Lo chiamano già “trumpismo”, e Donald J. Trump ne è solo la manifestazione più recente. Con poche pennellate, lo inquadra alla perfezione un commentatore di destra, David J. Frum, in un giornale di sinistra, The Atlantic (e anche questo è una segno dei tempi). Frum (che da speechwriter del presidente Georg W. Bush Jr. coniò per lui la famosa espressione «asse del male») è tanto disincantato da essere spesso perfido, non di rado è antipatico, ma da anni non sbaglia un’analisi anche quando a botta calda i suoi giudizi sembrano infondati. The Atlantic è nato nel 1857 sponsorizzato dal jet-set letterario-filosofico dell’epoca (Ralph Waldo Emerson, Oliver Wendell Holmes, Henry W. Longfellow, James Russell Lowell e Harriet Beecher Stowe, l’autrice de La capanna dello zio Tom) e oggi dà voce alla borghesia illuminata, spesso snob, sempre liberal. Insieme sono una garanzia: «Il ceto medio bianco esprime profonda sfiducia verso qualsiasi istituzione statunitense: non solo il governo, ma le corporation, i sindacati, persino il partito politico per cui ha sempre votato, cioè quello Repubblicano […] che disprezza come una banda di scamorze e di venduti. Ne ha piene le tasche. E quando è arrivato Donald Trump, ha detto ai sondaggisti: “Il mio tipo è lui”. Non è fatto necessariamente di superconservatori. Spesso quella gente non pensa affatto in termini ideologici. Ma è fortemente convinta che una volta questo Paese fosse molto più congeniale a sé e quindi adesso quel vecchio Paese lo rivuole indietro».
Sono gli Stati Uniti d’America, ma potrebbero essere qualsiasi altro Paese occidentale. La Grecia di Alexīs Tsipras, la Francia di Marine Le Pen, l’Inghilterra di Boris Johnson e dello UKIP (e la Scozia degl’indipendentisti di sinistra), la Spagna di Podemos (e degli autonomisti catalani di sinistra) oppure l’Italia dei “grillini” o della Lega Nord, ma anche degli Alfio Marchini e persino del popolo del Family Day. Fenomeni ovviamente diversissimi, per nulla assimilabili, ma accomunati dall’insoddisfazione verso lo status quo. Per questo prendono forma sia a destra sia a sinistra”: il loro colore è infatti sempre il contrario di quello che governa e la loro estrazione socio-economica quella di volta in volta più depressa.
Come ogni populismo che si rispetti, anche il “trumpismo” mescola alla rinfusa argomenti sia di destra sia di sinistra senza il minimo timore per le zone grigie dove questi s’incontrano e si scontrano: il mercato libero e il nazionalismo economico, la contrarietà agli avventurismi militari e i proclami bellicosi contro le centrali del terrorismo, la retorica del “Paese delle opportunità” e le recinzioni per tenere alla larga gli “altri”. L’essenziale, infatti, è la protesta: quella dei colletti bianchi, però, non degli antagonisti. Perché di suo il programma con cui Trump sta sfidando tutti è semplice al limite del semplicistico: sostituzione dell’“Obamacare” (la riforma sanitaria) con la liberalizzazione dei sistemi previdenziali basata sul principio che ciò abbasserà i prezzi e migliorerà le prestazioni; rinegoziazione degli accordi commerciali con la Cina affinché ai lavoratori americani sia possibile avere lo stesso pieno accesso al mercato cinese che i cinesi hanno al mercato americano; riforma dell’assistenza ai veterani; riforma del sistema fiscale a beneficio del ceto medio; difesa del libero porto d’armi; e tolleranza zero vero l’immigrazione illegale. Nulla più di quanto il ceto medio bianco esasperato vuole sentirsi dire oggi.
Certo, sembra un copia e incolla dai suoi più grandi avversari di oggi, i Repubblicani conservatori. Ma allora in cosa Trump si differenzia da loro? Nella rabbia e nella paura con cui fa appello alla rabbia e alla paura di quella “zona grigia” della popolazione che è artefice del benessere del Paese ma che oggi si sente defraudata dal suo share di godimento, spodestata dal ruolo chiave di cui ha sempre goduto e intimorita da un futuro di tasse sempre crescenti, di lavoro che (negli Stati Uniti) c’è ma va agl’immigrati e di politica autoreferenziale. La filosofia del risentimento, insomma: la scoria fisiologica della civiltà dei consumi, forse persino della democrazia stessa, esacerbata ai nostri giorni dal successo con cui il politicamente corretto riesce ad addomesticare le maggioranze e a pilotare le minoranze, escludendo fasce intere di “nuovi poveri” che non sono i meno abbienti ma i più spaesati.
