Critica Scientifica, Roma, 27-07-2015
BastaBugie n. 412, Staggia senese (Siena), 29-07-2015
«Scoperto Kepler 186f: è un gemello della Terra fuori dal sistema solare». È la notizia di ieri? No, è la notizia che la Repubblica dava più di un anno fa, esattamente il 17 aprile 2014. La notizia che la Repubblica dava il 23 luglio 2015 è però identica: «Scoperta Terra con un proprio sole in una zona “abitabile” dell’Universo». È Kepler 452b. Stesso titolo, pianeta diverso, consueto clamore per il rinvenimento di un pianeta “unico”… come tanti altri. Nel febbraio 2014 erano infatti già 715, orbitanti attorno a 305 stelle, gli esopianeti (quelli cioè non appartenenti al nostro sistema solare) individuati dal telescopio spaziale della Missione Kepler, lanciata della Nasa il 7 marzo 2009 per cercare pianeti simili alla Terra attratti da stelle diverse dal Sole.
Del resto, per la Nasa, tra l’1,4% e il 2,7% delle stelle analoghe al Sole avrebbe pianeti “abitabili” simili alla Terra, il che porta a 2 miliardi il numero dei pianeti paraterrestri della Via Lattea. E dato che nell’universo osservabile esistono almeno 50 miliardi di galassie, il numero complessivo dei pianeti “abitabili” salirebbe a 100 miliardi. Insomma, come dice Seth Shostak, astronomo del Seti Institute (il programma che a Mountain View, in California, si dedica alla ricerca della vita intelligente extraterrestre), «piovono pianeti». Per questo la notizia della scoperta di un “gemello” della Terra si ripete sempre uguale a se stessa. Una non-notizia, cioè, se non fosse per il sensazionalismo artefatto che l’accompagna. Si dice, per esempio, pianeta “abitabile”, ma è ambiguo. L’aggettivo significa solo che un dato pianeta, per esempio oggi Kepler 452b, orbita attorno a una stella a una distanza tale da rendere teoricamente possibile il mantenersi dell’acqua allo stato liquido sulla superficie. Non significa che vi sia acqua e nemmeno che qualcuno lo abiti.
L’acqua è infatti necessaria alla vita, ma non è sufficiente. Non è detto che se su un pianeta vi fosse acqua, automaticamente vi sarebbe vita; per innescare il meccanismo della vita serve altro; e che cosa serva a generare la vita è ancora un mistero fitto per la scienza, la quale può al massimo elencare altre condizioni necessarie alla vita, ma nessuna di loro sufficiente. Del resto, la possibilità che un pianeta abbia acqua in superficie è solo una stima teorica, non l’osservazione diretta di un fatto né l’esito di un rinvenimento empirico. Prendiamo Marte. Si dice e si ripete che il quarto pianeta del nostro sistema solare avrebbe acqua, ma non è vero. La Missione Mars Exploration Rover, lanciata dalla Nasa nel 2003, ha trovato sulla superficie marziana dell’ematite, il minerale del ferro che sulla Terra si forma in presenza di acqua, più alcune strutture sedimentarie determinate dall’azione di un liquido, quindi eventualmente compatibili anche con la presenza di acqua. Tutto qui. L’acqua su Marte non l’ha raccolta nessuno e nessuno ha documentato la vita.
