Il pensatore e statista angloirlandese Edmund Burke (1729-1797) è la figura centrale del conservatorismo dell’area culturale anglofona. Perché lui? Perché fu il primo, immediato critico della Rivoluzione di Francia intesa come evento separatore tra due civiltà radicalmente antagoniste: da un lato quella cristiana e della “grande tradizione” occidentale; dall’altro quella ideologica che nasce con l’illuminismo e con il giacobinismo.
Nello storico delle idee nordamericano Russell Kirk (1918-1994), l’influenza temperante della via media della grande tradizione classico-cristiana ‒ da Aristotele (384?-322 a.C.) al teologo anglicano “tomista” Richard Hooker (1554-1600), fino appunto a Burke ‒ è lo strumento in grado di smorzare ideologismi forti e deboli. Secondo un’ottica di sequela della “grande tradizione” intesa anche come “tradizione purificata”, Kirk conta insomma sul passato per costruire il futuro. La sua preoccupazione è, infatti, tutta protesa ‒ secondo un’espressione desunta dal poeta e critico anglicano americano-inglese T.S. Eliot (1888-1965) alla rising generation, alle generazioni di domani.
«Ideologia‒ scrive il filosofo della politica tedesco-americano Eric Voegelin (1901-1985) all’inizio del primo volume del suo monumentale Order and History, intitolato Israel and Revelation, pubblicato nel 1957 ‒ è l’esistenza in ribellione contro Dio e contro l’uomo. È la violazione del Primo e Decimo Comandamento, se vogliamo usare il linguaggio dell’ordine israelitico; è il nosos, la malattia dello spirito, se vogliamo usare il linguaggio di Eschilo e Platone. La filosofia è l’amore dell’essere attraverso l’amore dell’Essere divino come sorgente del suo ordine».
Per questa ragione Kirk ha sottolineato, per tutta la durata della sua intensa carriera di uomo di lettere, di pensatore, di storico e di critico sociale, nonché nelle migliaia di pagine che compongono i trenta libri da lui dati alle stampe in vita, che il conservatorismo non è affatto un’ideologia, bensì il contrario stesso dell’ideologia. Delle ideologie vecchie e nuove, si potrebbe dire; sia forti, sia deboli.
È sempre Voegelin, sempre in Israel and Revelation, ad affermare che «l’ordine della storia emerge dalla storia dell’ordine». La cifra del conservatorismo è tutta qui: nel reale esiste un ordine oggettivo precedente la volontà umana e impermeabile ai suoi capricci; un ordine che va venerato, preservato e tramandato perché è il riflesso di quell’ordine metafisico che dà dignità alla via umana terrena e speranza alle aspirazioni ultraterrene dell’uomo.
Il “canone” del conservatorismo articola la battaglia culturale e politica a difesa dell’ordine in una serie di princìpi irrinunciabili. L’esistenza di Dio come dato di senso comune, ben prima e oltre ogni dimostrazione razionale; la convinzione dell’intima unione, non della rigida identità, fra ordine morale interiore e ordine socio-politico; la rivendicazione del fondamento trascendente della socialità umana; la fede in una Provvidenza ordinatrice della storia, quest’ultima sede dello sviluppo e della maturazione dell’uomo attraverso il dipanarsi e il chiarirsi alla sua comprensione di un diritto naturale dato; la difesa della natura normativa e della sacralità della vita umane, altrettanto date, e la difesa dell’origine storica delle costituzioni politiche, affatto prodotte da esperimenti di ingegneria socio-politica; il rispetto “sacrale” del pluralismo sociale e della struttura gerarchica ‒ ossia ordinata, cioè dotata di un senso e di uno scopo, di un’origine e di una meta ‒ dei modelli di vita socio-politica a fronte dell’unica eguaglianza fra gli uomini che venga ammessa, ovvero quella morale di fratelli perché figli di un unico Padre; l’orrore nei confronti di tutto quanto sappia anche solo lontanamente di egualitarismo, di collettivismo, di coercizione, di dirigismo, di dispotismo, di utilitarismo, di positivismo e di radicalismo ideologico; la tutela e la garanzia, soprattutto, con argomenti di natura morale, dei princìpi di libertà ‒ libertà concrete, plurali ‒ e di proprietà privata; nonché la fiducia nei confronti della trasmissione delle consuetudini, degli usi, dei costumi e delle leggi positive (prescprition and precedent) quale forza positiva in grado di plasmare il vivere comunitario degli uomini.
È per certi versi straordinario che a ricordare queste verità siano da qualche decennio autori eminentemente d’Oltreoceano: tanto del subcontinente americano boreale, quanto di quello australe. La forza della loro testimonianza può davvero solo spingere a innamorarsi nuovamente di un patrimonio che noi europei dovremmo orgogliosamente rivendicare come nostro, sempre e comunque e in ogni luogo. È come se Cristoforo Colombo (1541-1506) avesse invertito la rotta per ricordare ai patri lidi le ragioni del suo viaggio a Occidente.
Marco Respinti
Pubblicato con il medesimo titolo sul sito
Comunità Ambrosiana di Alleanza Cattolica in Milano,
nella rubrica USA.. e non getta l’8-05-2014
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