Un marziano che tra qualche secolo studiasse la storia di questi nostri anni rimarrebbe basito, soprattutto se i suoi manuali fossero simili a quelli delle scuole terrestri dove la mera giustapposizione cronologica riesce sempre a fare tornare i conti di tutto. Di Cuba, in particolare, non capirebbe nulla. La minaccia della guerra nucleare totale a qualche miglio dagli Stati Uniti e poi l’abbraccio proprio con gli Stati Uniti. La guerra delle spie e poi le pacche sulle spalle; l’esportazione in mezzo mondo di un’ideologia brutale e poi i sorrisi; la repressione sistematica dei dissidenti, di cittadini troppo credenti per bersi le menzogne del regime, persino degli omosessuali e poi il Gay Pride più istrionico del mondo, organizzato, nel maggio scorso, dalla nipotina tutta pepe del despota assoluto dell’Isola con tanto di ex gesuita omosessuale che benedice le coppie per strada. E tutto mentre resta inossidabilmente al potere lo stesso Castro. Certo, Fidel prima e poi Raúl, ma non cambia nulla: per la nostra sensibilità altamente democratica il passaggio dinastico tra due fratelli è degno di una satrapia, non di un Paese civile.
Dire, come ha fatto The Washington Post il 20 marzo, che di fronte alla storica visita compiuta dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama a Cuba dal 20 al 22 marzo i cubani si sono divisi è un’ovvietà che non stupirebbe oramai più neanche il nostro marziano; ma la cosa più grave è che questa linea scelta da uno dei quotidiani più autorevoli del Paese più potente del mondo assomiglia troppo a un imbarazzo pilatesco.
Sarebbe però sciocco, e in realtà anche pusillanime, fingere che non sia successo nulla. Dal 1989 l’impero sovietico non c’è più. Cuba, che per un trentennio è stata la prua di un enorme corazzata puntata contro gli Stati Uniti, si è trovata improvvisamente orfanella in balia di onde gigantesche pronte a schiantarla contro il colosso del mondo e per questo ha pensato bene di tirare i remi in barca.
L’embargo economico risale a quando L’Avana era un minaccia concreta e oggi appare superfluo. Da sempre gli Stati Uniti ne dibattono. I suoi sostenitori affermano che l’isolamento di Cuba è stato l’unico modo per impedire al regime, non autosufficiente, di farsi ancora più pericoloso di quanto già sia stato. I suoi avversari, invece, pur anticomunisti come i primi, hanno sempre posto l’accento sul fatto che colpire economicamente un regime totalitario significa colpirne il popolo, aggiungendo poi che massicce dosi di mercato avrebbe piegato meglio e prima il castrismo.
Sia come sia, è un dato di fatto che oggi, anche grazie all’embargo, Cuba non fa più paura. La gerontocrazia che la governa assomiglia un po’ a quello che era divenuto Muhammar Gheddafi prima che la sua rimozione facesse esplodere la bomba libica: vecchie canaglie oramai a riposo più sensibili al business che alla sovversione. Con Google e Western Union pronti ad arrembare Cuba è evidente che i fratelli Castro sono ben disposti a mandare in soffitta la revolución non per un piatto di lenticchie, ma per antipasto, primo, secondo, dolce, caffè e ammazzacaffè.
Il realismo – che in politica è sempre una virtù a patto di non farne un feticcio ideologico – impone di prendere atto di un mondo trasformato. È ciò che stanno facendo i giornali di opinione della Destra più anticubana che ci sia, da National Review a The Weekly Standard a The American Spectator, furenti sì con Obama per il “tradimento”, ma che, tra le righe, già preparano il pubblico al domani: quando Cuba sarà un altro di quei Paesi che da rossi sono diventati rosa e con cui bisogna convivere su un pianeta geopoliticamente nuovo dove, piaccia o no, c’è posto per tutti. Quello che però quel mondo domanda ancora a gran voce è che invece dell’amnistia generale di cui il castrismo sta godendo senza meriti si alzino la voce e il prezzo. Per esempio esigendo gesti netti di discontinuità politica, il pensionamento del clan Castro e la fine del partito unico. Ma Obama, che già è nella storia per il disgelo con Cuba, non vuole guastarsi la festa.
La Chiesa Cattolica grande artefice del disgelo
La grande artefice del riavvicinamento tra L’Avana e Washington è la Chiesa Cattolica, e di tutto il dossier Cuba questa è la notizia migliore. Nel dopoterremoto comunista, la Chiesa è stata l’unica protezione civile che ha immerso le mani nello sfacelo antropologico e sociale causato dall’ideologia intavolando anche un discorso morale. La Chiesa fa così sempre. Lascia, com’è giusto, le questioni economico-politiche a chi di dovere e non sottrae nulla alla missione. L’implosione dell’impero comunista ha aperto spiragli di azione nuova e la Chiesa ci si è buttata a capofitto, trasformando gli spiragli in porte aperte. Nel cammino lungo questa strada può anche inciampare, ma decisivo è capire la meta. Diverso è invece il ruolo che hanno i padroni del vapore, nessuno dei quali svolge lo stesso mestiere del Papa e che di ben altro debbono rispondere al tribunale della storia.
Il rischio, infatti, di confondere i ruoli assolvendo tutto o tutto condannando è enorme. I più inviperiti ora sono infatti gli esuli e i dissidenti cubani. Non vogliono sentire parlare di disgelo, non vogliono sentire parlare di Obama, ma non vogliono sentire parlare nemmeno, benché in gran parte cattolici praticanti, del Pontefice. Si sentono traditi, e di questo occorre tenere conto. Accade lo stesso con i cattolici “uniati” nell’Europa Orientale, che dopo l’incontro tra il Papa e il patriarca Kirill, si sentono stritolati da una nuova Ostpolitik. Non hanno sempre tutte le ragioni, ma non li si può facilmente licenziare dando loro tutti i torti.
Dissidenti cubani storici e famosi sentono ora di avere combattuto in vano, e le loro voci gridano dalle colonne del Miami Herald. Forse non si rendono conto che proprio il loro sacrificio di una vita è ciò che permette la libertà di molti oggi. Solo che non se la sentono di abbracciare il relativismo neoborghese che si sta impadronendo adesso di Cuba solo perché non è più il marxismo-leninismo duro e puro di ieri. Né di concedere a Raúl Castro di fingere di cascare dal pero alla conferenza stampa con Obama del 21 marzo quando, davanti al mondo, ha chiesto “dettagli” sui “presunti” prigionieri politici ancora nelle prigioni del regime. Tipo i 51 dimenticati a favore dei quali la benemerita Victims of Communism Memorial Foundation di Washington ha lanciato una petizione, «una lista di 51 prigionieri malauguratamente non esaustiva», dato che «il numero dei prigionieri politici cubani odierni è valutato in più di 100». Di quei 51 almeno «conosciamo i nomi e abbiamo verificato le storie». M.R.
Versioni complete e originali degli articoli pubblicati
il primo con il titolo Ora Cuba non fa più paura e il secondo con il medesimo titolo
in il nostro tempo, anno 71, n. 10, Torino 13-03-2016, pp. 1 e 6-7
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