L’ennesimo “gemello unico” della Terra, di quelli come ce ne sono a ioa… Scoperto nel 2013, dista 700 anni-luce dalla Terra. Ma, pur essendo un nostro “gemello”, ha una superficie rovente del tutto inadatta alla vira
Torniamo a Kepler 452b. Alla sua scoperta si adattano perfettamente le considerazioni svolte un anno fa, a fronte della scoperta di Kepler 186f, dal periodico Query, la rivista ufficiale del Cicap, il Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze, famoso per il positivismo razionalista di cui fanno regolarmente le spese i miracoli, le apparizioni, le fedi religiose. A maggior ragione Query non può essere tacciato di scetticismo antiscientifico magari in favore di una qualche ipotesi metafisica. Oltre all’acqua (presunta), Query ricorda che per l’“abitabilità” di un pianeta conta anche il suo stato. Kepler 186f è roccioso (e così anche Kepler 452b), e la cosa è utile alla causa. Ma «di pianeti rocciosi di dimensioni simili alla Terra se ne erano già scoperti diversi […]. Kepler 186f è il primo che abbia entrambe queste caratteristiche. Questa è la sua importanza, che alla fine da un punto di vista scientifico è abbastanza limitata: nessuno aveva dubbi che esistessero pianeti così […]». E però Kepler 186f come Kepler 452b «può essere pieno di metalli pesanti e avere una gravità insostenibile, o esserne privo, come la Luna, e non avere abbastanza gravità per trattenere un’atmosfera. L’atmosfera può essere troppo ricca di gas serra e il pianeta può essere una fornace come Venere, o essere troppo rarefatta e l’acqua può evaporare al primo raggio di sole».
Cosa sappiamo insomma di Kepler 186f o di Kepler 452b? Nulla. Kepler 452b lo ha “visto” solo un telescopio orbitante a poco meno di 150mila chilometri dalla Terra, mentre esso dista circa 1400 anni-luce, cioè 9461 miliardi di chilometri (un anno-luce) moltiplicato 1400 volte, pari, per intendersi, a 63.241 volte la distanza tra Terra e Sole (un anno-luce) moltiplicata sempre per 1400. Se pensiamo che il pianeta Plutone dista dalla Terra, a seconda del suo posizionamento rispetto a noi e al Sole, tra i 4200 e i 7500 milioni chilometri circa, e che solo quando la sonda spaziale New Horizons è arrivata, il 14 luglio 2015, a 12.472 chilometri dalla sua superficie (per intendersi l’atmosfera terrestre propriamente detta finisce a un centinaio di chilometri dal suolo) gli scienziati si sono accorti che sul suo aspetto si erano ingannati, capiamo che dei pianeti “abitabili” scoperti da Kepler non sappiamo proprio alcunché.
Fa dunque un po’ sorridere Ellen Stofan, capo ricercatore della Nasa, quando dice che gli scienziati sanno dove cercare gli alieni nello spazio e che tra 20 anni l’incontreremo… A meno che ciò non serva per giustificare i budget faraonici delle missioni spaziali (la sola Missione Kepler è costata 550 milioni di dollari) che cercano quel che vogliono trovare e che così prima o poi lo “scoprono” anche se non c’è. È un vecchio vizio sofistico, e in cosmologia si chiama “principio antropico” (o è una sua “eresia”): la constatazione di condizioni fisiche compatibili con la vita diventa causa stessa della vita. Ma è solo idealismo hegeliano riciclato: ciò che la mente pensa esiste anche nella realtà, con la causa e l’effetto che si scambiano di posto. In attesa di una notizia vera, vale allora la pena di rispolverare The Privileged Planet: How Our Place in the Cosmos is Designed for Discovery (Regnery, Washington 2004) di Gulliermo Gonzales e Jay Richards, nonché il dvd omonimo, del 2010, la cui voce narrante è quella dall’attore John Rhys-Davies, il nano Gimli de Il Signore degli Anelli cinematografico, dove l’irriducibilità della vita al calcolo statistico spalanca gli occhi e il cuore al vero mistero dell’universo.
Marco Respinti
Russell Kirk (1918-1994), il padre della rinascita del conservatorismo statunitense a metà del secolo XX, pensò di suggellare il proprio canone della forma mentis conservatrice individuandone l’omega nel poeta e critico letterario Thomas Stearns Eliot (1888-1965); e lo fece non astrattamente, ma avendolo incontrato, conosciuto e frequentato a Londra tra la fine degli anni 1940 e l’inizio degli anni 1950, allorché Kirk studiava all’Università di St. Andrews, in Scozia, per il dottorato in Lettere inglesi.
