«Dobbiamo tutti renderci conto che la storia è stata fatta dagli uomini e noi, in quanto uomini, possiamo cambiarla». Sono le parole con cui si chiude Controrivoluzionario (trad. it., San Paolo, Cinisello Balsamo [Milano] 2008), un titolo che è uno stendardo, una medaglia, una dichiarazione di guerra giusta e spesso anche santa: è l’autobiografia di Harry Wu (1937-2016), che nel sottotitolo suona I miei anni nei gulag cinesi, una porcheria che non augureresti neanche al peggiore nemico. Harry è scomparso martedì 26 aprile in Honduras, dove si trovava in vacanza, a 79 anni. Lascia il figlio Harrison e l’ex moglie China Lee. In vita ha visto l’inferno. L’inferno. Per 19 anni è stato internato nei laogai, i terribili campi di lavoro del comunismo cinese, quello che per molti, per troppi sono già solo un ricordo del passato, ma non è così, Harry non l’ha mai pensata così. Il suo supplizio ricorda quello di Aleksàndr I. Solženicyn in Russia e di Armando Valladares a Cuba. Perché come Solženicyn per la Russia e come Valladares per Cuba, Harry Wu è stato anche la memoria, la coscienza della Cina.
Harry nasce a Shangai con il nome di Wu Hongda da una famiglia benestante e cattolica. Un cradle Catholic che ci rammenta la storia del cattolicesimo difficile ma indomito di quell’oceano terrestre asiatico, missioni coraggiose e mai buoniste, sapienza antica e martirio, da Matteo Ricci alla ribellione antioccidentale e anticristiana dei boxer. Dopo che Mao Zedong, uno dei grandi criminali dell’umanità, ebbe preso il potere nel 1949, la famiglia di Harry, invisa perché rea di possedere qualcosa di proprio, viene espropriata. S’iscrive nell’Istituto di Geologia per studiare rocce e affini. Nel 1956 il governo tende un trabocchetto. Finge di aprirsi e invita tutti a dire come davvero la pensano. Harry critica il massacro dell’Ungheria da parte del comunista “buono” Nikita S. Krušëv. Finisce nel mirino. Viene bollato come un “rompiglioni”, in inglese troublemaker e più tardi c’intitolerà un altro libro di memorie, Troublemaker: One Man’s Crusade Against China’s Cruelty (Times Books, New York 1996). Nel 1960 viene arrestato; l’accusa è il suo stendardo, la sua medaglia, la sua buona battaglia: “controrivoluzionario”, come un bollino sulla frutta. Di più: dicono che sia membro di un “gruppo cattolico fuorilegge”. Dio te ne renda merito, grande Robin Hood dagli occhi a mandorla.
Dal buco in cui lo rinchiudono esce nel 1979. Nel 1985 riesce a fuggire in un altro postaccio, forse il peggiore di tutti, quello che sicuramente è la causa dei mali del mondo e che rispetto a tutti gli altri luoghi ha il vizio di venerare la libertà, la persona umana e la proprietà privata nonostante il suo fisco, i suoi governanti e certi ceffi: gli Stati Uniti d’America. E qui Wu comincia a sollevare il velo sugli orrori del suo Paese, non solo ai tempi di Mao, ma anche dopo, con la “demaoizzazione” (?), e dopo ancora, e fino a oggi, tutto sempre uguale nonostante le lustratine di Polish. Parla Harry; parla in pubblico, parla molto. La sua storia la racconta in Bitter Winds: A Memoir of My Years in China’s Gulag (1994), quello che in italiano è appunto diventato Controrivoluzionario.
Nel 1988 incontra il responsabile del dipartimento degli studi sull’Asia Orientale della prestigiosa, impagabile Hoover Institution on War, Revolution, and Peace di Stanford, in California, quella che per intenderci ha ospitato fuoriclasse come Robert Conquest, Angelo Codevilla ed Eric Voegelin. Aspira a studiare con precisione il sistema dei campi cinesi di lavoro forzato, appunto i laogai. Fa breccia, e così comincia a stilare elenchi e mappe dell’orrore rosso cinese. Nei primi anni 1990 torna, con un coraggio da leone, in patria, perché non si accontenta dei ricordi e delle fonti di seconda mano. Vuole evidenze, prove, materiali di prim’ordine. Nel 1900 il senatore Repubblicano, Jesse Helms, campione dell’anticomunismo, e il senatore Democratico Alan Cranston (uno di quei Cold War warrior che ci sono sempre stati tanto utili) lo invitano a testimoniare davanti al Congresso. Tivù e giornali finalmente s’interessano di lui. Diviene cittadino statunitense e viene assunto come professore di Geologia nell’Università della California di Berkeley. Poi però lascia tutto per dedicarsi alla sua missione, raccontare la verità sul Dragone comunista. Nel 1992 pubblica il primo resoconto delle sue ricerche Laogai: The Chinese Gulag, tradotto in italiano come Laogai, i Gulag di Mao Tze Dong (L’ancora del Mediterraneo, Napoli-Roma, 2006). E nello stesso anno a Washinton fonda la Laogai Research Foundation perché la battaglia continua, sempre.
