Se non si comprende il suo amore per le lingue, di J.R.R. Tolkien non si capisce nulla. Lo scrisse lui a metà del 1955 al suo editore statunitense, la Houghton Mifflin Co.: «l’invenzione delle lingue è il fondamento. I “racconti” sono stati creati più per fornire un mondo per le lingue che non il contrario», e dunque Il Signore degli Anelli è «principalmente un saggio di “estetica linguistica”». Non solo le lingue, cioè, stanno al centro della preoccupazione dello scrittore, ma il loro bello: la bellezza intrinseca di un idioma e la bellezza che esso veicola. Per questo il testo tolkieniano chiave è quello che l’allora professore di Anglosassone al Pembroke College dell’Università di Oxford preparò per una conferenza di filologi svolta in ateneo nel 1931 e che una ventina di anni dopo riaggiustò per una seconda lettura pubblica, probabilmente nel 1950. Ora quel saggio viene pubblicato a Londra dalla HarperCollins con il titolo A Secret Vice: Tolkien on Invented Languages in una edizione critica curata da due specialisti, Dimitra Fimi e Andrew Higgins. Lettrice di Lingue e letteratura inglesi nell’Università di Cardiff, in Inghilterra, e autrice di Tolkien, Race and Cultural History: From Fairies to Hobbits (2009), Dimitra Fimi ha conseguito il dottorato di ricerca nel 2005 con una tesi sull’uso creativo che Tolkien faceva della cultura dotta. Andrew Higgins, suo allievo, si è addottorato l’anno scorso studiando la genesi della mitologia creata dal bardo di Oxford.
In realtà, Tolkien intitolò quel saggio A Hobby for Home. Fu il figlio Christopher, suo erede letterario, a ribattezzarlo A Secret Vice (in italiano Un vizio segreto) quando, pubblicandone la versione definitiva nella miscellanea The Monsters and the Critics and Other Essays del 1983, riprese la suggestione di una lettera scritta dal padre nel 1967 (in italiano il volume è uscito come Il medioevo e il fantastico, a cura di Gianfranco de Turris, prima per la Luni nel 2000 e poi per Bompiani nel 2003). Nella nuova edizione completa e critica il saggio è una miniera d’oro. Anzitutto perché reintegra le parti omesse nella versione di A Secret Vice del 1983 e propone le note appostevi dall’autore. Quindi perché si accompagna a una seconda perla, un altro saggio linguistico di Tolkien, inedito, Phonetic Symbolism, incentrato, dicono i curatori Fimi e Higgins a Libero, «sull’idea che tra il suono che produce una parola e il suo significato vi sia una relazione diretta», un’idea «risalente al Cratilo di Platone», ma «marginalizzata nella linguistica moderna canonizzata da Ferdinand de Saussurre».
Tutto molto bello, si sarebbe tentati di pensare, e però troppo elitario, lontano dalla pop culture che oramai si è impadronita di Tolkien. Falso. Dentro c’è infatti il cuore autentico della “subcreazione” tolkieniana, e forse persino il suo significato più profondo.
Narra il legendarium di Tolkien che quando Ilúvatar, il Padre di tutti, risvegliò alla vita gli Elfi agli albori della Terra di Mezzo essi iniziarono naturalmente a parlare. Crearono il Quenderin, l’elfico primigenio da cui sono poi discesi tutti gli altri idiomi tolkieniani. Prima di esso vi era solo il Valarin, la lingua parlata dagli Ainur, i “Santi” d’Ilúvatar, angeli e arcangeli, principati e potestà. In realtà non ne avevano bisogno, perché comunicavano con la mente, ma lo parlarono da che presero forma storica nella creazione d’Ilúvatar. Perché mai un rispettatissimo cattedratico della più blasonata università inglese dovrebbe perdere la faccia con giochini così? Perché il gioco di Tolkien è serissimo. Egli, che parafrasando la liturgia del Venerdì Santo un dì esclamò: «Felix culpa Babel!», contemplava infatti nientemeno che il superamento della maledizione della Torre di Babele. È lui stesso a suggerirlo, facendo riferimento, in A Secret Vice, all’esperanto.
La lingua artificiale creata dall’oftalmologo polacco Ludwik Lejzer Zamenhof restò un interesse costante dello scrittore, forse persino un pungolo, come dimostra il recentissimo J.R.R. Tolkien l’esperantista. Prima dell’arrivo di Bilbo Baggins (Cafagna, Barletta 2016) curato, con inediti del professore di Oxford, da Oronzo Cilli, i cui studi sul tema sono infatti opportunamente citati nell’acribico lavoro critico di Fimi e di Higgins. L’esperanto fu creato per superare la barriere tra gli uomini e produrne la fratellanza. Un’utopia, e Tolkien finì per rendersene conto. Ma per lui il punto nodale restava. E, non pago, creò l’elfico. Non si sognò mai di proporre una società delle nazioni che lo parlasse; mirava solo a puntare la questione centrale: cos’è una lingua, chi è l’essere che la parla, quali significati trasmettono. La centralità del verbo, insomma, e quella del Verbo. La radice di tutto oltre la Torre di Babele in cui viviamo. Per questo Tolkien è (com’è stato detto di Joseph De Maistre impegnato con il principio primo generatore di tutto) un pensatore dell’origine. Il suo vizio segreto ne è la prova.
Marco Respinti
Versione originale e completa dell’articolo pubblicato con il medesimo titolo
in Libero [Libero quotidiano], anno LI, n. 111, Milano 22-04-2016, p. 24
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