In Eliot, infatti, americano di nascita e inglese di adozione, Kirk vede il punto di approdo della tradizione iniziata due secoli prima con il pensatore angloirlandese Edmund Burke (1729-1797) all’insegna dell’opposizione cosciente e organica all’ideologia nata dalla e con la Rivoluzione Francese (1789-1799). E la gran parte di quella tradizione culturale burkeana, sottolinea Kirk, attiene prima a un insieme di sensibilità, d’inclinazioni sia naturali sia coltivate attraverso l’educazione fornita dagli ambienti sociali in primis ma non solo la famiglia naturale, nonché di usi e costumi tanto ereditati quanto positivamente ricercati e “ricreati” che non a una filosofia vero nomine. Non a caso, dunque, al culmine di una filiera culturale popolata da un numero di uomini di lettere e di romanzieri maggiore di quel che d’acchito ci si aspetterebbe nella ricostruzione di una “storia del pensiero”, Kirk pone un poeta, seppur un poeta “filosofico”, e magari addirittura “politico”, qual è T.S. Eliot.
All’amico e maestro, Kirk ha del resto dedicato una delle biografie intellettuali più rotonde e riuscite tra quante, pur pregevolissime, sono state pubblicate anche successivamente, vale a dire Eliot and His Age: T.S. Eliot’s Moral Imagination in the Twentieth Century, uscito in prima edizione nel 1971, non fosse altro che per la capacità di penetrare intimamente nella visione delle cose che fu propria al poeta, liberandolo così elegantemente, ma senza censure indebite e pertanto inutili, dalle molte, troppe calunnie che ancora circolano sulla sua vita comunque travagliata e che dunque pesano sulla sua opera talvolta maldestramente fraintesa.
Ciò che in Eliot, e nella “sensibilità burkeana” di Eliot, colpì Kirk alla voce “conservatorismo” è la costante attenzione osservata dal poeta per ricondurre sempre le cose del mondo al loro principio e fondamento; di relativizzare il contingente per quel che esso può e quindi deve essere relativizzato in confronto a ciò che è invece permanente ed eterno; insomma di fondare metafisicamente la fisica e metapoliticamente la politica, la quale così ‒ per Eliot e dunque per Kirk ‒ non è mai solo uno scontro pur lecito fra opzioni possibili bensì il richiamo costante a prospettive non solo storiche, dunque eventualmente non solo di piccolo cabotaggio, e cioè la capacità e la voglia, nonostante la fatica e le difficoltà, d’intendere ogni elemento di ciò che è umano in prospettiva squisitamente e nobilmente religiosa.
Eliot, che nella sua produzione saggistica (forse non conosciuta quanto merita e certamente non quanto merita “usata”) cita e adopera bene il filosofo-contadino francese, maestro di tomismo vero, Gustave Thibon (1903-2001), per cui quel poco che di Thibon Kirk conosceva proviene da Eliot; Eliot, che in quella stessa produzione saggistica cita e adopera bene C.S. Lewis (1898-1963), cosa di per sé non scontata nei confronti di un contemporaneo ancora all’epoca in vita, pur se famoso e non estraneo, probabilmente anche fisicamente, alle frequentazioni del poeta; insomma Eliot, che, pur senza nominarlo, lascia in eredità il fatto di avere appreso molto di ciò che il vero conservatorismo angloamericano significa proprio leggendo uno scritto di Kirk, s’intendeva perfettamente con il suo ex discepolo e ora finalmente, all’inglese, peer, come più tardi illuminato biografo e interprete, sul fatto che non vi possa mai essere conservatorismo storico autentico che non si fondi su una solida prospettiva trascendente.
