«Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia», universi paralleli che si espandono in un futuro remoto dove l’antica sfida, sempre nuova e sempre uguale, sposa realtà e fantasia nella verità di un mito eternamente presente. Sì, l’attacco con l’Amleto è scontato, ma Shakespeare è Shakespeare, e un cantore più sublime dell’intreccio tra commedia umana e tragedia cosmica per ora non è nato. Anche perché il Bardo non è ancora morto. Nelle librerie americane è infatti appena arrivato il suo nuovo best-seller, edito a Filadelfia da Quirk Books. S’intitola William Shakespeares’s The Jedi Doth Return ed è nientemeno che il capitolo conclusivo dell’immortale saga di Star Wars del regista George Lucas, Il ritorno dello Jedi. Non è vero, l’autore è Ian Doescher, dicono subito i più cinici; ma quanti, dopo addestramento e sacrifici, hanno imparato a dosare le emozioni distinguendo le vie numinose della Forza da quelle buie, non si spettinano. Da mezzo millennio i critici si azzuffano tra chi giura sul maestro di Stratford-upon-Avon e chi propende per una persona (cioè una maschera, nel teatro classico) collettiva: cosa dunque volete che sia uno pseudo-Shakespeare in più?
Doescher ha l’età di Star Wars, nato in quel 1977 in cui il cinema saltava a velocità luce con una pellicola presto ribattezzata Una Nuova speranza da un Lucas che aveva cominciato a crederci. Sposato e padre di due figli, Doescher fa lo scrittore a Portland, in Oregon, dopo aver preso il diploma in Musica e il master in Teologia a Yale, nonché il Ph.D. in Etica allo Union Theological Seminary che a New York riecheggia l’architettura gotica della maestosa cattedrale anglicana di Durham, in Inghilterra, dove nel 2009 Sting registrò uno dei più bei live di sempre (pure cantando versi del gesuita san Robert Southwell, contemporaneo e “maestro” di Shakespeare). Adora anche Star Trek, ma si è specializzato nei d’après shakespeariani di Star Wars. Benedetto dalla LucasFilm e illustrata dal disegnatore Nicolas Delort, ha così riscritto l’intera “trilogia di fondazione”: Verily, a New Hope (2013) e ora ‒ a pochi mesi di distanza l’uno dall’alto ‒ The Empire Striketh Back (2014) nonché The Jedi Doth Return, in cui, spalmati sui cinque atti canonici shakespeariani, coro e dramatis personae (i protagonisti) raccontano di quando e di come il cavaliere Luke Skywalker strappò dalle grinfie dell’inferno il padre Anakin, che cadde, risorse e giacque sconfiggendo il dominio dell’Oscuro Signore sulla galassia. Tutto in perfetto blank verse del Seicento, quel ritmo regolare ma senza rima dove il pentametro giambico che ha fatto la gloria di Christopher Marlowe e John Milton, William Wordsworth e Percy Bysshe Shelley, John Keats e Alfred Lord Tennyson, culmina (non poteva mancare nemmeno nello pseudo-Shakespeare) nel metro alternato elisabettiano del meditativo (come in John Donne, George Herbert e ancora Milton) Sonetto 1983 (il numero è l’anno del film Il ritorno dello Jedi): «All’adiposo Jabba ciò che ha meritato,/ il vecchio Anakin e Luke riconciliati nella pace,/ i ribelli finalmente vittoria hanno cantato:/ di finale migliore neanche san Giorgio sarebbe stato capace». Nel 450° anniversario della nascita, Shakespeare è tornato e brandisce la penna di luce.
Marco Respinti
Versione originale e completa dell’articolo pubblicato con il medesimo titolo
in Libero [Libero quotidiano], anno XLIX, n. 230, Milano 28-09-2014, p. 26
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