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I Repubblicani stanno praticamente consegnando la presidenza a Hillary Clinton. A scriverlo sul New York Post è John Podhoretz, direttore del mensile Commentary (una delle testate da sempre più autorevoli del mondo neoconservatore) e figlio d’arte (suo padre, Norman, classe 1930, è considerato il co-fondatore, con Irving Kristol [1920-2009], dei neocon e Commemtary l’ha diretto per un quarantennio; sua madre, Midge Decter, classa 1956, è la madrina storica dei neocon). Un giudizio non di poco conto, visto l’ascendente che i neocon hanno sul Partito Repubblicano e la loro risoluta avversione per l’opzione Donald Trump.
Podhoretz (che ha definito Trump «Loki», il dio vichingo del malgoverno che nell’universo Marvel è un supercattivo da record) fotografa infatti la scena alla perfezione.
Il 15 marzo i Repubblicani hanno votato in Florida, Illinois, Isole Marianne Settentrionali, Missouri, North Carolina e Ohio. Il North Carolina ha assegnato 72 delegati con legge proporzionale, ma tutti i restanti Stati ne hanno consegnati 295 con il criterio “chi vince prende tutto”. Ha vinto ovunque Trump, tranne in Ohio dove ha avuto la meglio John Kasich, che di quello Stato è il governatore. Marco Rubio, umiliato nel suo Stato, la Florida, ha abbondonato la corsa. Ma Cruz si è difeso bene, tallonando d’appresso Trump in Illinois e Missouri, e non facendo male nemmeno in North Carolina. Quanto ai Democratici ha vinto tutto la Clinton (comprese le Marianne, dove i Democratici avevano votato il 12 marzo).
Ovvero, osserva Podhoretz, anzitutto Trump «continua a essere forte, ma non forte abbastanza». In secondo luogo, «Cruz è al secondo posto, ma sta guadagnando forza», avendo «vinto delegati a sufficienza per continuare ad affermare di essere l’unico altro candidato in grado di vincere rotondamente». Terzo, la vittoria di Kasich in Ohio rende la strada di Trump «immensamente più complicata […]», giacché «per Kasich è matematicamente impossibile vincere la nomination, ma il richiamo che egli esercita sui Repubblicani moderati può consentirgli di erodere qua e là il risultato di Trump». Morale, «così potrebbe continuare a essere d’ora in poi», con un unico risultato: «sarà il caos».
Lo spettro evocato da Podhoretz è quello della “Convenzione aperta”, quando nessuno dei candidati in lizza riesce a raggiungere nelle primarie la soglia di delegati necessaria a garantirgli la nomination e quindi decide tutto da sé la Convenzione nazionale del partito (quest’anno quella Repubblicana si svolgerà a Cleveland, nell’Ohio di Kasich, dal 18 al 21 luglio). Perché caos? Perché la cosa rientra nelle regole, ma, visto l’astio per Trump che nutre apertamente il Grand Old Party (GOP, l’altro nome dei Repubblicani), finirà in rissa. Con la possibilità persino che un Trump privato in modo che lui certamente (ma erroneamente) definirebbe illegittimo di quanto già sente suo di diritto possa influenzare milioni di elettori a non recarsi alle urne l’8 novembre oppure pensare di correre da indipendente. In entrambi i casi – eccoci al nocciolo del pensiero di Podhoretz –, trionferebbe Hillary Clinton, reginetta del ballo Democratico. Il che sarebbe una sciagura, vista la solidarietà ideologica totale sui temi più decisivi e importanti che esiste tra lei e Barack Obama: un prolungamento della già lunga malattia di cui gli Stati Uniti soffrono da otto anni.
Il voto “ad alto peso specifico” delle primarie del 15 (che ha aperto la “stagione” degli Stati dove si vota con il criterio “chi vince prende tutto”, il quale renderà più diretto lo scontro “uno contro l’altro”) rafforza insomma la necessità che i candidati anti-Trump, in corsa o fuori corsa, si uniscano sul campo delle primarie e non nel fumo delle manovre di partito; il fronte anti-Trump (cioè l’intero GOP) ne guadagnerebbero enormemente in immagine e scongiurerebbe la disaffezione di milioni di elettori preziosi. È molto tardi, ma in teoria è ancora possibile.
Una considerazione importante la merita però Rubio, il grande sconfitto. Chi ha cuore le dimensione più vera e nobile della politica, dai “princìpi non negoziabili” al bene comune, non può che augurarsi che la sua giovane carriera non finisca prematuramente qui.