In un saggio pubblicato nel 1955 con il significativo titolo La letteratura della politica, Eliot esprime da par suo, cioè con il suo modus, il concetto in questi termini :
[…] mi preoccupo più del fatto che vi dovrebbe sempre essere scrittori preoccupati di penetrare fino al nocciolo della sostanza, desiderosi di arrivare alla verità e di affermarla, senza troppa speranza, senza l’ambizione di modificare il corso immediato degli eventi, e senza sentirsi scoraggiati o sconfitti quando pare che nulla ne consegua.
La giusta area, per questi uomini, è ciò che si può definire non tanto l’area politica, quanto l’area pre-politica. […] È in quest’area che i miei […] deboli talenti sono stati impiegati. […] E la mia difesa dell’importanza del pre-politico è semplicemente questa: esso è lo strato nel quale ogni pensiero politico, che voglia definirsi sano, deve affondare le proprie radici, e dal quale deve derivare il proprio nutrimento […] e, abbandonando del tutto il linguaggio figurato, è il dominio dell’etica — infine, il dominio della teologia. In quanto la domanda vera, quella a cui nessun tipo di filosofia politica può sfuggire, e quella alla quale deve dare una risposta, perché è sulla base della giustezza di quella risposta che ogni pensiero politico deve essere infine giudicato, è semplicemente questa: Che cos’è l’uomo? quali sono i suoi limiti? qual è la sua miseria e quale la sua grandezza? e quale, infine, il suo destino?
Ebbene, «l’importanza del pre-politico» ‒ anzitutto etica e quindi soprattutto teologica ‒ di cui Eliot scrive è la formula che implicitamente Kirk cercava, e che quindi trovò, per suggellare il proprio canone del conservatorismo. Trovatala, Kirk la citò dunque costantemente in interventi scritti e parlati anche con le parole di una seconda, equipollente, formula, sempre tratta da Eliot, questa volta dal suo L’idea di una società cristiana, del 1939, e cioè «realtà permanenti», come per esempio (ma è questo uno solo dei numerosissimi esempi possibili) testimonia il libro kirkiano del 1969 (addirittura precedente la sua biografia eliotiana) Enemies of the Permanent Things: Observations of Abnormity in Literature and Politics.
Grazie a Kirk, ma non esclusivamente per mezzo suo (il che irrobustisce la virtuosità della circostanza), «l’importanza del pre-politico» diventa un cardine ‒ Kirk ed Eliot e i par loro in inglese direbbero un tenet o un pillar ‒ di tutta la riflessione conservatrice angloamericana autentica, cronologicamente (solo?) successiva all’incontro fra Kirk ed Eliot; una riflessione che, in modo sovente esplicito e altre volte implicito (“automatico”?), è peraltro sempre kirkiana, come ancora una volta esemplarmente testimonia un libriccino piccolo quanto aureo firmato da uno di quei maestri americani di conservatorismo autentico che Eliot aveva imparato ad apprezzare non solo ma anche da Kirk (cioè da quel suo scritto sul conservatorismo che Eliot cita senza attribuzioni esplicite), vale a dire Robert A. Nisbet (1913-1996) autore nel 1986 di Conservatorismo: sogno e realtà (trad. it., a cura di Spartaco Pupo, Rubbettino, Soveria Mannelli [Catanzaro] 2011.
Sono questi corsi e ricorsi che del conservatorismo non danno per niente una lettura “disperatamente” ciclica, ma segnano un continuo tornare a ciò che fonda; poiché senza quel principio e fondamento il conservatorismo non sarebbe affatto.
Marco Respinti
Versione originale annotata ell’articolo pubblicato
con il medesimo titolo sul sito Comunità Ambrosiana di Alleanza Cattolica in Milano,
nella rubrica USA.. e non getta.
NOTE
(1) THOMAS STEARNS ELIOT (1888-1965), La letteratura della politica (1955), trad. it. in IDEM, Opere 1939-1962, a cura di Roberto Sanesi, Bompiani, Milano 1993, pp. 1276-1277.
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