Qualcosa di nuovo sul fronte orientale, e di portata storica: «Per la prima volta, dopo tanti decenni, oggi tutti i vescovi in Cina sono in comunione con il vescovo di Roma», ha detto il Segretario di Stato vaticano, mons. Pietro Parolin. Ieri, infatti, la Santa Sede ha riconosciuto sette vescovi validi per Roma ma ordinati illecitamente da Pechino, gli ultimi sette: i monsignori Giuseppe Guo Jincai, Giuseppe Huang Bingzhang, Paolo Lei Shiyin, Giuseppe Liu Xinhong, Giuseppe Ma Yinglin, Giuseppe Yue Fusheng e Vincenzo Zhan Silu. I cattolici cinesi sono infatti spaccati in due dal 1951, quando la Cina comunista ruppe con Roma: da un lato l’Associazione patriottica cattolica cinese creata e controllata dal regime dal 1957, dall’altra la Chiesa Cattolica clandestina, fedele, perseguitata, irta di martiri. Ma da ieri almeno la Chiesa gerarchica cinese torna a essere una.
L’evento storico è solo questo, non l’inesistente scoop del Wall Street Journal, smascherato su queste pagine domenica scorsa, quando Cina e Chiesa sembravano pronte a un accordo tombale di riconoscimento reciproco, con una delegazione vaticana in arrivo a Pechino. Fa testo il comunicato stampa ufficiale della Santa Sede, che definisce quello di ieri «un Accordo Provvisorio sulla nomina dei Vescovi». E basta. Per di più segreto, come ricorda il sociologo delle religioni Massimo Introvigne sul quotidiano internazionale specializzato Bitter Winter. Nessuna legittimazione vaticana, insomma, del regime neo-post-comunista cinese che fa guerra a ogni religione.
Del resto, già Papa Benedetto XVI stabilì che fosse Pechino a scegliere i vescovi cinesi e il Vaticano ad approvarli. O a bocciarli, come accaduto in diversi casi. Ora quindi, mentre la Chiesa filocomunista e quella romana restano nemiche, almeno le diocesi cinesi avranno ognuna un solo vescovo. Compromessi così la Chiesa li ha peraltro sempre conclusi, dal Medioevo al Settecento illuminista e all’Ottocento delle Rivoluzioni, quando in minoranza o minacciata. E l’esperienza dell’Est europeo con san Giovanni Paolo II dice che lavorare dall’interno alla fine paga. Come ha detto il portavoce della Sala stampa vaticana, Greg Burke, «questa non è la fine di un processo. È l’inizio!». Il via libera al regime non c’è, sette vescovi cattolici in più sì. E Taiwan (la Cina riconosciuta dalla Santa Sede) rilancia chiedendo che nella Cina continentale vi sia più libertà religiosa.
Non la pensa però così il cardinale Giuseppe Zen Ze-kiun, vescovo emerito di Hong Kong, simbolo vivente della resistenza a ogni compromesso, da sempre critico della gestione Parolin, di cui venerdì ha persino chiesto (esagerando) le dimissioni. In una dichiarazione fatta pervenire ad AsiaNews, l’agenzia di stampa ufficiale del Pontificio Istituto per le Missioni Estere, definisce l’accordo un «capolavoro» per «dire niente con tante parole». Provvisorio, non si dice che durata avrà; sarà valutato periodicamente, ma non si dice quando; e le due parti potranno modificarlo o anche annullarlo. Sul resto, silenzio. Più spaventata che adirata, è la voce di chi guarda in faccia il comunismo cinese tutti i giorni e teme di essere sacrificato sull’altare della distensione.
Marco Respinti
Versione originale e completa dell’articolo pubblicato con il medesimo titolo in Libero [Libero quotidiano], anno LIII, n. 262, Milano 23-09-2018, p. 10
Oggi si sente parlare di più delle virtù, ma non di quella che è stata definita “la madre di tutte le virtù”, vale a dire la prudenza. Troppo spesso per prudenza s’intende la cautela o il fare prestare attenzione. E così, quando sente dire che per Tommaso o Aristotele la prudenza è il prerequisito delle altre virtù, le gente avverte la cosa come strana o persino contraddittoria. Essere “prudenti” sembra infatti essere l’opposto dell’essere coraggiosi.
A questo proposito, io uso mostrare ai miei studenti il bellissimo film Uomini di Dio, che narra di alcuni monaci trappisti francesi martirizzati in Algeria e di cui è in corso la causa di beatificazione. Agli studenti domando di dirmi se ritengano “prudente” la decisione presa da quei monaci di restare in Algeria pur sapendo che nella zona erano presenti terroristi decisi a uccidere gli stranieri, specialmente se cristiani. La loro risposta immediata è che quei monaci sono stati molto imprudenti. «Sono stati dei matti», mi ha detto uno studente. «Dunque ritenete che abbiano sbagliato a restare?». «No, hanno fatto la cosa giusta». «Ma sono stati dei matti?». «Sì», mi ha detto una giovane. «Sono stati dei matti: ma nel senso giusto».
In una cultura tanto incentrata sull’autonomia individuale qual è la nostra, forse è questo il modo in cui sentiamo il bisogno di descrivere il concetto classico di prudenza: quel tipo di prudenza che porta le persone a rischiare la propria vita per gli altri, l’essere matti nel senso giusto.
Michael Wheelan, “Prudence II”, 1997
I pompieri esperti dicono ai colleghi più giovani: «Qui non abbiamo bisogno di eroi!». Naturalmente i vigili del fuoco sono tutti eroi per ciò che fanno quotidianamente. Ma allora cosa intendono dire i più anziani ed esperti? Intendono dire che non ci si getta mai a capofitto in un edificio in fiamme; farlo è infatti una sciocchezza, e verosimilmente si finisce per rimetterci la vita, provocando pure il ferimento degli altri che cercano di salvarci. Avere coraggio significa invece fare la cosa giusta nel modo giusto al momento giusto.
La prudenza è cioè la virtù intellettuale che ci consente d’individuare il mezzo fra gli estremi. Mi getto o no in un edificio che va a fuoco per salvare una persona intrappolata all’interno? Probabilmente no, se sono una fragile donna di 80 anni e se la persona all’interno pesa 130 chili. Ma forse sì, se sono invece un robusto difensore di football americano che ha ricevuto un po’ di addestramento da pompiere volontario. Mi tufferò per salvare un uomo che annega a 400 metri dalla riva? No, se non so nuotare. Cercherò certamente di fare qualcosa, ma cosa farò avrà molto a che fare con le mie capacità e con quella situazione concreta. Dovrò insomma essere prudente.
Spesso il concetto classico di prudenza non è granché popolare né tra i fautori del moralismo fatto solo di regole rigide né tra quanti auspicano invece il relativismo morale. Un certo tipo di moralisti legalitari, influenzati da Immanuel Kant e dall’idea che i princìpi morali siano fatti di “massime universali” applicabili in modo identico a qualsiasi circostanza, hanno difficoltà ad accettare quello che considerano il “relativismo” insito nel concetto di prudenza.
Mi getto o no per salvare un uomo che affoga? Le uniche risposte tollerate da quel tipo di persone sono “sì” o “no”, supponendo che ognuno di noi sia in grado di formulare una massima universale da applicare poi a tutte le persone e a tutte le situazioni. Per i moralisti di questa fatta, la domanda non è semplicemente cosa debba fare io, ma ciò che tutti e ognuno debbano fare in quel frangente.
Si formulano, dunque, regole morali per ogni situazione specifica: «Devi tuffarti a salvare quell’uomo a meno che tu non sappia nuotare». E se fosse in corso una tempesta fortissima? «Devi tuffarti a salvare quell’uomo a meno che tu non sappia nuotare o a meno che non sia in corso una tempesta fortissima». Sì, ma forte quanto? Insomma, non è possibile stabilire una regola per ogni eventualità concreta. Va invece esercitata la prudenza: che è la virtù che consente di applicare princìpi generali alle situazioni specifiche.
Dato che, esercitando la prudenza, ciò che si deve fare è “relativo” al soggetto e alla circostanza, se non altro in parte, ai moralisti cui sono care le regole rigide la cosa sembrerà sostanzialmente simile all’“etica del momento” e al “relativismo morale”. Né la concezione classica della prudenza piace però di più appunto ai relativisti morali, e questo proprio perché essa insiste sul fatto che il “mezzo” è una misura oggettiva.
In questa prospettiva, la prudenza è diversa dalla concezione che i moderni hanno della coscienza intesa come la facoltà che spinge le persone a stabilire quel che è giusto “per sé”. Prendiamo per esempio l’alcol: la misura giusta per voi può essere diversa da quella che è per me, ma nessuno di noi dovrà mai mettersi alla guida di un’auto se è in stato di ebbrezza. E che io sia in grado di guidare in modo sicuro non è certo un argomento soggettivo.
Così pure, se alla vostra porta suonano dei profughi ebrei che scappano dai nazisti, è vostro dovere fare tutto ciò che è in vostro potere fare per aiutarli, sia che vi “sentiate” o no di farlo. Ciò che concretamente dovete fare richiede invece prudenza. Ma la persona prudente applicherà il principio generale che obbliga a proteggere la vita umana a quella circostanza specifica e poi trarrà le conseguenze: «Devo aiutare questa gente come meglio posso».
Così pure, ancora, se un bambino nel grembo della propria madre è la conseguenza di un rapporto sessuale, la virtù della prudenza impone che, prima di tutto, l’idea di terminare la vita di quel piccolo sia fuori discussione. Punto. Scegliere se crescere quel bimbo o se darlo in adozione implica un esercizio ulteriore della prudenza.
Aiutare i profughi ebrei e portare a termine la gravidanza di un bambino richiedono coraggio. Anche avere la presenza di spirito di elaborare un giudizio richiede coraggio. Questo è uno dei motivi per cui Aristotele e san Tommaso d’Aquino parlano spesso dell’interconnessione fra le virtù.
