Arrivi in ufficio, sistemi le tue quattro cose, ti siedi alla scrivania, accendi il pc con gesto ormai di rito, di colleghi a Internet e che vedi? Il motore di ricerca più famoso del mondo (quello diventato persino un neologismo, “to google”) che ammicca con un logo nuovo, a tema.
È Nelson Mandela (1918-2013), capelli bianchi, camicia a fiori tipica, volto incorniciato in una motivo a mandorla che pare un santino, cartiglio come in blasone nobiliare, fiori tutt’attorno come una madonna pellegrina. Se clicchi, la kermesse continua in uno scintillio di pannelli mobili da bigino dell’infotainment. Ti chiedi perché, prendi la scorciatoia che porta a Wikipedia e scopri che oggi è il compleanno del defunto presidente del Sudafrica, già canonizzato in International Nelson Mandela Day. Francamente ci era sfuggito, avevamo rimosso, sul calendario siamo usi segnarci date diverse.
Ben più attenti di noi, invece, sono stati il Comune di Milano e il suo sindaco rosso antico Giuliano Pisapia, che hanno benedetto cioè patrocinato l’encomio a Mandela realizzato nientemeno che da PaoPao, Nais, Orticanoodles e Ivan. Non sapete chi sono? Neanch’io, sopravviveremo. Un supplemento d’indagine svela che i quattro (rullo di tamburi) sono degli “street artist” (ciumbia!) e che hanno realizzato (altro rullo di tamburi) addirittura un murale (ciumbia! un’altra volta) per celebrare i 20 anni dalla “sconfitta dell’apartheid” (27 aprile 1994), verniciando il muro esterno della Fabbrica del Vapore, spazio-eventi ben noto a noi milanesi. L’opera sublime è stata inaugurata alla vigilia dell’International Nelson Mandela Day e noi siamo certi che il patrocinio dato dal Comune di Milano, congiuntamente al governo del Sudafrica e con il sostegno di Building Energy (non chiedetemi cosa sia), non sia costato nemmeno un nichelino ai contribuenti milanesi. Ne siamo certissimi: per questo una esplicita conferma in tal senso da parte di Palazzo Marino ci farebbe subito immenso piacere.
Perché il patrocinio di Pisapia a un monumento a Mandela è assolutamente fuori luogo anche gratis. Io infatti sono milanese, sono nato a Milano, amo Milano e stamani mi chiedo perché la mia Milano debba sputtanarsi in questo modo per un soggetto, Mandela, che è sputtanatissimo. Già l’abbiamo detto e lo abbiamo scritto che in carcere Mandela ci finì per terrorismo, legato a doppio filo com’era al Partito Comunista Sudafricano, un partito che l’uguaglianza la predicava a suon di dinamite. Lo abbiamo detto e lo abbiamo scritto che nessuno ce l’ha con “Madiba” perché era nero, ma perché era rosso, amico intimo del bianchissimo leader del suddetto PC sudafricano, Yossel Mashel “Joe” Slovo, con cui si faceva volentieri ritrarre sotto la falce & martello a pugno chiuso. Lo abbiamo detto e lo abbiamo scritto che, presidente dell’African National Congress, Mandela ne ha fondato il braccio armato e ha teorizzato per iscritto la lotta di classe armata. Qualcuno però ci ha detto che abbiamo esagerato, che dopo Mandela si è calmato, democratizzato. Balle. Si sfogli il volume Mandela, l’apartheid e il nuovo Sudafrica. Ombre e luci su una storia tutta da scrivere (D’Ettoris, Crotone 2014), scritto da Giuseppe Brienza, Roberto Cavallo e Omar Ebrahime nel, e prefato da Rino Cammilleri. Anzi, qualcuno nel regali una copia a Pisapia. Perché il Mandela-dopo è persino più agghiacciante del Mandela-prima.
Uscito di prigione nel 1990 dopo 26 anni e mezzo, insignito del Premio Nobel per la Pace nel 1993 ed eletto nel 1994 presidente del nuovo Sudafrica post-apartheid, Mandela ha cercato subito di rientrare nel “salotto buono” prendendo a tifare per Saddam Hussein e stringendo amicizia con Yasser Arafat, Fidel Castro, Muhammar Gheddafi e Robert Mugabe. Poi, da grande statista degno di un murale a Milano, nel 1996 ha varato la nuova Costituzione del Sudafrica: quella che estende come non mai l’aborto a richiesta, e che fa del Sudafrica il primo e sinora l’unico Paese ad avere legalizzato le “nozze” gay. Ma non è finita, fidatevi.
Mandela è stato il “re” del Paese in cui la peste dell’AIDS si è abbattuta come un flagello (il primo caso venne registrato nel 1982). Una peste che ha conosciuto un picco incredibile proprio durante la presidenza di Mandela, nel 1999. Perché? Perché la “nuova libertà” del Sudafrica ha trasformato il Paese in un postribolo on demand e le sue grandi città in un “paradiso dello stupro” dove per i neri violentare una vergine guarisce dal male. Fu allora che Mandela vestì i panni dello “sciamano” per bestemmiare l’Occidente, il suo diabolico capitalismo e la Cia, accusata di complottare con le case farmaceutiche la schiavizzazione dei poveri africani ai famosi e costosi antiretrovirali. Risultato, l’Aids ha continuato a falcidiare, anzi è aumentato; nel 2005 Mandela padre ci ha rimesso pure un figlio, il suo secondogenito, Makgatho Lewanika, stroncato 54 anni.
Ne ha bisogno Milano di un tipo così?
Marco Respinti
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