Il 22 marzo si sono svolte le primarie del Partito Repubblicano in Arizona e Utah, e le primarie del Partito Democratico in Arizona, Utah e Idaho (in questo Stato i Repubblicani hanno votato l’8 marzo). È stato il giorno delle certezze.
La prima riguarda i Democratici, ed è duplice. Hillary Clinton sarà certamente la candidata presidenziale, ma altrettanto certamente Bernie Sanders è un osso duro. Sanders ha vinto infatti in Utah e in Idaho totalizzando rispettivamente quasi l’80% e il 78% dei consensi, mentre la Clinton ha vinto in Arizona con poco meno del 58%. Quello di Sanders è però un successo solo d’immagine, anche se non per questo è meno imbarazzante sia per la Clinton sia per l’establishment del partito che punta tutto su di lei. Sommati, gli elettori che in Utah (52.185) e in Idaho (18.640) hanno votato Sanders non arrivano nemmeno a un terzo di quelli che in Arizona hanno votato la Clinton (235.667), e questo sia perché lo Utah e l’Idaho sono meno popolati dell’Arizona sia perché in quegli Stati (mediamente conservatori) si sono registrati più elettori per le primarie Repubblicane che per le primarie Democratiche. Ciononostante, il numero dei delegati conquistati in Arizona dalla Clinton (41) è uguale alla somma di quelli ottenuti da Sanders in Utah (24) e Idaho (17). Quindi, pur continuando a pungolare la Clinton, al ritmo attuale Sanders non ce la farà perché, a ogni sua vittoria ne corrisponde una della Clinton di entità uguale o (più verosimilmente) maggiore.
La seconda certezza riguarda i Repubblicani, ed è multiforme. Stanti le vittorie di Donald Trump in Arizona e di Ted Cruz in Utah, il fronte anti-Trump non si è saldato, resterà diviso, Marco Rubio probabilmente non darà mai l’appoggio esplicito a Cruz e Trump finirà per ottenere la maggioranza o relativa o assoluta dei delegati alla Convenzione con più o meno un terzo dei voti dell’elettorato che quest’anno ha scelto, nelle primarie, di votare per il Grand Old Party (GOP, l’altro nome dei Repubblicani).
In Arizona, infatti, Rubio ha fatto registrare a proprio nome, nonostante si sia ritirato dalla sfida il 15 marzo, ancora circa 70.534 voti, vale a dire un po’ più della metà di quelli ottenuti dal Cruz (130.762) e un meno di un terzo di quelli conquistati da Trump (248.383). Sono suffragi mancati a Cruz per battere Trump, così come gli sono mancati i 52.679 voti ottenuti da John Kasich. Kasich non ha alcuna speranza di ottenere la nomination esattamente come non l’aveva Rubio e resta in corsa solo per disturbare Trump pur avendo fatto peggio dello stesso Rubio: ancora oggi, pur essendosi ritirato, Rubio conta più delegati di Kasich: 166 contro 143. Nello Utah, invece, Rubio voti non ne ha presi nemmeno di bandiera e questo significa che l’elettorato di Rubio è rimasto a casa o che solo in parte piccola ha votato Kasich (che infatti ha superato Trump). Lo rivela il numero complessivo di voti Repubblicani espressi nelle primarie di quest’anno che è minore (i candidati Repubblicani hanno complessivamente ottenuto 171.903 voti) di quello del 2012 (220.415), benché nel conto relativo allo Stato mormone dello Utah abbia inciso parecchio la presenza in gara, quattro anni fa, del mormone Mitt Romney.
Dunque lo Utah prova che l’effetto Rubio non si è avuto. Ma non solo. Dimostra anche che Cruz vince se su di lui converge il favore dei quadri del GOP, che in parte coincide con il mondo che ha sponsorizzato quel Rubio che oggi non appoggia Cruz. Nello Utah, infatti, Cruz ha vinto molto ampiamente (Trump è arrivato terzo, cioè ultimo, anche dopo Kasich) avendo dalla propria parte l’appoggio esplicito di Romney, celebrità mormone in uno Stato di mormoni, ma pure più volte indicato come il possibile coniglio dal cilindro del GOP nel caso in cui Trump non ottenesse con le primarie il quorum necessario a essere nominato candidato presidenziale e tutto dovesse essere deciso dalla Convenzione nazionale del partito, in questo caso detta “contestata”, di luglio.
Morale, se tutto il GOP – Rubio compreso, un Kasich finalmente ritiratosi compreso – appoggiasse apertamente Cruz, e magari facesse palese campagna elettorale con lui, Cruz potrebbe ancora – la matematica è dalla sua – spuntarla. Trump continua infatti a vincere solo con una minoranza dei voti dell’elettorato attuale del GOP.
Ma questo non accadrà: Rubio non ha ancora appoggiato Cruz e non lo farà. Demoralizzato, sconfitto, non ha alcuna intenzione di legarsi a un candidato che comunque potrebbe lo stesso non farcela contro Trump, e che se pure ce la facesse, potrebbe poi alla fine soccombere malamente alla Clinton in novembre. Da una sconfitta alle primarie la prima volta che le corre il giovane Rubio (come diversi altri prima di lui) può ancora rifarsi, da un cumulo così grande di risultati negativi no.
Sul 22 marzo giorno delle certezze aleggia peraltro un’ombra. Alcuni grandi nomi del mondo conservatore cominciano apertamente a dire che se Trump dovesse ottenere la nomination del GOP vorrebbe allora dire che il partito sarebbe oramai perduto alla causa conservatrice e che dunque sarà necessario mettere in campo un “terzo partito” davvero conservatore e alternativo. Una nuova formazione certamente destinata alla sconfitta come tutti i “terzi partiti” della storia degli Stati Uniti, ma se non altro utile per dire al mondo che Trump con il conservatorismo non c’entra e a mettere in salvo, oggi fuori dal GOP, la purezza dell’opzione conservatrice. Il che – vista la storia recente del GOP, diventato un vero partito di Destra al termine di una lunga marcia – sarebbe assolutamente clamoroso e macchierebbe Trump di una colpa enorme. Quella di avere impedito al GOP d’iniziare la sua nuova storia di partito sul serio conservatore.
A proposito di un “terzo partito” conservatore circolano ora i nomi di Tom Coburn, ex senatore del GOP, malato, ma granitico conservatore doc, che potrebbe fare almeno da candidato di facciata, ma pure quello di Rick Perry, ex governatore del Texas, altro conservatore “reaganiano” doc. La mossa salverebbe l’onore e l’anima del conservatorismo, ma consegnerebbe il Paese alla devastazione della falsa Destra di Trump o della vera Sinistra della Clinton.
Marco Respinti
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