Sovente la gente parla di “coscienza” come se si trattasse di una questione puramente mentale, come se le nostre scelte fossero indifferenti ai desideri, alle passioni e ai pregiudizi. Faremmo invece meglio a concentrarci sullo sviluppo della virtù della prudenza in tandem con le altre virtù morali, virtù che ci rendono capaci di elaborare giudizi morale assennati.
Il che non significa seguire semplicemente delle regole senza fare caso agli scopi che quelle regole sono fatte per servire, ma nemmeno significa fare ciò che ci si “sente” senza rendersi conto che il nostro “sentire” potrebbe essere dettato da vigliaccheria, abuso o faziosità. Essere prudenti significa applicare i princìpi generali in modo saggio, coraggioso e misurato, assieme alle virtù generate dall’amore, a ogni circostanza specifica.
Traduzione di Marco Respinti
*Randall B. Smith è docente di Teologia nella University of St. Thomas di Houston, in Texas. L’articolo qui tradotto è stato pubblicato il 20 giugno 2018 sul quotidiano online The Catholic Thing, diretto a Washington da Robert Royal, con il titolo Crazy in the Right Way.
Dal 1641, il Giappone è stato il “Sakoku”, ovvero “il Paese blindato”. Nessuno entrava, nessuno usciva. Gli stranieri erano i nemici, e ovviamente i cattolici erano per definizione gli “stranieri”, quelli “al soldo” degl’intrighi vaticani: i missionari, ma lo stesso anche i convertiti giapponesi. Anzi, questi ultimi erano doppiamente colpevoli perché traditori della patria, dell’imperatore, della religione dei padri, dell’etica del bushido. Fa niente se tra i convertiti al cattolicesimo vi erano alcuni tra i migliori samurai che diedero la vita per non cedere alla tracotanza degli shōgun e se pure chi non era samurai viveva la fede cristiana con il coraggio di un leone pagandola ugualmente con la vita propria e dei propri cari. Del resto, a qualcuno il muro giapponese era concesso penetrarlo: alcuni selezionatissimi partner commerciali per lo più regionali più i calvinisti dei Paesi Bassi, che nelle persecuzioni anticattoliche voltarono, diciamo così, il capo altrove. I veri nemici degli shōgun torturatori erano infatti la Spagna e il Portogallo cattolici, nemici anche per i calvinisti fiamminghi. A quest’autarchia insanguinata misero poi fine nel 1853 le cannoniere del commodoro statunitense Matthew Perry (1794-1858).
Per oltre due secoli, dunque, essere cattolici in Giappone ha significato martirio e clandestinità. Ma anche quando la persecuzione è gradualmente terminata, i cattolici giapponesi sono rimasti una minoranza per lo più estraniata. Immaginiamoci dunque il brivido che ha potuto percorrere un cattolico del Sol Levante nell’anno di grazia e tondo tondo 1900, il giro di boa del secolo, di quel secolo che si sarebbe poi rivelato buio e tempestoso, il più truce di tutta la storia ma che allora si ubriacava nel mito bohémien della Belle Époque come se non ci dovesse essere un domani, immaginiamoci appunto il brivido di un cattolico giapponese di un tempo così nel trovarsi tra le mani le pagine di un racconto di Natale, un racconto cattolico di Natale (oramai bisogna specificarlo), per di più non d’importazione, ma autenticamente giapponese, scritto a caratteri verticali nella lingua degli stessi shōgun persecutori, firmato da un autore cattolico sì e giapponese pure. Cose da banditi, insomma, e al tempo stesso di una consolazione spirituale immensa. Un fremito da mettersi a lacrimare di commozione e di gioia. Ebbene, la cosa è una bella favola di Natale sì, ma assolutamente vera. Lo racconta il portale d’informazione Nippon.com, che viene pubblicato in sette lingue, con un articoletto straordinario.
Nel 1900, appunto, Shindō Nobuyoshi pubblicò Santa Kurō, uno dei primi libri giapponesi su Babbo Natale. Sì, Babbo Natale, noto pure come Santa Claus, che però è ed è sempre stato solo san Nicola, il generoso vescovo amico dei più deboli e indifesi tra i primi i bambini e di cui la tradizione cattolica ha fatto un simbolo gioioso dell’Avvento. Scrive il portale Nippon.com che «la narrazione semplice e la forte tematica cristiana» di Santa Kurō «[…] si pone in netto contrasto rispetto al modo ampiamente secolarizzato con cui il Giappone vive il Natale oggi».
Si tratta di un racconto ambientato nel Giappone rurale di quegli stessi anni, quello del periodo Meiji (1868-1912) succeduto al tempo del “Paese blindato”, un’epoca di mutamenti profondi. Gli Hayashi sono un famiglia di cattolici devoti, il papà, la mamma e il piccolo Mineichi di otto anni. Vivono sui monti della prefettura di Nagano nella regione di Chūbu, la parte centrale di Honshū, la maggiore delle isole nipponiche. È notte, e nevica abbondantemente. La famiglia si gode serenità e tepore attorno al focolare. D’un tratto il cane Buchi deposita un berretto ai piedi di Mineichi. Qualcuno ha bisogno di aiuto. Il papà, attrezzata la slitta, si precipita nell’oscurità tempestosa con il piccolo Mineichi guidato da Buchi. Sul ciglio della strada quasi cancellata dalla neve scorgono un viaggiatore svenuto. Lo prendono con sé, sotto il proprio tetto confortevole. La mamma getta nel camino una fascina di paglia dopo l’altra, ma tutto appare vano, lo straniero sembra perduto. Eppure no… socchiude gli occhi, è vivo. Lentamente si riprende e si presenta. Si chiama Iguchi Gohei, ha 50 anni ed è un contadino di un villaggio lontano. Gli Hayashi sono al settimo cielo. Sono riusciti a salvargli la vita. È il momento di far festa. Tra una cosa e l’altra, Gohei capisce che i suoi salvatori sono cattolici. Lui invece è scintoista. Trema. Ha paura che quegli “stranieri” avvelenino la sua anima. Dopo tre giorni, ripresosi completamente, ringrazia sentitamente e riprende la via di casa.
Trascorrono i mesi, giunge la primavera, tutto per gli Hayashi va al meglio fino al giorno in cui il papà viene colpito da un male misterioso. Lo visitano dottori su dottori, lo assiste un sacerdote, ma niente, le sue condizioni peggiorano. Passano le settimane, arriva l’autunno, la morte quasi rapisce il pover’uomo che però improvvisamente un giorno guarisce, commuovendo la famiglie e gli amici, sacerdote compreso. Salvo però accorgersi poi tutti che, a causa del trambusto degli ultimi tempi, nessuno ha pensato ad accudire i campi, nessuno li ha seminati e l’inverno è oramai alle porte senza che gli Hayashi abbiamo immagazzinato il fabbisogno per i rigori dei mesi futuri. E tra l’altro quest’anno il piccolo Mineichi non potrà avere nemmeno il suo regalo di Natale. Sconforto generale.
Arriva dunque il 25 dicembre. All’alba Mineichi apre gli occhi e, con sorpresa somma, vede il letto circondato di regali. Cerca di svegliare la mamma, ma la donna è stravolta, provata dalle fatiche degli ultimi giorni. Ha più fortuna con il papà, che strabuzza gli occhi davanti a tanta abbondanza. Assieme leggono il biglietto che accompagna pacchi e pacchetti: «Ti offro questi doni perché hai seguito gl’insegnamenti di Dio e perché hai aiutato tuo papà a salvare la vita di quel viaggiatore. Ben fatto, ragazzo mio». Firmato «Il vecchio del Nord, Santa Kurō», che in caratteri nipponici è 三太九郎
Era infatti successo che, la notte della vigilia, alla porta degli Hayashi si era inaspettatamente ripresentato Gohei. Con sé recava tre borsoni ricolmi di doni e pure due grandi sacchi di riso trascinati da 45 robusti giovanotti. C’era dentro di tutto: abiti, libri e persino denaro. Gohei ha insomma salvato il Natale e il Natale di Gohei ha salvato gli Hayashi. Forse però prima di tutto il Natale ha salvato Gohei. Forse Gohei è stato convertito nelle sue paure dall’esempio puro di quella bella famigliola. Forse era ben più che un uomo. Forse… le favole sono belle perché non spiegano razionalmente tutto e la nostra impossibilità di leggere direttamente il testo giapponese di Santa Kurō fa il resto.
Una cosa sola è certa. Suonano le campane della chiesetta del villaggio, si odono in lontananza i canti: è Natale. Sì, è il Natale di Cristo anche nel Giappone del 1900 quando pochi, pochissimi erano sopravvissuti per conservare la fede, lo è persino nel Giappone secolarizzato di oggi che non crede più a nulla mentre la favola Santa Kurō torna inaspettata dalle tormente delle nevi invernali. Una piccola cosa, davvero piccola. Ma immaginate l’enorme, divina differenza che fa nel deserto angosciante del martirio rosso di ieri e del martirio bianco di oggi. Dunque Merii Kurisumasu, メリークリスマス, cioè “buon Natale” in quella lingua del Sol Levante che un termine tutto suo per dire “Natale di Cristo” non ce l’ha nemmeno.
La Catalogna è indipendente, anzi no. Martedì 10 ottobre, il presidente della “Generalitat de Catalunya”, Carles Puigdemont, ha dichiarato l’indipendenza e contestualmente l’ha sospesa girando la patata bollente al primo ministro di Spagna, Mariano Rajoy, del quale non è necessario essere dei grandi fan per condividere la domanda affatto retorica che ha rivolto ai forse-secessionisti il giorno seguente: fate ancora parte dello Stato spagnolo oppure no?
Mentre le risposte, e le conseguenze, si fanno attendere, sull’intera faccenda aleggia inevitabilmente lo spettro di Lluís Companys i Jover (1882-1940), l’unico uomo politico ad avere dato l’indipendenza alla Catalogna. Per 11 ore.
