C’è uno spettro, negli Stati Uniti di oggi, che fa più paura persino dell’incognita sul prossimo inquilino della Casa Bianca. È la nomina del giudice che alla Corte Suprema federale dovrà colmare il vuoto lasciato dalla scomparsa del conservatore Antonin G. Scalia (1936-2016). Perché tanto timore? Perché un giudice supremo fa più storia (anche se meno televisione) di un presidente.
Negli Stati Uniti la Corte Suprema federale ha un compito decisivo e delicato. Unico tribunale espressamente regolato dalla Costituzione, veglia affinché il legislatore non operi né a casaccio né a piacimento bensì in perfetta conformità a quel criterio che non a caso viene definito “legge fondamentale del Paese”.
Gli Stati Uniti sono del resto nati con una pretesa. Quella di governare attraverso la certezza del diritto e non con il capriccio degli uomini. Dopo lunga ponderazione frutto di un serrato confronto incentrato soprattutto sulla galleria di esempi virtuosi e viziosi forniti dalla storia, i deputati delle diverse articolazioni di cui si componeva due secoli fa la nazione, riuniti a congresso dopo essere stati scelti come i migliori a rappresentare le proprie comunità (cioè come “aristocrazia”), nel 1789 diedero all’esigenza statunitense di certezza del diritto la forma di quella Costituzione federale che da allora non è mai stata modificata. Emendata sì, ma per esplicitarne la dottrina.
La forma americana dell’universale esigenza di rule of law che la Costituzione federale degli Stati Uniti incarna risponde dunque per ciò stesso ‒ è questo l’intendimento dei Padri fondatori ‒ a un criterio ulteriore che la precede e la fonda. Una lex suprema che non dipende né dall’uomo né dalle sue maggioranze politiche, ma dalla ragionevolezza e dalla moralità naturali, come illustra il giurista Edward S. Corwin (1878-1963) in un classico immarcescibile, The “Higher Law” Background of American Constitutional Law, del 1965.
Se dunque la Costituzione assicura il raccordo tra legge positiva e legge naturale, il ruolo di vigilanza che la Corte Suprema esercita sulla produzione legislativa del Paese è la prima e ultima garanzia di legittimità delle leggi statunitensi. Per questo la funzione della Corte Suprema segna anche il confine del suo ruolo: essa vigila sulle leggi ma non le produce; se lo facesse, si esimerebbe da quell’esame di costituzionalità che essa sola ha l’autorità di svolgere. Ogni qualvolta la Corte Suprema dovesse legiferare in proprio violerebbe il mandato costituzionale che la istituisce e sottrarrebbe il proprio operato al controllo della legge fondamentale del Paese. Ossia commetterebbe un golpe bianco.
Tutto ciò intreccia dunque direttamente quello che negli Stati Uniti viene definito “originalismo”, vale a dire la dottrina che interpreta la Costituzione come un documento fissato per sempre nel proprio significato e che al giurista riserva il compito di stabilire quale quel significato autenticamente sia nelle intenzioni dei suoi estensori. Il termine “originalismo” è in uso dagli anni 1980, ma riposa su una storia culturale assai più antica e di fatto è sorto in reazione all’attivismo giudiziale basato su quella concezione “creativa” del diritto che invece interpreta la Costituzione come polimorfica e cangiante, incubata e poi diffusasi a partire dal periodo compreso fra gli anni Trenta e gli anni Settanta del Novecento.

Il presidente della Corte Suprema federale John G. Robert e il presidente degli Stati Uniti George W. Bush Jr.
Chi accusa l’“originalismo” di fossilizzare il diritto nel passato, rendendolo incapace di soddisfare le esigenze giuridiche dell’ora presente sbaglia del resto di grosso. L’“originalismo” riguarda infatti la legge fondamentale del Paese, ma non la sua normale attività legislativa. Non solo l’intangibilità della prima non paralizza la seconda, ma è l’unico elemento che permette provvedimenti nuovi coerenti con l’impianto istituzionale del Paese e il suo ethos così come espressi nella sua “carta d’identità”: la Costituzione stabilita dai Padri fondatori per tutti gli Stati Uniti, sia nello spazio sia nel tempo.