La forza di Rubio era stato il movimento dei “Tea Party” e la sua constituency il ceto medio angosciato, ma entrambi gli hanno voltato le spalle accusandolo di avere tradito la “causa” una volta passato dall’essere presidente della Camera dei deputati della Florida a essere, nel 2010, senatore federale a Washington. In realtà, l’accusa si fonda praticamente “solo” sul fatto che a Washington Rubio ha brillato per assenteismo nelle sessioni di voto al Senato, alcune importanti. I “Tea Party” che vedevano in lui un grande alleato, sono rimasti delusi, e lo stesso ha fatto il ceto medio, che da angosciato a favore di Rubio si è trasformato in arrabbiato a favore di Trump. A Rubio è mancata insomma la sagacia di sapere coltivare bene il territorio.
Né gli ha giovato la candidatura (nei primi mesi delle primarie) dell’ex governatore della Florida Jeb Bush. Rubio era un suo protetto. Il patto non scritto era che mai si sarebbero candidati l’uno contro l’altro, ma il punto era decidere chi dei due avrebbe rinunciato. Nessuno lo ha fatto e quindi si sono indeboliti a vicenda. Rubio resta un bravo politico, un cattolico sincero, un gran conservatore, sarebbe un peccato uscisse di scena. Resta sempre l’unico Repubblicano realista (e anche caritatevole) a ribadire la necessità non certo di sanare alla leggera l’immigrazione illegale, ma di integrare gl’immigrati legali per farne una nuovo asset politico capace di rivitalizzare il GOP. Il quale invece, con la medicina Trump, rischia di ottenere qualche successo nell’immediato sull’onda della retorica e del populismo, ma alla lunga di autoghettizzarsi.
Marco Respinti
Versione completa e originale dell’articolo pubblicato con il titolo
Così i Repubblicani regalano la vittoria alla Clinton
in La nuova Bussola Quotidiana, Milano 17-03-2016
Importante l’articolo di Rino Cammilleri sulla trasmutazione di tutti i valori nel mondo dei supereroi. Mette il dito in quella piaga purulenta che è l’aggressione ai più giovani nelle loro emozioni e passioni, nei loro ideali e fragilità, nel loro essere uomini già e non ancora.
Amo anch’io i supereroi americani fin da quando ero bambino e il mio preferito è sempre Batman (cavaliere, dotato di poteri solo umani talvolta troppo umani, tormentato, gotico, generoso, in eterno ritorno), perché secondo me è il suo il costume più bello di tutti. Cammilleri non sbaglia un aggettivo né una virgola, il male che si sta facendo al nostro futuro avvelenando quella che T.S. Eliot chiamava rising generation è enorme. Meglio sarebbe buttarsi nel mare con una macina da asino al collo. Forse però c’è persino un modo diverso di affrontare la narrativa della new age dei supereroi.
Ne parlano i grandi quotidiani nazionali. L’insostenibile leggerezza dell’attacco LGBT si nutre anche della malapianta del chiacchiericcio e della calunnia. Ma il disordine omosessualista dilaga tra i supereroi perché (come dice Cammilleri), la società, la società che legge i fumetti, è cambiata; e quindi, in ossequio alle ferree leggi del marketing ‒ lo nota indispettita anche la comunità LGBT ‒, il produttore dà al consumatore ciò che questi si aspetta, che sennò i suoi soldi li spende altrove. Il punto è precisamente questo. Sono mutati, e mutano con una vorticosità esponenziale, i criteri di riferimento del mondo e gli standard di giudizio delle persone. A normalizzare l’ideologia di gender siamo cioè noi, non i supereroi. Il marketing segue a ruota perché fa quello che vogliamo noi, che vendiamo i mutamenti contro denaro sonante. Un circolo autoreferenziale.
Questo però significa che i supereroi, loro, restano sempre sé stessi. Siamo noi, produttori-consumatori, a cambiare, a farli cambiare, a modificare lo scenario di riferimento in cui poi li facciamo agire per non diminuire i dividendi. E infatti loro, i supereroi, catapultati improvvisamente in un mondo diverso, si muovono a disagio, sono goffi, non rendono. Ma li vedete? Nati per combattere il Male, per difendere l’orfano, la vedova e il debole, per far trionfare la giustizia, per propiziare l’avvento di quella che J.R.R. Tolkien chiamava “eucatastrofe” (il capovolgimento improvviso della trama che assicura il lieto fine, la “fiaba” massima essendo dunque il Vangelo, mito che si fa storia vera), si trovano ad abitare disegni in cui stringono la manina di una comparsa del loro stesso sesso, in cui amoreggiano safficamente tra sole donne, magari presto a rifarsi iperbolicamente i sessi (perché infatti accontentarsi di uno solo quando si è super?) grazie, che so, a un improbabile ricondizionamento del Tesseract degli dèi.