Barcellona, 6 ottobre 1934, il presidente della “Generalitat de Catalunya” , Lluís Companys, proclama l’indipendenza
Avvocato, attivista della Sinistra, finito in carcere durante la dittatura di Miguel Primo de Rivera y Orbaneja (1870-1930), membro eminente dell’Esquerra Republicana de Catalunya (ERC, cioè la Sinistra Repubblicana di Catalogna), il partito indipendentista fondato nel 1931 da Francesc Macià i Llussà (1859-1933), il 12 aprile 1931 Companys viene eletto sindaco di Barcellona. Passano due giorni e il 14 aprile, esiliato il re Alfonso XIII di Borbone (1886-1941), viene proclamata la Seconda Repubblica Spagnola, incubatrice delle violenze generalizzate e delle persecuzioni anticattoliche dispiegatesi in grande stile soprattutto a partire dal 1936, quando alle elezioni del 16 febbraio trionfa il Frente Popular, il cartello delle sinistre. Della repubblica Companys è un sostenitore entusiasta. A Barcellona s’insedia deponendo il predecessore armi in pugno. Poi viene eletto nel parlamento spagnolo, collabora alla stesura della Costituzione repubblicana, nel 1932 viene eletto nel “Parlament” catalano, l’anno seguente è ministro della Marina spagnola, quindi viene rieletto nel parlamento spagnolo e, sempre nel 1933, succedendo a Macià, morto improvvisamente, diviene sia leader dell’ERC sia presidente della “Generalitat di Catalunya”. È in questa veste che, in un clima di alta tensione con Madrid, matura lo strappo. Approfittando di uno sciopero generale nazionale inscenato dai sindacati di sinistra il 5 ottobre 1934 contro il nuovo governo (comunque cambiato il 4 ottobre) che il 1° del mese aveva affidato tre ministeri ad altrettanti rappresentati della Destra cattolica, Companys forza gli eventi. Il 6 ottobre dichiara l’indipendenza. Sono le 8 di sera. Alle 7 del mattino seguente Companys è in manette; a terra restano una ventina di persone cadute durante gli scontri fra poliziotti catalani e forze dell’ordine spagnole. Companys è condannato a trent’anni di carcere, ma nel 1936 il Frente Popular lo libera rimettendolo alla guida del governo regionale catalano appena prima che scoppi la rivolta militare da cui scaturisce la Guerra civile (1936-1939). Quando, nel 1939, i militari si avvicinano a Barcellona, Companys fugge in Francia. Nel 1940 la Gestapo nazionalsocialista tedesca lo cattura a Parigi e lo riconsegna a Madrid, dove il 15 ottobre è fucilato.
Un martire della libertà, dunque? Non esattamente. La figura ritratta da Javier Barraycoa Martínez, cattedratico della facoltà di Scienze Politiche dell’Universidad Abat Oliva CEU di Barcellona, nella monografia Los (des)controlados de Companys. El genocidio catalán, julio 1936-mayo 1937 (Libroslibres, Madrid 2016) rivela piuttosto il profilo di un macellaio, responsabile dell’eccidio, in meno di un anno, di circa 9mila suoi compatrioti catalani.
È infatti nella Catalogna governata da Companys che la “revolución social española” del 1936 mostra il volto più mostruoso. Le più belluine sono le formazioni anarchiche con cui il presidente della “Generalitat” ha stretto un patto di ferro. Come sottolinea e spiega Barraycoa, non si trattò infatti di eccessi sfuggiti di mano, ma di una mattanza voluta e orchestrata a partire da quel 21 luglio in cui Companys crea il Comitè Central de Milícies Antifeixistes de Catalunya accogliendo le richieste dei sindacalisti anarchici della Confederación Nacional del Trabajo. Squadre stragiste con la scusa dell’“antifascismo”.
Particolarmente greve è la persecuzione della Chiesa Cattolica: 2.441 ecclesiastici (1.538 sacerdoti, 824 religiosi e 76 suore) di cui tre vescovi vengono assassinati. L’apice si ha in agosto, quando vengono ammazzati 70 sacerdoti al giorno. A Lérida viene sterminato il 65% del clero, a Tortosa il 62, a Vic il 27, a Barcellona il 22, a Gerona il 20, nella contea di Urgell il 20 e a Solsona il 13. In totale, è in Catalogna che viene eliminato il 35% di tutto il clero spagnolo. Poi si bruciano chiese e conventi: a Barcellona 500; fra queste, anche la cripta della Sagrada Familia, compresi gli schizzi, i bozzetti e i progetti dell’architetto Antoni Gaudí (1852-1926). Del resto, nemmeno la sua tomba è stata risparmiata.
Tra gli oppositori politici delle Sinistre, vengono ammazzati 1.199 carlisti (i legittimisti monarchici cattolici), 281 membri della Lliga Regionalista (conservatori catalanisti), 117 dell’Acción Popular Catalana (monarchici conservatori cattolici), 110 del Sindicato Libre (il sindacato creato dai carlisti), 108 della Falange Española di José Antonio Primo de Rivera (1903-1930), figlio del dittatore Miguel, 213 della Confederación Española de Derechas Autónomas (il partito che nel 1934 aveva dato tre ministri al governo repubblicano, scatenando lo sciopero generale del 5 ottobre), 70 di Renovación Española (monarchici conservatori) e 36 dell’Unión Patriótica (il partito fondato da Miguel Primo de Rivera). Quindi 54 giornalisti, 31 nobili, 52 membri del Círculo Ecuestre di Barcellona, l’antico e blasonato social club sportivo, colpevoli solo di non essere “proletari”, e almeno 17 fra poeti e scrittori (molti altri fuggono all’estero).
L’ERC contava quasi 50 centri di detenzione e alcuni centri di tortura. Ai sacerdoti spesso si gradiva riempire la bocca con i testicoli asportati e molte sono state le donne incinte sventrate. Companys, che non disdegnava le sedute spiritiche in compagnia di esponenti comunisti, supervisionava e governava tutto. Barraycoa, autore tra l’altro di Historias ocultadas del nacionalismo catalán (Libroslibres, 2011) e di Cataluña hispana (Librolibres, 2013), non è tenero con l’indipendentismo dei propri compatrioti catalani. Ma la minoranza secessionista della Catalogna di oggi, dove l’ERC di Companys fa parte della coalizione di governo, ha fatto i conti con questa storia censurata?
Antigone, cantata nell’omonima tragedia di Sofocle, obbedì a una morale più alta della legge e della religione degli uomini; per dare degna sepoltura al fratello, Polinice, sfidò il re di Tebe, Creonte, e questi la relegò a vita in una spelonca. Elisabetta Gardini, capogruppo di Forza Italia a Bruxelles, chiosa così il senso del convegno Le donne nell’islam tra repressione ed emancipazione, che ha organizzato, sotto l’egida del Partito Popolare Europeo, ieri a Roma, nell’Aula della Commissione Difesa del Senato a Palazzo Carpegna. È fuori moda, ma è il diritto naturale; quella carta d’identità della persona umana che la fa titolare di diritti inalienabili che nessuno Stato o maggioranza può conculcare e che precede – Antigone lo sapeva bene – ogni potere. Non vi è fede o cultura che tenga, dunque, davanti al supplizio di donne nascoste alla vista, senza diritti, schiavizzate, sposate ancora bambine a uomini turpi, mutilate sessualmente, uccise. È un discorso delicato, certo, perché tra i diritti inalienabili vi è la libertà religiosa, e pure perché molte delle donne vittime sono al contempo complici di queste tragedie, ma è un discorso che va fatto presto. Impossibile, infatti, tacere davanti a Lamiya Haji Bashar, irakena, per mesi prigioniera dell’incubo Isis con l’unica colpa di essere yazida. Premio Sacharov 2016, ha visto e subìto l’inferno. Non trattiene le lacrime ricordando una madre violentata per giorni davanti agli occhi del figlioletto, che siccome, mentre la bestia si sollazzava, chiamava la mamma, è stato ammazzato come un insetto.
Da sinistra a destra: Mirza Dinnayi, Paolo Licandro (vice Segretario generale del Partito Popolare Europeo), Marco Respinti, Lamiya Haji Bashar al Convegno di Roma
Mirza Dinnayi, yazido irakeno che in Germania dirige la Ong Luftbrücke Irak, è convinto che l’Europa debba intervenire contro tanta brutalità, ma soprattutto non scordare di essere, pur acciaccata com’è, uno spazio di libertà unico. Sulla medesima lunghezza d’onda Zeljana Zovko, della delegazione interparlamentare per le relazioni con la Bosnia Erzgovina. È a questo punto che si è levato, vibrante, il richiamo alle misconosciute radici cristiane dell’Europa, anzi greco-romano-cristiane (per non scordare mai Antigone), lanciato tanto dal pubblico (una giovane dirigente di Forza Italia, una esponente della Società Operaia dell’indimenticato Luigi Gedda), quanto dal tavolo degli oratori.
Lorenzo Cesa, segretario politico dell’Unione di Centro, ha ricordato la preziosità di un modello politico laico che non sia però laicista, traguardo raggiunto – a fatica, ma raggiunto – dalla tradizione culturale occidentale, in specie italiana. È da qui che il confronto con l’islam della confusione tra fede e politica deve per forza partire. Altrimenti spopolano disgraziatamente le mentalità wahhabite e salafite, che rappresentano davvero una minoranza, ma che hanno denaro per la propaganda e soprattutto un uditorio (ricambiate) presso le nostre istituzioni. Lo ha detto appassionatamente Maryan Ismail. Somala, da 35 anni in Italia, musulmana e femminista, già impegnata con il Partito Democratico, oggi è ai ferri più che corti con la Sinistra italiana per averne fiutato certi amorosi sensi con l’ala più impresentabile dell’islam italiano.
