Nel mondo cattolico si aggira uno spettro ed è l’idea che la ricchezza sia opera esecranda del demonio; ma è un falso clamoroso, anche se oggi troppi stanno facendo carte false per cercare di arruolare in certe improbabili crociate pauperiste persino il magistero di Papa Francesco. Meno male che esistono esorcisti come Robert G. Kennedy, docente alla facoltà di Etica e Diritto degli affari dell’Opus College of Business della University of St. Thomas che sorge nelle “città gemelle” del Minnesota, St. Paul e Minneapolis, diplomato e laureato in Filosofia, Management e Studi medioevali, e nessuna parentela con il quasi omonimo ministro della Giustizia assassinato nel 1968. Il suo antidoto contro quel fantasma brutto e pericoloso si chiama, schietto e assertivo, Il bene che fanno gli affari (introduzione di Salvatore Rebecchini, Fede & Cultura, Verona 2014, pp. 122, 9 euro), un piccolo e sapido reminder a uso non solo dei cattolici, pubblicato originariamente nel 2006 da quella vera e propria fucina di pensiero intelligente e cristallinità evangelica che è l’Acton Institute for the Study of Religion & Liberty di Grand Rapids, nel Michigan.
Oggi il vangelo aprocrifo dell’antiricchezza guadagna terreno citando gli anatemi del Pontefice contro un’economia che riduce l’uomo al mero consumo, ma la cosa davvero non c’entra. L’uomo rattrappito dal consumismo che il Papa denuncia è infatti solo l’“utopia concreta” della grande e terribile famiglia dei socialismi, non certo quella dell’economia libera fondata sulla sacralità della proprietà privata che regge, ricorda Kennedy, il virtuoso mondo del business. Quando infatti la tassazione esagerata espropria i risparmi, impedendo d’investire in condizioni migliori di vita, il cittadino altro non fa che consumare “alla giornata” quel poco che gli è lasciato per sopravvivere proprio come soggetto da continuare a spremere. Ma questo è lo Stato servile disegnato dai collettivismi e dai dirigismi che si reggono sulla “libertà vigilata” dei cittadini, non il Vangelo.
«Creare ricchezza», osserva invece Kennedy, «significa portare un ordine maggiore nella creazione, utilizzando l’intelligenza umana e l’ingegno per svelare i segreti della natura e per escogitare nuovi modi per soddisfare i bisogni umani. Significa utilizzare nuovi strumenti per rendere la terra produttiva, per avere una maggiore e migliore produzione; significa anche impiegare nuove forme di energia per ricavare una maggiore efficienza da ogni sorta di attività; significa condividere le tecnologie e le tecniche – tra gli individui e tra le nazioni – in modo che sempre più persone possano partecipare alla realizzazione della propria prosperità e a quella delle loro comunità; significa, soprattutto, utilizzare l’intelligenza e la conoscenza per soddisfare i reali bisogni umani, dal punto di vista di un’autentica antropologia e visione dello sviluppo umano».
Guadagnare, risparmiare, investire e far girare denaro e affari produce abbondanza, e l’abbondanza è l’unico modo conosciuto per aiutare i poveri nel solo modo possibile: farli smettere il più presto possibile di essere poveri (affinché – e questo è il carico da 11 che il cattolico ci mette – essi si dispongano alla predica non più distratti dai brontolii della pancia vuota). Tra i businessmen ci sono dei farabutti? Ovvio, dice bene Kennedy, ma né più né meno che in altre categorie di persone. Già i famosi capponi del Manzoni ricordavano del resto quanto può essere profonda la meschinità dei poveri.
Marco Respinti
Versione originale e completa dell’articolo pubblicato con il medesimo titolo in
Libero [Libero quotidiano], anno XLIX, n. 159, Milano 06-07-2014, p. 31
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