Il fatto che negli Stati Uniti di oggi gl’interpreti classici, e con risultati migliori, di questo “disagio della civiltà moderna”, ovvero i conservatori, segnino il passo è però dovuto principalmente allo stato generale del mondo odierno. È cioè la stessa forma “partito” a non convincere più, in un tempo storico in cui il problema nodale è l’insostenibilità dell’idea-Stato moderno e dei suoi strumenti (i partiti), come lucidamente puntualizza il principe regnante del Liechtenstein Hans-Adam II ne Lo Stato nel terzo millennio (IBL Libri, Torino 2011).
La dinamica con cui questo disagio, di per sé d’indole conservatrice (è infatti lo stesso che pochi anni fa ha generato e spinto il movimento dei “Tea Party”), deraglia adesso nel populismo confuso di Trump è stato però già ben descritto in un saggio, The Paranoid Style in American Politics, firmato dal politologo Richard Hofstadter sulle pagine di Harper’s Magazine nel novembre 1964. In quel saggio, che ha fatto epoca e scuola, Hofstadter stigmatizzava la politicizzazione della “piazza arrabbiata” in cerca del capro espiatorio, e più appagata dal suo sacrificio che dalla soluzione dei propri problemi concreti, puntando il dito contro il nascente movimento conservatore. A mezzo secolo di distanza è però perfettamente chiaro che Hofstadter sbagliò obiettivo. Parlava già del “trumpismo”, quella deriva da cui la politica americana deve oggi salvare un numero non piccolo di cittadini che non sempre si lamentano a torto.
Marco Respinti
IL POPULISMO STATUNITENSE IN PILLOLE
L’humus del “trumpismo” ha una tradizione consolidata. Negli Stati Uniti il governo e le istituzioni sono guardati da sempre con sospetto. Nel Paese dei self-made men e dell’“anarchia istituzionalizzata”, lo Stato pesa sempre troppo e il motto è quello delle origini, «Don’t tread on me», “Non calpestarmi”. Là il governo è arrivato tardi; prima c’è stata la gente, il far da sé, l’“individualismo comunitario” nato da una rivolta fiscale che scatenò la guerra civile nell’impero britannico fra le truppe di Sua Maestà e le milizie dei cittadini-soldato, dei farmer e dei mercanti. Il nome che gli statunitensi si danno è «We, the people» (la stessa espressione traduce “noi il popolo”, “noi la gente”, “noi le persone”), cioè l’incipit della Costituzione federale voluta per difendersi dallo strapotere dello Stato. I Padri fondatori diffidavano dei politicanti di professione. Le armi da fuoco sono un diritto costituzionale non per caccia e sport, ma contro i tiranni. E in un Paese dove l’istruzione è appannaggio di famiglie, comunità e Chiese, un vero e proprio ministero dell’Educazione è stato creato solo nel 1980.
Partiti populisti ce ne sono dunque stati diversi e per definizione trasversali: famosi il Greenback Party, poi trasformatosi in People’s Party, e il Progressive Party, sorto da una scissione del Partito Repubblicano guidata dall’ex presidente Theodore Roosevelt. Leader populisti di spicco sono stati il tre volte candidato presidenziale Democratico William Jennings Bryan tra fine Ottocento e inizio Novecento; il governatore Democratico della Louisiana Huey Long negli anni 1930; il governatore dell’Alabama George Wallace negli anni 1960 (Democratico e poi ex Democratico), e, più di recente, il giornalista prestato alla politica (e già consigliere di Richard Nixon, Gerald Ford e Ronald Reagan) Patrick J. Buchanan. Corse le primarie presidenziali nel 1992 e nel 1996 per il Partito Repubblicano, e nel 2000 si candidò alla Casa Bianca con il Reform Party del miliardario Ross Perot. M.R.
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.