In perfetta sintonia, Sauad Sbai, marocchina, musulmana e laica, già parlamentare nazionale del Popolo della Libertà, ha evocato Rachida Rida, anch’ella marocchina, ammazzata 35enne nel 2011 a martellate dal marito nella Brescello di don Camillo per essersi convertita al cattolicesimo. Una martire come don Jacques Hamel, sgozzato dagli jihadisti a Saint-Étienne-du-Rouvray nel luglio scorso? Patrona dei mille convertiti costretti alle catacombe nelle nostre stesse città?
Marco Respinti
Versione originale e completa dell’articolo pubblicato
con il titolo L’Europa non fa niente in difesa
delle donne schiavizzate daDaesh in Libero [Libero quotidiano],
anno LII, n. 165, Milano 17-06-2017, p. 13
Il gesuita statunitense John Courtnay Murray, che ebbe un ruolo fondamentale nella stesura della dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, descrive la conquista progressiva da parte del Magistero di quel linguaggio nuovo, “libertà religiosa”, come la reazione con cui una Chiesa sempre più minoranza afferma il diritto inalienabile dell’uomo di sottrarsi allo statalismo. In soldoni, dice Murray, la realpolitik ha spinto il Magistero a uno sviluppo concettuale che, senza mutare la dottrina, risponde meglio all’oggi (una Chiesa non più egemone, ma al massimo tollerata e spesso pure perseguitata).
Una però delle cose più curiose di questa esegesi è che tra le pezze d’appoggio citate dalla Dignitatis humanae vi è l’enciclica Firmissimam constantiam (1937), terza e ultima “benedizione” di Papa Pio XI al Messico cattolico che tra il 1926 e il 1929 era sceso in guerra contro il governo di quel Paese «infeudato totalmente alla Massoneria» (così il Pontefice disse a Benito Mussolini l’11 febbraio 1932). Con essa il Magistero rivendicava una sfera di non interferenza statale a salvaguardia dei cattolici messicani superstiti e indeboliti dopo il bagno di sangue. Curioso il fatto lo è perché la “Cristiada”, come è stata chiamata l’epopea militare dei Cristeros messicani (il loro nome viene dal grido con cui si lanciavano in battaglia, «¡Viva Cristo Rey!»), sta da sempre nella barra dei preferiti anche di chi contesta il documento conciliare.
Novanta anni dopo l’inizio dell’insurrezione dei Cristeros, a ricordare che il Magistero conciliare sulla libertà religiosa si fonda (anche) sull’eroismo controrivoluzionario del Messico martire è il monumentale Pio XI e la Cristiada. Fede, guerra e diplomazia in Messico (1926-1929) (Morcelliana) di Paolo Valvo, ricercatore in Storia contemporanea nella facoltà di Scienza della formazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Ovvero oltre 500 pagine di rigore metodologico e documentale (come sottolinea Francesco Margiotta Broglio nella Presentazione), costruite attingendo soprattutto a novità custodite negli archivi vaticani (la sezione dedicata al pontificato di Pio XI è stata aperta nel 2006), per orientarsi nella complessa rete di relazioni internazionali con cui all’epoca la Santa Sede gestì una situazione delicatissima.
Pio XI non era certo un transigente. Non lesinò il sostegno né ai cattolici perseguitati né, di fatto, ai Cristeros combattenti, e non fece mancare nemmeno l’invettiva al regime cristianofobo, ispirato a una sorta di socialismo nazionale, del despota Plutarco Elías Calles. Eppure non trascurò la via diplomatica. Anzi, dopo tre anni di distruzioni e lutti, nel giugno 1929 la Chiesa messicana, ispirata dal Vaticano, firmò un accordo con il governo che per i Cristeros significò la capitolazione.
Lo scontro armato era iniziato quando, il 1° agosto 1926, come gesto di protesta estrema contro la pervicacia del governo Calles nell’applicare le precedentemente disattese clausole vessatorie contenute nella Costituzione del 1917, il clero messicano era entrato letteralmente in sciopero sospendendo la celebrazione del culto divino. Per tre anni la prima preoccupazione del Pontefice era stata quella di uscire da quell’anomalia. Quando la constatazione dell’impossibilità di vincere sul piano militare rese necessario cambiare strategia per assicurare un bene maggiore ai cattolici, la Chiesa scese a patti. Discutibile? Discutibile.
Ma come prima la realtà delle cose aveva portato la Santa Sede a benedire la “Cristiada”, così ora la realtà delle cose le imponeva di fermarsi. È antico (almeno) quanto san Tommaso d’Aquino il precetto secondo cui una guerra è cattolicamente giusta e legittima se ha concrete possibilità di successo e se nel mentre si ricercano anche altre soluzioni. Certo, est modus in rebus e non sempre la traduzione storica di princìpi chiari sul piano teorico avviene senza inciampi, ma il dramma umano che investì il Pontefice e la Chiesa messicana in quel frangente rivive adesso nella minuziosa ricerca di Valvo. Che non è affatto un’operazione “archeologica”, ma la disanima scrupolosa dei mille demoni che aggrediscono la coscienza quando, compiendo un’azione giusta, ci si trova a provocare inevitabilmente anche un danno.
Con la riconquista di Dabiq, ieri, l’ISIS non perde un pezzo del suo califfato, ma il centro ideale di una delle sue armi più temute: la propaganda. Non a caso l’ISIS ha chiamato Dabiq la propria rivista a quattro colori in lingua inglese diffusa in PDF su Internet.
L’ISIS occupava Dabiq dal 2014 e Dabiq per l’ISIS è sempre stato il segno del destino, il fato ineluttabile del trionfo di Allah. Qui, infatti, secondo un hadith (un racconto sulla vita di Maometto), si sarebbe dovuta svolgere la battaglia finale tra Bene e Male, lo scontro ultimo tra musulmani e cristiani (secondo le fonti arabe i “Romani”, ovvero quelli che sono stati chiamati “Romei”, cioè i cristiani bizantini), l’Armageddon islamico. Dabiq è cioè una bandiera, un faro illuminante, il canto epico capace di lanciare in battaglia schiere di miliziani pronti a immolarsi per cacciare all’inferno i nemici, di arruolarne di nuovi ogni giorno, di trasformare persino degli occidentali in foreign fighters. Dabiq è stata insomma la «roccaforte morale» dell’ISIS, come dice al Corriere della SeraMartino Diez, direttore scientifico della Fondazione Internazionale Oasis di Venezia Mestre, spiegando con precisione la profezia. Peraltro, come si evince dalla descrizione dell’esperto, l’idealismo dell’ISIS è in realtà prosaico. Di hadith apocalittici come quello riguardante Dabiq ve ne sono infatti altri, addirittura centinaia, e concernono altre località come per esempio le importantissime Mecca e Medina. Ma l’ISIS ha scelto di parlare solo di Dabiq perché Dabiq la controllava, tanto per i miliziani votati al martirio va bene lo stesso; per Dabiq essi muoiono ugualmente anche se l’Armageddon islamico è solo un mito pop, seriale come una litografia di Andy Warhol, che può succedere qui, o là, o lì, etc. L’atmosfera apocalittica, che l’ISIS ha ereditato direttamente dalla sua matrice al-Qaeda, è infatti funzionale solo a mantenere tonico il tutto. Ma è proprio per questo che la liberazione di Dabiq adesso vale mille vittorie.
Essendo l’islam una religione militare per natura, esso è di fatto teologia in armi. La sua storia è quella di una conquista che non si può arrestare. Allah è grande perché vince in battaglia. Se invece però l’islam perde come perde a Dabiq, luogo di un Armageddon prossimo venturo, allora tutta la sua teologia armata scricchiola. La perdita di Dabiq è dunque la confutazione dell’Allah akhbar, un momento strategicamente decisivo.
La liberazione della cittadina ci mostra però anche una seconda verità.
La Coalizione anti-ISIS a regia statunitense combatte il terrorismo e lo vince, la Russia di Vladimir Putin no; massacra solo i civili assieme al regime siriano. Dabiq in Siria è stata liberata da ribelli anti-Assad e da effettivi turchi. Proprio in queste ore è partita anche l’offensiva su Mosul, dove irakeni, milizie sciite, forze turche e peshmerga curdi coperti dalle aviazioni francese e statunitense cercano di chiudere la partita con il neocaliffato nero. Ad Aleppo, invece, il regime siriano e le forze armate russe bombardano da settimane la popolazione civile senza che da un lato nessuno dei molti, troppi fan occidentali di Putin pronunci una sillaba e dall’altro i terroristi subiscano smacchi significativi.
Certo, a Dabiq e a Mosul stanno andando in scena alleanze strane, sghembe, piene di contraddizioni. La Turchia cerca di tenere i piedi in troppe scarpe per tentare di sedersi comunque al tavolo dei vincitori. Le milizie sciite filoraniane potrebbero essere il prossimo problema e i curdi il prossimo bagno di sangue, visto che il regime di Recep Tayyip Erdoğan li vorrebbe tutti sottoterra. E soprattutto gli americani di Barack Obama sono i responsabili prima di quel vuoto di potere in Irak che ha permesso all’ISIS di nascere e di prosperare, poi di quell’incapacità in politica estera che ha permesso all’ISIS di fare praticamente ciò che ha voluto sino a oggi. Ma quando da questa parte finalmente prevale lo spirito giusto, quello che nemmeno tutti gli Obama e gli Erdoğan del mondo riusciranno mai a distruggere completamente perché è più forte e più vero, allora il terrorismo viene combattuto sul serio e addirittura vinto riuscendo a portare “in quota NATO” persino soggetti diciamo dubbi come Ankara, gli sciiti e magari persino i curdi comunisti del PKK. A vincere qui è infatti un’idea più forte di certi governanti imbelli e imbarazzanti, è l’idea occidentale che libera Dabiq e fa la cosa giusta a Mosul ben racchiusa in un vecchio ma sempre verde libro di uno scienziato della politica danese-statunitense che adora l’italiano e Giovannino Guareschi, David Gress: From Plato to NATO: The Idea of the West and Its Opponents (Free Press, New York 2004). Ad Aleppo, invece, gli eurasisti si sono scordati di combattere l’ISIS.