Viceversa, è il trionfo dell’arbitrio assoluto, motivo per cui l’“originalismo”, pur nelle sue diverse sfumature, è la concezione che anima giudici della Corte Suprema tanto conservatori, come il defunto Scalia e Clarence Thomas, quanto progressisti, come Hugo L. Black (1886-1971).
E non si tratta affatto di un mera diatriba tecnica fra addetti ai lavori. L’“originalismo” è infatti il richiamo costante alla questione centrale della vita pubblica americana, quella che John Adams (1735-1826), il secondo presidente degli Stati Uniti, espresse così l’11 ottobre 1798 in un messaggio agli ufficiali della prima Brigata della Terza Divisione della Milizia del Massachusetts: «La nostra Costituzione è stata fatta solo per un popolo morale e religioso. Essa è del tutto inadeguata al governo di qualsiasi altro tipo di popolo», di modo che in We Hold These Truths: Catholic Reflections on the American Proposition, del 1960, il padre gesuita John Courtney Murray (1904-1967), scrivendo del Bill of Rights (1791), cioè i Dieci Emendamenti originari alla Costituzione federale (il primo dei quali sancisce il diritto alla libertà religiosa come fondamento di ogni altro diritto dei cittadini americani), potesse dire: «Il Bill of Rights statunitense non è un saggio di dottrina razionalistica settecentesca; è invece più un prodotto della storia cristiana. Dietro di esso non si staglia la filosofia dell’Illuminismo, ma quella filosofia più antica che è stata la matrice del Common Law. L’“uomo” di cui si garantiscono i diritti davanti alla legge e al governo è, che egli lo sappia o no, l’uomo cristiano che ha imparato a conoscere la propria dignità alla scuola della fede cristiana».
Dalla nomina di un giudice alla Corte Suprema passa tutto questo, lo scontro finale tra diritto (e diritto naturale) e soggettivismo ideologico.
Marco Respinti
Chi è Merrick B. Garland
La Corte Suprema federale degli Stati Uniti sorveglia la costituzionalità delle leggi, sia quelle federali approvate dal Congresso di Washington sia quelle varate dalle assemblee legislative dei singoli Stati dell’Unione. È composta da nove giudici, di cui uno è il presidente. I suoi giudici sono nominati a vita, anche se hanno la facoltà di ritirarsi. Il loro numero dispari consente di raggiungere sempre un verdetto finale, evitando la parità. I nove giudici vengono nominati dal presidente degli Stati Uniti «con il parere e con il consenso del Senato» (come recita l’Art. II. Sez. 2 della Costituzione) per garantire l’equilibrio tra i poteri federali.
Scomparso Antonin G. Scalia il 13 febbraio, oggi i giudici della Corte Suprema sono John G. Roberts (il presidente), Clarence Thomas, Samuel Alito, Ruth Bader Ginsburg, Stephen Breyer, Sonia Sotomayor, Elena Kagan e Anthony Kennedy: tre i conservatori (Roberts, Thomas, Alito), quatto i liberal (Bader Ginsburg, Breyer, Sotomayor, Kagan) e uno che spesso i liberal li fa vincere (Kennedy). Per la successione, il presidente Barack Obama ha nominato Merrick B. Garland, nato nel 1952 a Chicago, dottore in Legge ad Harvard, giudice della Corte d’Appello del Distretto di Columbia dal 1995, liberal. Anzi, “liberal moderato” dice la stampa americana, anche se, osserva A. Bartin Hinkle su Reason (mensile di orientamento libertarian), lo stesso è stato detto e ripetuto per la Sotomayor e per la Kagan che di moderato non hanno nulla. Piuttosto Garland, dice Reason, è il governativo per eccellenza: sta sempre con lo Stato, qualunque sia l’orientamento politico della maggioranza che lo governa. Per nulla d’accordo sono invece Alicia Parlapiano e Margot Sanger-Katz su The New York Times: per loro Garland sposterebbe massicciamente a sinistra il baricentro della Corte Suprema. M.R.
Versioni complete e originali degli articoli pubblicati
il primo con il titolo Corsa al voto, la partita della Corte Suprema
e il secondo con il titolo Scheda
in il nostro tempo, anno 71, n. 14, Torino 10-04-2016, pp. 1 e 9
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