passione che sta dietro a vite, imprese, opere letterarie. Le opere letterarie sono sempre (fortunatamente) più grandi della biografie di un autore, ché sennò l’umano troppo umano le renderebbe stantie. Le opere letterarie (anche qui: quelle vere) sono una scintilla del divino che alberga nell’uomo, un grazie reso a Dio. Ecco, gli epistolari veri sono quelli che non ci fanno rimpiangere di avere conosciuto di un autore che amiamo non solo l’opera “divina” ma pure al vita umana. Per questo ce ne sono pochissimi; tra questi, da oggi si contano senz’altro le lettere di Corti dalla Russia.
Il Corti delle lettere russe è lo stesso Corti che, compiuti gli studi e vissuto il mondo, resterà sempre e comunque sbigottito da quell’«esperimento comunista» (così del resto si chiamava la prima versione, “antica”, de Il Fumo nel tempio) il quale prospettava, con ghigno di morte, l’inferno terrestre. C’è da scommetterci che Processo e morte di Stalin sia nato, almeno in embrione, magari inconsciamente, tra quelle lettere dal fronte; o magari certe pagine di decenni dopo così sempre moralmente tese ad allertarci dell’abisso senza Dio. Corti era un uomo semplice, e questo è il complimento più bello che si possa fare alla sua memoria e alla sua bella opera. Non era un manicheo, né un fanatico. Ma proprio per questo, e senza intellettualismi vani, sapeva che delle due sempre e solo l’una: o con Dio, o dall’altra parte. Il mondo “dall’altra parte”, quello che il comunismo proponeva, Corti l’ha toccato con le proprie mani là in Russia e quindi ne ha sempre denunciato l’orrore. Ma non si è mai fermato lì. Non ha mai combattuto battaglie di retroguardia, vinte dalla storia.
Tutti gli ultimi suoi molti anni, dalla fine degli anni 1980 in poi, li ha passati a denunciare con la stessa lucidità e la medesima passione il relativismo succeduto all’ideologia. L’«imbestiamento nuovo» lo chiamava. Senza però disperare, mai. «Io ritornerò»: in Russia era la sua bandiera, deciso, convinto. Probabilmente aveva fatto un patto con Dio, come lo avrebbe fatto don Camillo. Per questo aveva il coraggio di scriverne nelle sue lettere a casa. E Dio lo ha ascoltato, restituendocelo con un incarico speciale. Affinché a modo suo, come sapeva fare, con i suoi talenti, ci richiamasse costantemente a quell’unica realtà che davvero vale, bene espressa in due precetti l’uno di santa Giovanna d’Arco, Dieu premier servi, l’altro dei carlisti spagnoli, Nada sin Dios.
Marco Respinti
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