Jacques Hamel, 86 anni, parroco cattolico di Saint-Étienne-du-Rouvray, 58 anni di sacerdozio, sgozzato come un animale mentre celebrava l’Eucarestia. È un martire. Ci arriva persino L’Huffington Post. È stato infatti abbattuto in odium fidei. La Chiesa farà il suo corso, avrà i suoi tempi, ma il parroco di questo paesino normanno è certamente martire. I suoi tagliagole lo hanno ammazzato per il gesto supremo che stava compiendo, per il santo sacrificio dell’altare che stava amministrando contemporaneamente a mille altri sacerdoti in mille altri luoghi della Terra, per le parole della consacrazione che stava pronunciando, per l’abito che portava, per il ministero che viveva, per la fede che professava indipendentemente dalla fedeltà con cui lo faceva.
Don Jacques Hamel (1930-2016)
Don Jacques era infatti un peccatore come tutti i cristiani, e per questo era cristiano. Ai suoi assassini non è interessato un fico secco di come la pensasse sulla pace e sulle armi, sull’ecumenismo e sull’Amoris laetitia, sul Concilio Ecumenico Vaticano II e su Papa Francesco, sulle menate borghesucce con cui si trastullano i “tradizionalisti” e sullo sfascio totale che auspicano i progressisti. A loro è bastata l’unica cosa che fa di un cattolico un cattolico, e che per ciò stesso fa un cattolico diverso da tutti gli altri: la fede in Gesù Cristo.
La fede è un dono: non si acquista al discount, e per questo è un mistero. Non dipende dalla bravura di chi la professa, dalla sua abilità, dalla sua capacità, dalla sua intelligenza, dalle sue idee politiche. È il tocco grazioso di Dio. L’uomo a essa deve corrispondere, ma la fede non ha graduatorie, tessere a punti, albi delle figurine. È un dato oggettivo: chi ne è inondato e sovrabbondato la può tradire mille volte al giorno, ma la fede resta sempre se stessa. Non un parere, un “secondo me”, un calcolo, ma una iniziativa gratuita di Dio. Proprio per questo la fede di don Jacques è un dato oggettivo e non dipende dalle capacità di don Jacques. La fede cattolica, ovviamente, perché per tutto il resto quanto detto non vale. Per tutto il resto conta solo l’intelligenza, la bravura, la coerenza, l’apparenza, tutte cose di cui Dio, che è cattolico, non sa però che farsene.
Don Jacques è martire di questa fede cattolica perché la fede cattolica di don Jacques è più grande di don Jacques stesso. È proprio perché, fosse anche in un nanosecondo lontano e dimenticato, a don Jacques un giorno questa verità si è mostrata in tutta la sua evidenza che don Jacques è un martire. I suoi assassini hanno voluto colpire infatti non la bravura, la capacità, l’intelligenza e la coerenza di don Jacques, ma colui che, nonostante il peccato di don Jacques, vive in lui: Cristo.
È la prima volta che accade. È accaduto migliaia, milioni di volte nella storia, ma è la prima volta che in Europa un uomo viene ammazzato per la fede di cui è portatore (e non per un simbolo politico, economico, militare, e nemmeno culturale) nel corso di quest’ultima, estrema fase della quarta guerra mondiale. Quarta guerra mondiale. Quando Norman Podhoretz, 86 anni quanti ne aveva don Jacques, uno dei padrini del movimento neoconservatore statunitense, coniò l’espressione, e ci titolò un libro dodici anni fa (La quarta guerra mondiale. Come è cominciata, che cosa significa e perché dobbiamo vincerla, trad. it., Lindau, Torino 2004), la gente rise. Molti non hanno ancora smesso, ma il risultato si vede.
Se la Terza guerra mondiale era stata quella cosiddetta “fredda” contro l’impero del male comunista, la quarta è quella iniziata l’Undici Settembre contro l’asse del male islamista e il suo upgrade degli ultimi tre anni circa. È la medesima guerra, ma siccome è stata combattuta solo un po’ e poi si è smesso di farlo dileggiando chi lo aveva fatto (le “guerre di Bush”, e anche di BBB, Bush, Blair, Berlusconi), quella guerra è andata oltre.
Norman Podhoretz
L’Undici Settembre la guerra iniziò con al-Qaeda che mediante colpi eclatanti mirava a sollevare le masse arabo-islamiche per rovesciare i governi “laici” e “moderati” dei Paesi a maggioranza musulmana e ripristinare il califfato. Gli occidentali, gli ebrei e i cristiani erano ostacoli che la grande insurrezione avrebbe travolto. Poi quella strategia ha involontariamente generato un franchising: gruppi, gruppetti e cani più o meno sciolti che hanno preso ad agire ispirati e motivati da al-Qaeda ma autonomamente. Per un po’ questa è stata la forza stessa di al-Qaeda, poi la cosa si è trasformata in un guaio d’immagine, visto che, come sempre, c’è chi vuole strafare. Abu Mus’ab al-Zarqawi, uomo forte di al-Qaeda in Iraq, un vero macellaio, ha finito per scontentare lo stesso Osama bin Laden che forse lo ha persino venduto agli americani che lo hanno ucciso nel corso di un bombardamento e dalle sue ceneri sono nati Abu Omar al-Baghdadi e l’ISIS. È la stessa Quarta guerra mondiale, ma oggi gli allievi superano i maestri; e mentre al-Qaeda più o meno declina, l’ISIS, anche per la teatralità delle sue azioni, cresce grazie all’insurrezionalismo degl’irregolari, il coté islamista del relativismo che ammorba il nostro mondo e ci rende incapaci di reagire. Non più un solo fronte, ma cento assieme; non un solo obiettivo, ma mille; non un esercito, ma una lucida follia dove c’è posto per tutti.
Farebbero ridere, se la situazione non fosse drammatica, i funambolismi dei commentatori che evitano di aggettivare “islamico” e dei cronisti che infilano “sedicente” in ogni buco disponibile. Ancora peggio è l’ultima moda di voler far passare i terroristi per degli “squilibrati” o persino degl’idioti, appaiata dalle cautele inutili di chi aspetta a prescindere onde appurare se ci siano legami tra attentatori e Daesh. Finché l’Occidente farà così, subirà soltanto.
I collegamenti tra i terroristi attivi in Europa e il califfato ci sono, non ci sono, chi lo sa e soprattutto è lo stesso. Né ai terroristi attivi in Europa né al califfato importa minimamente. Chiunque si riconosca nella battaglia del califfato è automaticamente del califfato, non ci vogliono iscrizioni, tessere, quote annuali. È il claim pubblicitario più efficace di tutta questa Quarta guerra mondiale. Nessuna concertazione, basta colpire invocando l’ISIS e l’ISIS benedirà a posteriori. Il confine tra il lupo solitario squilibrato e il terrorista lucido appartiene a un mondo che non c’è più. Oggi l’upgrade della Quarta guerra mondiale ha fatto della follia la lucidità. Prima lo capiremo, prima smetteremo di attardarci a cercare reti e ramificazioni probabilmente inesistenti per concentrarci su quella setta delle ombre che è ovunque, e soprattutto già tra noi. Don Jacques Hamel priez pour nous.
«Dobbiamo tutti renderci conto che la storia è stata fatta dagli uomini e noi, in quanto uomini, possiamo cambiarla». Sono le parole con cui si chiude Controrivoluzionario (trad. it., San Paolo, Cinisello Balsamo [Milano] 2008), un titolo che è uno stendardo, una medaglia, una dichiarazione di guerra giusta e spesso anche santa: è l’autobiografia di Harry Wu (1937-2016), che nel sottotitolo suona I miei anni nei gulag cinesi, una porcheria che non augureresti neanche al peggiore nemico. Harry è scomparso martedì 26 aprile in Honduras, dove si trovava in vacanza, a 79 anni. Lascia il figlio Harrison e l’ex moglie China Lee. In vita ha visto l’inferno. L’inferno. Per 19 anni è stato internato nei laogai, i terribili campi di lavoro del comunismo cinese, quello che per molti, per troppi sono già solo un ricordo del passato, ma non è così, Harry non l’ha mai pensata così. Il suo supplizio ricorda quello di Aleksàndr I. Solženicyn in Russia e di Armando Valladares a Cuba. Perché come Solženicyn per la Russia e come Valladares per Cuba, Harry Wu è stato anche la memoria, la coscienza della Cina.
Harry nasce a Shangai con il nome di Wu Hongda da una famiglia benestante e cattolica. Un cradle Catholic che ci rammenta la storia del cattolicesimo difficile ma indomito di quell’oceano terrestre asiatico, missioni coraggiose e mai buoniste, sapienza antica e martirio, da Matteo Ricci alla ribellione antioccidentale e anticristiana dei boxer. Dopo che Mao Zedong, uno dei grandi criminali dell’umanità, ebbe preso il potere nel 1949, la famiglia di Harry, invisa perché rea di possedere qualcosa di proprio, viene espropriata. S’iscrive nell’Istituto di Geologia per studiare rocce e affini. Nel 1956 il governo tende un trabocchetto. Finge di aprirsi e invita tutti a dire come davvero la pensano. Harry critica il massacro dell’Ungheria da parte del comunista “buono” Nikita S. Krušëv. Finisce nel mirino. Viene bollato come un “rompiglioni”, in inglese troublemaker e più tardi c’intitolerà un altro libro di memorie, Troublemaker: One Man’s Crusade Against China’s Cruelty (Times Books, New York 1996). Nel 1960 viene arrestato; l’accusa è il suo stendardo, la sua medaglia, la sua buona battaglia: “controrivoluzionario”, come un bollino sulla frutta. Di più: dicono che sia membro di un “gruppo cattolico fuorilegge”. Dio te ne renda merito, grande Robin Hood dagli occhi a mandorla.