Sono impacciati e imbarazzati i supereroi perché l’onda gay e il culto trans non sono normali. Loro super infatti lo sono proprio per questo. Dei normali mortali incarnano il meglio, il massimo, l’ideale, le virtù. Se però il mondo dei normali attorno a loro impazzisce, loro perdono l’orientamento, si sborniano, cadono. Ma la colpa è tutta nostra. Loro sono soltanto la nostra progenie; loro sono solo il massimo delle nostre aspirazioni, il nostro cuore lanciato oltre l’ostacolo. Se le nostre aspirazioni sono infime, e il cuore piccolo e l’ostacolo basso, loro si trasformano in supermeschini. Come superbamente scrive Francesco Guccini (il cui anarchismo puro lo rende simile a un Don Chisciotte almeno in pectore cristiano) nella bellissima Cirano (praticamente L’avvelenata riscritta con l’eucatastrofe): «e voi materialisti, col vostro chiodo fisso,/ che Dio è morto e l’ uomo è solo in questo abisso,/ le verità cercate per terra, da maiali,/ tenetevi le ghiande, lasciatemi le ali;/ tornate a casa nani, levatevi davanti,/ per la mia rabbia enorme mi servono giganti». Dei nostri supereroi abbiamo fatto dei maiali e dei nani a nostra immagine e somiglianza.
I supereroi, però, restano appunto innocenti. Restano maschi i maschi, femmine le femmine, puri i puri, villain e i villain. Sì, dagli anni 1990 in casa Marvel ci sono X-Men che fanno coming out, Giovani Vendicatori gay e Runaways lesbiche a cui l’eterna rivale DC Comics risponde omosessualizzando Lanterna Verde e il mio Batman. Ma il matrimonio lesbico di Batwoman è pur stato bloccato. Se in loro sapessimo vedere ancora l’uomo migliore cui per natura aspiriamo, tutto ci tornerebbe chiaro.
Infatti, nella serie televisiva Flash di cui ci ha ben parlato Cammilleri l’omosessuale è il capo della polizia, non l’eroe Berry Allen che resta se stesso, ama donne e incarna ancora il nostro sogno migliore; a cambiare è lo scenario che gli abbiamo voluto mettere noi produttori-consumatori. Nella serie tivù Arrow, la lesbica è Nyssa, la perfida figlia del supercattivo Ra’s al Ghul (sorella o sorellastra di Talia); per salvare la vita a Oliver Queen, Sara Lance cede alle sue voglie perverse. Ma è una grande metafora. Oliver e Sara erano due farfalloni; Oliver era fidanzato con Laurel, la sorella di Sara, ma viene tradita dagli affetti più cari. I due fedifraghi s’imbarcano sul Queen’s Gambit per un’avventura di sesso e champagne, ma un evento inatteso ne stravolge le vite, li sprofonda agl’inferi e da qui i due risorgono avendo imparato ad amare la vita, il prossimo, la virtù e ogni istante di quel tempo loro concesso che inesorabile scorre e mai ritorna. Sara non è lesbica: si concede alla lesbica Nyssa per difendere il suo vero amore. Un paradosso, certo; ma il mito è fatto tutto così. Insomma, la lesbica della serie è cattivissima, uccide l’amore vero e puro, si danna e danna. Nessuna condiscendenza, ma un’occasione per riflettere. Oliver ne esce votandosi al bene nei panni di Arrow e Sara uguale come Black Canary; alla fine lei paga con la vita il male commesso perché comunque non è lei la donna destinata a Oliver.
Come nella letteratura horror autentica, dove le brave ragazze vanno in Paradiso, le bad girl vanno ovunque e con chiunque, e appunto su di loro, non sulle altre, si abbatte sempre il male. La casa editrice Zenescope, di Horsham, in Pennsylvania, 10 anni di attività a crescita vorticosa appena celebrati, ne ha fatto un vero e proprio genere, rivisitando le fiabe dei fratelli Grimm, Robin Hood, Il libro della giungla e Alice nel paese delle meraviglie tra reggicalze da capogiro e rigore morale impeccabile. E il dio vichingo Heimdall al cinema è nero per colpa delle “quote razziali” con cui vengono selezionati da anni i cast, frutto di quell’assurda Affermative action che invece di emancipare le minoranze ha prodotto razzismi al contrario; nell’olimpo di Asgard, infatti, gli iperborei restano iperborei. Colpa nostra, non degli eroi.
In quelle scuole dove ancora l’obiettivo primo e unico è l’educazione della libertà e alla ragione dei ragazzi nell’età-chiave delle medie (non molte in verità, e per lo più cattoliche, guarda caso) si legge l’Iliade e si rivive Lo Hobbit, ci si cala dentro Bravo, Burro! di John Fante e si recita in teatro L’isola del tesoro di Roberto Louis Stevenson. Storie in cui i ragazzi s’identificano totalmente perché i loro protagonisti sono bambini (o pusillanimi) che diventano uomini, esattamente come loro a quell’età. Esattamente come tutti, sempre, impegnati a tornare evangelicamente ogni giorno bambini per cercare di guadagnarsi il Cielo da uomini compiuti. Gli eroi, a fumetti, in tivù, al cinema, ci aiutano a farlo, se noi lo permettiamo.
Marco Respinti
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