Il termine laogai è l’abbreviazione di laodong gaizao, ossia “riforma attraverso il lavoro”, una ipocrisia che include il laojiao (“rieducazione attraverso il lavoro”) e il jiuye (“personale addetto al lavoro forzato”, cioè la prigione). Li ha creati Mao nel 1957 con lo scopo preciso di strappare sempre quello stendardo, di calpestare quella medaglia, di combattere contro quella buona battaglia: cioè per «riformare la mente dei controrivoluzionari e conservatori di destra». La fondazione di Harry riesce a documentare, nel 2008, l’esistenza di 1422 laogai. Il volto della Cina “post”-comunista è questo. Per effetto delle denunce di Harry, nel 2013 il governo di Pechino annuncia che chiuderà i laogai. Resta solo un annuncio. Nel 2013, secondo la Fondazione, i campi di “rieducazione” cinesi sono almeno 1045, con circa 4 milioni di prigionieri.

Harry Wu mostra le dimensioni di una cella d’isolamento del laogai
Harry documenta mille cose raccapriccianti. Lo schiavismo con cui il regime rosso cinese fa la concorrenza sporca all’Occidente del rule of law violando ogni legge: là, infatti, in totale assenza di regole e di morale, si produce la fuffa con cui viene drogato il nostro mercato, oppure quei prodotti buoni sì ma che noi comperiamo a prezzi stracciati solo perché prodotti con il sudore e con il sangue dei servi. Ma c’è ben altro. Ci sono le migliaia di pene capitali che ogni anno mietono morti su morti, spesso per ragioni politiche, ovvero innocenti di tutto, e di fronte alle quali non abbiamo mai visto sventolare alcuna bandiera arcobaleno. Ma non basta ancora. C’è anche il mercato nero degli organi umani espiantati dai morti ammazzati dal regime, guarda caso con un inquietante parallelismo numerico tra domanda (di organi) e offerta (di morti ammazzati). Sta tutto nel libro di Harry Cina. Traffici di morte. Il commercio degli organi dei condannati a morte con tanto di DVD (Guerrini e Associati, Milano 2008). Una cosa da horror di fantascienza, che si accompagna alla follia dell’aborto imposto alle famiglie in ossequio alla “politica del figlio unico”, ma che invece è tutta roba vera. Sta tutto nel libro di Harry Strage di innocenti. La politica del figlio unico in Cina (Guerrini e Associati, 2009).
Quando nel 1995 cerca di entrare ancora in Cina, in modo perfettamente legale, viene arrestato e incarcerato preventivamente per 66 giorni con l’accusa, falsa, falsissima, di sottrazione di segreti di Stato. Viene condannato a 15 anni di prigione. Si salva solo perché mezzo mondo si mobilita.
Nel 2008 apre a Washington anche il Museo del Laogai, per preservare la memoria, per non arrendersi mai. Sempre nel 2008 esce Laogai. L’orrore cinese (Spirali, Milano). Nel 2010, grazie alla documentazione da lui fornita, la Laogai Research Foundation Italia pubblica I laogai cinesi (Fede e Cultura, Verona) e nel 2012 La persecuzione dei cattolici in Cina (Sugarco, Milano). Noi non siamo tra i fan di Roberto Saviano e del suo coté politico. Ma chapeau al monologo di denuncia dei laogai con cui il romanziere ha introdotto il grande, indimenticabile, amico Harry Wu a Quello che (non) ho di Fabio Fazio il 16 maggio 2012 su LA7, in prima serata. Harry la storia l’ha cambiata, da solo, comunque. Requiescat in pace.
Marco Respinti
Versione completa e originale dell’articolo pubblicato con il titolo
Ciao Harry, eroe di libertà contro l’orrore de gulag cinesi
in l’intraprendente. Giornale d’opinione dal Nord,
Milano 28-04-2016
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