Dal buco in cui lo rinchiudono esce nel 1979. Nel 1985 riesce a fuggire in un altro postaccio, forse il peggiore di tutti, quello che sicuramente è la causa dei mali del mondo e che rispetto a tutti gli altri luoghi ha il vizio di venerare la libertà, la persona umana e la proprietà privata nonostante il suo fisco, i suoi governanti e certi ceffi: gli Stati Uniti d’America. E qui Wu comincia a sollevare il velo sugli orrori del suo Paese, non solo ai tempi di Mao, ma anche dopo, con la “demaoizzazione” (?), e dopo ancora, e fino a oggi, tutto sempre uguale nonostante le lustratine di Polish. Parla Harry; parla in pubblico, parla molto. La sua storia la racconta in Bitter Winds: A Memoir of My Years in China’s Gulag (1994), quello che in italiano è appunto diventato Controrivoluzionario.
Nel 1988 incontra il responsabile del dipartimento degli studi sull’Asia Orientale della prestigiosa, impagabile Hoover Institution on War, Revolution, and Peace di Stanford, in California, quella che per intenderci ha ospitato fuoriclasse come Robert Conquest, Angelo Codevilla ed Eric Voegelin. Aspira a studiare con precisione il sistema dei campi cinesi di lavoro forzato, appunto i laogai. Fa breccia, e così comincia a stilare elenchi e mappe dell’orrore rosso cinese. Nei primi anni 1990 torna, con un coraggio da leone, in patria, perché non si accontenta dei ricordi e delle fonti di seconda mano. Vuole evidenze, prove, materiali di prim’ordine. Nel 1900 il senatore Repubblicano, Jesse Helms, campione dell’anticomunismo, e il senatore Democratico Alan Cranston (uno di quei Cold War warrior che ci sono sempre stati tanto utili) lo invitano a testimoniare davanti al Congresso. Tivù e giornali finalmente s’interessano di lui. Diviene cittadino statunitense e viene assunto come professore di Geologia nell’Università della California di Berkeley. Poi però lascia tutto per dedicarsi alla sua missione, raccontare la verità sul Dragone comunista. Nel 1992 pubblica il primo resoconto delle sue ricerche Laogai: The Chinese Gulag, tradotto in italiano come Laogai, i Gulag di Mao Tze Dong (L’ancora del Mediterraneo, Napoli-Roma, 2006). E nello stesso anno a Washinton fonda la Laogai Research Foundation perché la battaglia continua, sempre.
Il termine laogai è l’abbreviazione di laodong gaizao, ossia “riforma attraverso il lavoro”, una ipocrisia che include il laojiao (“rieducazione attraverso il lavoro”) e il jiuye (“personale addetto al lavoro forzato”, cioè la prigione). Li ha creati Mao nel 1957 con lo scopo preciso di strappare sempre quello stendardo, di calpestare quella medaglia, di combattere contro quella buona battaglia: cioè per «riformare la mente dei controrivoluzionari e conservatori di destra». La fondazione di Harry riesce a documentare, nel 2008, l’esistenza di 1422 laogai. Il volto della Cina “post”-comunista è questo. Per effetto delle denunce di Harry, nel 2013 il governo di Pechino annuncia che chiuderà i laogai. Resta solo un annuncio. Nel 2013, secondo la Fondazione, i campi di “rieducazione” cinesi sono almeno 1045, con circa 4 milioni di prigionieri.
Harry Wu mostra le dimensioni di una cella d’isolamento del laogai
Harry documenta mille cose raccapriccianti. Lo schiavismo con cui il regime rosso cinese fa la concorrenza sporca all’Occidente del rule of law violando ogni legge: là, infatti, in totale assenza di regole e di morale, si produce la fuffa con cui viene drogato il nostro mercato, oppure quei prodotti buoni sì ma che noi comperiamo a prezzi stracciati solo perché prodotti con il sudore e con il sangue dei servi. Ma c’è ben altro. Ci sono le migliaia di pene capitali che ogni anno mietono morti su morti, spesso per ragioni politiche, ovvero innocenti di tutto, e di fronte alle quali non abbiamo mai visto sventolare alcuna bandiera arcobaleno. Ma non basta ancora. C’è anche il mercato nero degli organi umani espiantati dai morti ammazzati dal regime, guarda caso con un inquietante parallelismo numerico tra domanda (di organi) e offerta (di morti ammazzati). Sta tutto nel libro di Harry Cina. Traffici di morte. Il commercio degli organi dei condannati a morte con tanto di DVD (Guerrini e Associati, Milano 2008). Una cosa da horror di fantascienza, che si accompagna alla follia dell’aborto imposto alle famiglie in ossequio alla “politica del figlio unico”, ma che invece è tutta roba vera. Sta tutto nel libro di Harry Strage di innocenti. La politica del figlio unico in Cina (Guerrini e Associati, 2009).
Quando nel 1995 cerca di entrare ancora in Cina, in modo perfettamente legale, viene arrestato e incarcerato preventivamente per 66 giorni con l’accusa, falsa, falsissima, di sottrazione di segreti di Stato. Viene condannato a 15 anni di prigione. Si salva solo perché mezzo mondo si mobilita.
Nel 2008 apre a Washington anche il Museo del Laogai, per preservare la memoria, per non arrendersi mai. Sempre nel 2008 esce Laogai. L’orrore cinese (Spirali, Milano). Nel 2010, grazie alla documentazione da lui fornita, la Laogai Research Foundation Italia pubblica I laogai cinesi (Fede e Cultura, Verona) e nel 2012 La persecuzione dei cattolici in Cina (Sugarco, Milano). Noi non siamo tra i fan di Roberto Saviano e del suo coté politico. Ma chapeau al monologo di denuncia dei laogai con cui il romanziere ha introdotto il grande, indimenticabile, amico Harry Wu a Quello che (non) ho di Fabio Fazio il 16 maggio 2012 su LA7, in prima serata. Harry la storia l’ha cambiata, da solo, comunque. Requiescat in pace.
Ci sono 80 nomi che il Venticinque Aprile non commemorerà, 80 volti che la democrazia ignorerà, 80 uomini che la presidente Laura Boldrini non inviterà alla Camera. Sono 80 tonache da prete, nere come si conviene salvo il sangue che le ha sporcate del medesimo colore della mano che le ha abbattute.
La guerra civile che spaccò in due l’Italia fu una mattanza: oramai lo si può dire anche nei salotti buoni, dopo che autori importanti e case editrici blasonate hanno sdoganato la denuncia storiografica delle violenze e degli abusi perpetrati dai partigiani comunisti soprattutto nel cosiddetto Triangolo Rosso tra Reggio Emilia, Bologna e Ferrara. Chi ancora si schernisce per il “sangue dei vinti” continua a sostenere che la resa dei conti fu la logica pur brutale degli eventi, l’esito del concitato momento storico, il venire al pettine del nodo collaborazionista in cui appunto persero la vita anche molti sacerdoti più che collusi con il regime fascista. Vero. In parte soltanto, ma pur sempre vero. Solo che la pratica non finisce affatto qui. Gli 80 sacerdoti che le celebrazioni ignoreranno anche nel 70° anniversario della Liberazione, per esempio, non c’entrano, non rientrano affatto in quella pur pelosa giustificazione a posteriori. Quegli 80 preti con il fascismo non spartirono nulla. Furono ammazzati solo per la veste che indossavano, per la fede che professavano, per ciò che rappresentavano. Nessuna giustizia politica, insomma, ma un puro e semplice atto di odio vigliacco contro degl’inermi e degl’innocenti abbattuti come cani esclusivamente per ciò che vivevano, incarnavano, credevano.
Su questa storia lugubre e triste splende però una luce fiera, a proposito della quale si possono leggere con profitto almeno il libro di Paola Giovetti, Beato Ronaldo Rivi. Seminarista martire, testimone di Gesù (presentazione di Massimo Camisasca, San Paolo, Cinisello Balsamo [Milano] 2013) e lo studio di Andrea Zambrano, Beato Rolando Maria Rivi. Il martire bambino (Imprimatur, Padova 2014). Si tratta della beatificazione di un giovanetto steso a pistolettate a soli 14 anni, a Monchio, in provincia di Modena, frazione Palagano, per un’accusa falsa e infamante dopo essere stato torturato e seviziato. Ebbene, la beatificazione di quel povero seminarista segna un punto senza ritorno. Con quel gesto solenne e pubblico, infatti, la Santa Sede ha stabilito che tra il 1944 e il 1946 nel Triangolo Rosso si veniva uccisi in odio alla fede; non sempre e non solo, ma certamente anche per quello. Essere uccisi in odio alla fede è però il sigillo “tecnico” del martirio, riconosciuto e canonizzato dalla Chiesa Cattolica. Quegli 80 preti, allora, che nessuno oggi celebrerà, 80 preti che non vennero uccisi per ragioni politiche ma per dileggio e disprezzo della religione che rappresentavano sono a rigor di logica martiri, compagni di martirio del beato Rivi. Meritano dunque anch’essi la gloria e l’onore degli altari.
Ecco, proprio questo è ciò che suggerisce oggi il mensile cattolico Il Timone [linkare a: http://www.iltimone.org/%5D, che a quegli 80 martiri misconosciuti dedica un dettagliato dossier con cui contribuisce efficacemente a colmare sia una colpevole falla della nostra memoria collettiva sia un vuoto storiografico vergognoso.
La Chiesa ha del resto già operato beatificazioni in massa, e proprio di martiri caduti in circostanze assai poco lontane da quelle del Triangolo Rosso. È il caso eclatante e clamoroso dei martiri di Spagna, colpiti con ferocia e sadismo inauditi dagli anarco-comunisti fra il 1931 e il 1939, come con completezza illustra il recentissimo e corposo studio di Mario Arturo Iannaccone, Persecuzione. La repressione della chiesa in Spagna fra Seconda repubblica e Guerra civile (presentazione di mons. Vicente Cárcel Ortí, Lindau, Torino 2015). A oggi la Chiesa ha beatificato più di 1500 vittime spagnole (un numero enorme, proporzionalmente parlando forse il più grande nella storia della cristianofobia), in tre grandi blocchi successivi; e il Papa, Papa Francesco, ha già autorizzato la beatificazione di diversi altri, così che presto la cifra di quei martiri ufficiali dovrebbe salire a più di 1600. Nessun problema, allora, a beatificare anche gli 80 preti italiani uccisi dai comunisti in odio alla fede. È così che oggi il popolo cattolico implora pubblicamente il Santo Padre nel tentativo, nobile e supremo, di chiudere definitivamente, e con una nota di speranza seria, quella ferita della guerra civile italiana che ancora non è cicatrizzata.
Finalmente l’attesa è finita. Cristiada, l’oramai famosissimo film sull’epopea dei cristeros messicani, approderà anche nelle sale cinematografiche italiane. Accadrà nel mese di ottobre. Il merito è tutto della Dominus Production, la casa di distribuzione cinematografica fondata e diretta a Milano/Firenze da Federica Picchi che ne ha acquisito i diritti di doppiaggio e distribuzione nel nostro Paese. Al sito Internet www.dominusproduction.com è già possibile prenotare la proiezione del film nei cinema italiani, così come il DVD o la visione in streaming che saranno disponibili a partire dal gennaio 2015.
Un giallo finito bene
Quello di Cristiada è stato a lungo un po’ un giallo. Tutto ha avuto inizio tra il 2010 e il 2011, quando la pellicola fu realizzata come coproduzione messicano-statunitense (il film è girato in Messico ma in lingua inglese) sulla base degli studi condotti dalla principale autorità scientifica in materia, lo storico franco-messicano Jean Meyer Barth. È peraltro opportuno ricordare qui che il figlio di questi, Matías Meyer – nato nel 1979 a Perpignano, in Francia –, ha realizzato nel 2011 un altro capolavoro di 90 minuti, Los últimos cristeros, che si basa sul romanzo Rescoldo. Los últimos cristeros. Opera del 1961 dello scrittore Antonio Estrada Muñoz (1927-1968) – egli stesso figlio di un comandante cristero dello Stato federato di Durango all’ora della seconda, “disperata” ribellione, dal 1934 al 1941, il colonnello Florencio Estrada, caduto in combattimento nel 1936 –, il romanzo è stato recentemente, nel 2010, ripubblicato a Madrid dalle Ediciones Encuentro, arricchito da una introduzione dello stesso Meyer figlio e curato da Angel Arias Urrutia, specialista dell’Universidad San Pablo nella capitale spagnola.
Ma torniamo a Cristiada. L’impresa ha avuto un costo, pare, di almeno 12 milioni di dollari americani. Diretto dallo statunitense Dean Wright (già responsabile degli effetti speciali de Il Signore degli Anelli e de Le cronache di Narnia) e prodotto dalla Dos Corazones Film diretta a Los Angeles da Juan Pablo Barroso, è interpretato da veri fuoriclasse quali Andy García (l’attore di origine cubana noto per non essere esattamente un estimatore di quel comunismo che gli ha distrutto la patria e costretto la famiglia all’esilio degli Stati Uniti), l’avvenente ex modella statunitense Eva Longoria, il cattolicissimo messicano Eduardo Verástegui e l’intramontabile irlandese Peter O’Toole. E la colonna sonora, avvincente e suggestiva è di James Horner, una specie di Ennio Morricone d’Oltreatlantico che non sbaglia mai un colpo.
Eppure, nonostante un cast eccezionale come questo, e una serie davvero promettente di premesse che annunciavano un successo sicuro anche al botteghino, il film si è bloccato. Mancava clamorosamente qualcuno che si assumesse il compito di distribuirlo nelle sale. E così Cristiada si è trasformato in una specie di spettro da racconto del brivido: tutti ne parlavano, se ne avvertiva qua e là la presenza, qualcuno giurava persino di averlo veduto con i propri occhi, ma tutto restava costantemente sospeso fra verità e leggenda. Così, dopo qualche tempo, su Internet è comparso un “timido” trailer, con alcuni spezzoni del girato. E l’attesa, di fronte a quelle poche ma coinvolgenti immagini, è cresciuta a dismisura.
Ci sono comunque voluti altri lunghi mesi prima che il lungometraggio uscisse da quel suo strano limbo ed entrasse trionfalmente nei teatri del Messico il 20 marzo 2012 e poi degli Stati Uniti il 1° giugno successivo, grazie rispettivamente a 20th Century Fox e ad Arc Entertainment, per poi divenire facilmente acquistabile da tutti in formato DVD. Eppure ancora una volta il pubblico italiano (e in genere quello europeo) è rimasto a bocca asciutta, frenato dalle barriere linguistiche a tratti e per molti davvero insormontabili. Per questo hanno cominciato a diffondersi sul web versioni adattate alla bell’e meglio, sottotitolate e diffuse privatamente attraverso circuiti sostanzialmente amicali. Da ottobre, invece, il film lo potremo finalmente vedere davvero tutti anche in Italia.
Storie verissime
La trama è nota. Durante la rivolta detta dei cristeros (i “cristi-re”, come li canzonavano i sanguinari avversari per via di quel loro uso di combattere e di morire al grido di «¡Viva Cristo Rey!»), allorché tra il 1926 e il 1929 la popolazione cattolica del Messico cercò di scrollarsi definitivamente di dosso il gioco laicista di un governo nazional-social-massonico stabilito attraverso la Costituzione del 1917 e in quel momento incarnato dal despota Plutarco Elías Calles (1877-1945) che li perseguitava con asprezza, un giovane 13enne, José (interpretato da Mauricio Kuri), finisce per affezionarsi a un sacerdote, padre Christopher (Peter O’Toole), finché i governativi non lo uccidono. Quando l’intera popolazione messicana insorge per difendere i preti e i religiosi vessati senza motivo e con raffinata cattiveria, il giovane José decide, con alcuni amichetti, di unirsi alle schiere dei “soldati di Cristo”. Intanto Calles ha concluso un vantaggioso accordo con i suoi vicini “nemici-amici” di sempre, gli Stati Uniti, barattando petrolio per armi: le stesse armi con cui, mentre Washington gira il capo dall’altra parte, il governo messicano reprime spietato gl’insorti. Anche José muore tra i patimenti dopo essersi rifiutato di abiurare la fede in Dio. E alla fine i Federales hanno la meglio, soffocando per sempre la rivolta nel sangue.
Il film, come si sa, è strettamente aderente al vero; oramai la storia della “Crociata messicana” è nota fortunatamente anche in Italia, attraverso serie opere di ricostruzione storiografica. Si sa bene anche dell’appoggio che la Chiesa diede agl’insorti e della recisa condanna che il Papa lanciò contro il governo omicida con diverse encicliche. Ebbene, anche i due eroi protagonisti del film sono personaggi realmente esistiti. Enrique Gorostieta y Velarde (1890-1929), interpretato sullo schermo da Andy García, è un ufficiale a riposo, ateo, che però finisce per entusiasmarsi alla causa dei ribelli, guidandoli in battaglia con maestria e abnegazione fino alla fine, fino a quando cioè cade anche lui martire per quanto “riluttante”. E il giovane volontario José altri non è se non José Sanchez Del Rio (1913-1928), martirizzato come narra la pellicola e per questo beatificato, con altri 12 compagni, da Papa Benedetto XVI il 20 novembre 2005, aggiungendosi in questo modo ai 25 martiri canonizzati il 21 maggio 200 da san Giovanni Paolo II e al padre gesuita Miguel Agustín Pro Juárez (1891-1927). Ma i caduti cattolici messicani, laici e consacrati, furono molti di più, una cifra calcolata tra i 70 e gli 85mila.
Speriamo sia solo l’inizio
Ora, questa straordinaria epopea è oggi appunto piuttosto nota al mondo cattolico, almeno nei suoi contorni generali; ma con tutta evidenza essa merita di essere conosciuta anche dagli altri, così che tutti conoscano sul serio il prezzo pagato dai testimoni della fede nel mondo moderno e inizino a comprendere davvero cos’ha significato difendere con generosità e a ogni costo la verità. Un film intrinsecamente bello e sicuramente appassionante per tutti come Cristiada non può dunque che contribuire sensibilmente a quest’opera doverosa, ed è per questo che la sua comparsa, alla fine, anche sui grandi schermi italiani va salutata con enorme soddisfazione.
Adesso sarebbe peraltro bello e importante che altre pellicole di valore e d’indubbia utilità potessero arrivare, debitamente doppiate, nelle nostre sale cinematografiche. Il pensiero va senz’altro almeno a Un Dios prohibido, con cui nel 2012 il regista spagnolo Pablo Moreno ha narrato la storia vera dei martiri claretiani di Barbastro, uccisi nel 1936 dagli anarco-comunisti durante la Guerra civile spagnola, e a Bajo un manto de estrellas, diretto sempre nel 2012 dallo spagnolo Óscar Parra de Carrizosa, dedicato al sacrificio compiuto in nome della fede, nel 1936, sempre durante quello scontro epocale, dai 19 domenicani del Convento de la Asunción de Calatrava di Almagro.
Ma intanto gli spettatori italiani possono trarre profitto e sana ricreazione con storie magari dure ma sempre colme di speranza autentica quali October Baby (2012, di Andrew e Jon Erwin) sulla storia vera di Gianna Jessen, sopravvisuta all’aborto salino; oppure 11 settembre 1683 (2012, di Renzo Martinelli) sulla battaglia di Vienna che salvò l’Europa cristiana dalle orde musulmane; o ancora There Be Dragons (2011, di Roland Joffe) su san Josemaría Escrivá de Balaguer ancorché occorra accontentarsi dei sottotitolo italiani presenti nei DVD spagnolo o inglese. E perché no Duns Scoto (2010, di Fernando Muraca) a difesa della verità dell’Immacolata Concezione; Fireproof (2008, di Alex Kendrick), la storia vera di come è possibile salvare un matrimonio in crisi tra gesti di grande altruismo; e Bella (2006, di Alejandro Gomez Monteverde), la pellicola contro l’aborto interpretata da Eduardo Verástegui, lo stesso di Cristiada, bello, aitante e devotissimo.
Il 6 giugno il primo ministro del Giappone, Shinzō Abe, ha incontrato Papa Francesco e in dono gli ha portato uno specchio speciale, “magico”, fabbricato da un artigiano contemporaneo ma uguale a quelli usati dai cristiani clandestini del secolo XVII. Sembra uno specchio comune, ma, esposto al sole, mostra una croce e una immagine di Gesù; così il Papa, appena ricevutolo, ha guadagnato una finestra e, portandosi dietro Abe, ha contemplato il volto del Salvatore in piena luce.
Ora, la drammatica e gloriosa epopea del cristianesimo in Giappone non è ancora conosciuta quanto merita ‒ un primo approccio lo consente Rino Cammilleri, autore nel 2012 del “quaderno” Shimabara no ran. La grande rivolta dei samurai cristiani e del romanzo storico Il crocefisso del samurai (Rizzoli, Milano 2009) ‒; ma a squarciare la coltre del silenzio arriverà presto un film, diretto nientemeno che da Martin Scorsese.
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Shusaku Endo (1923-1996)
Tra eroismo e sacrificio, la vicenda dei kirishitan (i cristiani giapponesi perseguitati e poi ridotti alla clandestinità) “tormenta” il famoso regista americano sin da quel lontano 1989 in cui per la prima volta prese nella sua mente forma, seppure ancora vaga, l’idea di metterla in scena. Qualcosa di decisivo si è sbloccato però solo nel 2007, tanto da spingere Scorsese a dire pubblicamente di voler mettere mano alla macchina da presa per quel progetto quanto prima; il cineasta sperava nel 2008, ma ancora una volta ha dovuto ritardare. Nel 2009 è però riuscito a scritturare nel cast attori del calibro di Daniel Day-Lewis e di Benicio del Toro, e nel 2013 anche Andrew Garfield, Ken Watanabe e Liam Neeson nei panni del protagonista, un missionario gesuita per cui si sente adattissimo: «Sono stato cresciuto», dice Neeson, «da cattolico irlandese bello tosto». E ora finalmente, dopo aver trovato tutti i fondi necessari attraverso la compagnia Emmett/Furla Films, Scorsese inizia a girare a Taiwan, contando d’impiegarci tutti i prossimi mesi estivi e dando così appuntamento al pubblico per l’anno venturo.
La pellicola ha già un titolo, Silence. Anche perché s’ispira a quell’omonimo romanzo storico del 1966 che viene universalmente considerato il capolavoro del giapponese Shusaku Endo (1923-1996). Endo ‒ rara avis ancora oggi in Giappone ‒ era cattolico, battezzato attorno agli 11 o ai 12 anni per volontà della madre, a sua volta divenuta cattolica dopo avere subito il divorzio, o forse, come dicono altri, da una zia cui il piccolo era stato affidato. Ma questo non ha impedito alla critica di riconoscere in lui un talento indiscusso della cosiddetta “terza generazione” di scrittori successivi alla Seconda Guerra Mondiale pur in una Paese dove il cattolicesimo è stato a lungo perseguitato con raffinata crudeltà, è rimasto fuorilegge fino al 1850 e poi è stato sostanzialmente percepito come corpo estraneo. A Endo è stato persino dedicato un museo letterario personale nella “cattolica” Nagasaki (al sito, in giapponese, selezionare l’opzione di traduzione offerta dal motore di ricerca Google) e più volte il suo nome è stato sussurrato per il Nobel.
Quel suo romanzo, pluripremiato, ha ispirato nel 2002 la Sinfonia n. 3 Silence del musicista scozzese James MacMillan, è stato tradotto in moltissime lingue ed è disponibile anche in italiano, pubblicato a Milano come Silenzio da Rusconi nel 1982 e riedito da Corbaccio nel 2013. Del resto, tutte le opere di Endo tengono sempre, sottotraccia, la persecuzione dei cristiani, e le problematiche annesse, anche se praticamente mai affrontano il tema direttamente; il lettore italiano ha peraltro a disposizione soltanto un altro romanzo dello scrittore giapponese, Il samurai (trad. it. Luni, Milano 2013), anch’esso ruotante attorno al motivo forte della fede proibita.
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Endo è però giudicato un cattolico molto problematico, costantemente alle prese con l’argomento spinoso dell’inculturazione della fede (una questione per lui personalissima, non certo una divagazione teorica), dell’incontro con la cultura nipponica che è quasi sempre uno scontro e con una Croce che dà scandalo. A dimostrarlo bene è proprio il capolavoro Silenzio che ha ispirato Scorsese, là dove a essere stuzzicata è una storia controversa e dolorosa: la missione del gesuita Sebastião Rodrigues ‒ modellato su una figura storica, il gesuita siciliano Giuseppe Chiara (1602-1685) ‒ che viene inviato in Giappone durante le persecuzioni del primo Seicento per indagare sull’apostasia del confratello portoghese Cristóvão Ferreira (1580 ca.-1650), un personaggio realmente esistito che, per sottrarsi al martirio, rinnega la fede, aderisce a una “setta” zen (anche se i suoi scritti pare rivelino soprattutto una filosofia fondata sul diritto naturale) e si sposa. Padre Rodrigues si rende insomma conto che, almeno in Giappone, la fede in Cristo è soprattutto la Passione.
Dopo che il regista giapponese Masahiro Shinoda, collaborando con lo stesso Endo, già ne trasse nel 1971 un film, Chinmoku (come suona il titolo giapponese originale anche del romanzo), dopo che nel 1996 la vicenda dell’apostata Ferreira ha ispirato una seconda pellicola al portoghese João Mario Grilo, Os Olhos da Ásia, ora è dunque la volta di Scorsese. C’è materiale sufficiente per farne un vero scandalo, ovvio; ma ne potrebbe invece pure uscire qualcosa di davvero buono. I martiri kirishitan se lo meriterebbero.
Il padre gesuita Robert Southwell (1561?-1595) fu un poeta di enorme talento, la cui influenza si è esercitata a lungo su alcuni dei più bei nomi delle lettere inglesi, ivi compreso il maestro William Shakespeare. Padre Southwell fu anche un alacre missionario clandestino nell’Inghilterra devastata dallo scisma ereticale consumato da re Enrico VIII. Padre Southwell fu accusato di far parte di un complotto cattolico intenzionato a uccidere la regina Elisabetta, colei che “rigorizzò” dottrinalmente lo scisma anglicano. Padre Southwell venne così arrestato e condannato a morte per tradimento: si difese dichiarandosi innocente, patriota autentico ed esigendo di essere giudicato da Dio e dal popolo inglese.
Una delle sue poesie più note e belle s’intitola The Burning Babe, inclusa nella raccolta St. Peter’s Complaint with Other Poems del 1595, postumo. È considerata uno dei componimenti più tristi, ma ricchi della poesia occidentale. Il padre gesuita descrive una visione drammatica del bambino Gesù che agonizza fra le fiamme per i peccati degli uomini. Ma – così all’ultimo rigo − «improvvisamente mi ricordai che era il giorno di Natale»: anche sul male più atroce trionfa sempre la luce divina, come sottolinea l’arrangiamento musicale piuttosto gioioso con cui il violinista folk inglese Chris Wood ha voluto rileggere la poesia del gesuita. Il giorno dopo avere composto questa poesia straziante ma al contempo consolante ‒ era il 21 febbraio 1595 ‒ padre Southwell fu martirizzato a Tyburn, che raggiunse compiendo gesti di palese santità. Il suo corpo venne decapitato e fatto a pezzi. Quando il boia ne presentò la testa al popolo, com’era uso in questi casi, nessuno nella folla gridò, come ci si aspettava, «Traditore!».
Padre Southwell è stato canonizzato nel 1970 dal venerabile Paolo VI, uno dei Quaranta Martiri d’Inghilterra e Galles.
Sting – nome d’arte di Gordon Summers, classe 1951 – è un eclettico musicista inglese d’indiscusso talento, famoso sia per avere capitanato il gruppo dei Police sia per la successiva, ricca carriera solista. Spesso Sting frequenta la musica del Cinquecento e la tradizione sacra.
Nel 2009, Sting ha tenuto un concerto nella famosa e bellissima cattedrale gotico-normanna di Cristo, della Beata Vergine Maria e di San Cutberto di Durham, che dalla Riforma appartiene alla Chiesa Anglicana. Il concerto è stato poi pubblicato in dvd con il titolo A Winter’s Night… Live from Durham Cathedral. Uno dei brani eseguiti in quel concerto è The Burning Babe di san Robert Southwell. Nel video qui proposto, tratto da quel concerto, Sting lo introduce spiegandolo.
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San Robert, missionario cattolico segreto in vita, torna in qualche modo a evangelizzare quella stessa Chiesa Anglicana che lo ha martirizzato.
Quello che segue è il testo originale della poesia The Burning Babe.
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As I in hoary winter’s night stood shivering in the snow, Surpris’d I was with sudden heat which made my heart to glow; And lifting up a fearful eye to view what fire was near, A pretty Babe all burning bright did in the air appear; Who, scorched with excessive heat, such floods of tears did shed As though his floods should quench his flames which with his tears were fed. “Alas!” quoth he, “but newly born, in fiery heats I fry, Yet none approach to warm their hearts or feel my fire but I! My faultless breast the furnace is, the fuel wounding thorns, Love is the fire, and sighs the smoke, the ashes shame and scorns; The fuel Justice layeth on, and Mercy blows the coals, The metal in this furnace wrought are men’s defiled souls, For which, as now on fire I am to work them to their good, So will I melt into a bath to wash them in my blood.” With this he vanish’d out of sight and swiftly shrunk away, And straight I called unto mind that it was Christmas day.
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