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Nei giorni scorsi, il lettore Massimo Campostrini ha indirizzato una lettera intelligente al direttore de La nuova Bussola Quotidiana per sottrarre la terra sotto ai piedi a quei fautori della logica eugenetica che si trincerano dietro la “scienza” dell’evoluzionismo darwiniano, usando il darwinismo contro il darwinismo. Campostrini ha ragione a dire, sul filo del paradosso, che se per il darwinismo le specie migliori e gli elementi migliori di ciascuna specie sono quelli che hanno maggiore successo riproduttivo (motivo per cui sono migliori e progrediscono a discapito dei peggiori), essi si produrranno da soli nella selezione migliorativa senza bisogno di alcun intervento esterno, il quale, anzi, adultererebbe indebitamente tale meccanismo naturale favorendo le specie e gl’individui che, se non godono di miglior successo riproduttivo, significa che non sono affatto i migliori. L’eugenetica, insomma, intesa come aiuto artificiale alla natura nell’opera di selezione, per via sessuale, delle specie migliori e degl’individui migliori di ciascuna specie sarebbe cioè il contrario del sostanziale laissez-faire in cui si risolverebbe il darwinismo. Vero. Purtroppo però non è andata così.
Apparentemente il naturalista inglese Charles Darwin (1809-1882) non scrisse di eugenetica. Non esisteva nemmeno il termine, inventato, un anno dopo la morte di Darwin, dall’esploratore e antropologo pure inglese Sir Francis Galton (1822-1911). Il termine Galton lo inventò, a coronamento di più di un ventennio di riflessioni e di “studi”, traendo un neologismo da due termini greci, eu, “buono” e genos, “stirpe”, a p. 24 d’Inquiries into Human Faculty and Its Development, uscito a Londra nel 1883 per i tipi di Macmillan. Qui immediatamente egli precisa – alla nota 1 contenuta nelle pp. 24-25 – che l’eugenetica è «[…] la scienza del miglioramento della stirpe», un concetto «[…] egualmente applicabile agli uomini, ai bruti [cioè agli animali] e alle piante», scienza che «[…] non è per nulla confinata a questioni d’incroci accorti, ma che, specialmente nel caso dell’uomo, tiene conto di tutte le influenze che tendono, per quanto remotamente, a dare alle razze o ai ceppi sanguigni più adatti una possibilità migliore di prevalere rapidamente sui meno adatti di quanto essi avrebbero altrimenti avuto». Spiega poi Galton che “eugenetica” è parola felice per la concisione con cui veicola alla perfezione il concetto, battendo in breccia il desueto “viricultura”. Ecco, questo “culturismo” è quello che oggi chiamiamo tranquillamente – si fa per dire – ingegneria genetica, sposa incestuosa di sula sorella, l’eutanasia.
Galton era il cugino di secondo grado di Darwin, e questo di per sé sarebbe il meno (i figli non sono responsabili delle colpe dei padri, figuriamoci i biscugini). Il punto è però che fu un darwinista entusiasta. La pubblicazione, nel 1859, di L’origine delle specie di Darwin gli cambiò la vita. Lo colpirono specialmente la pagine su incroci e selezione. Darwin parlava per lo più di bestiame, ma in fin dei conti, soprattutto per la cultura materialista dell’epoca, l’uomo non è forse soltanto un altro animale? Del resto Galton condurrà anche “ricerche” statistiche sul potere della preghiera – i cui risultati affidò al saggio Statistical Inquiries into the Efficacy of Prayer pubblicato nel fascicolo del 1° agosto 1872 di The Fortnightly Review – per concludere che le preghiere non hanno alcun effetto sulla longevità di coloro per le quali sono offerte. Convinto che le qualità migliori fossero ereditabili da un individuo all’altro – concezione esposta in Hereditary Genius del 1869 (Macmillan), strampalata ma dal futuro assicurato -, Galton cominciò a teorizzare l’applicazione degl’incroci selettivi d’allevamento all’essere umano; in breve, l’uomo venne concepito come l’ennesimo prodotto della zootecnia. Chi doveva incaricarsi di allevarne la stirpe migliore, favorendo la trasmissione delle sue grandi qualità e scartando le altre? Lo Stato. A partire dagli anni 1920, gli hanno dato retta in molti: alcuni degli Stati Uniti d’America, il Canada, il Brasile, il Giappone, la Francia, la Germania, la Gran Bretagna – con l’appoggio di parte del clero anglicano -, il Belgio e la Svezia con un fiorire di leggi per il “miglioramento della razza” e la sterilizzazione obbligatoria degli “indegni” in un crescendo culminato nel regime nazionalsocialista di Adolf Hitler (1889-1945).
Colpa di Galton, certo, ma Galton non avrebbe potuto nulla senza il principio primo del darwinismo: le specie viventi migliorerebbero progressivamente modificandosi fino a dare vita a specie nuove mediante quella che, dopo Darwin, si sarebbe chiamata genetica, così che la vita attuale sarebbe sempre il distillato più avanzato di tutta la vita che ci ha preceduto nel tempo finalmente epurata da scarti, vicoli ciechi e false partenze, e costantemente pronta a nuove trasformazioni migliorative, cioè a declassare domani la vita migliore di oggi a ennesimo rifiuto obsoleto di ieri.
Fu questo che affascinò Galton nel mezzo di quella temperie culturale in cui l’illuminismo si trasformava in positivismo e dove nel nuovo concetto di “gaia scienza” confluì tutto quanto portava acqua al mulino dell’uomo-Prometeo: dalla nuova teologia di Friedrich Schleiermacher (1768-1834) alla “critica biblica” di Ernest Renan (1823-1892), dallo Zaratustra di Friedrich Nietzsche (1844-1900) all’Inno a Satana di Giosue Carducci (1835-1907), dai sogni sinarchici di Joseph Alexandre Saint–Yves marchese d’Alveydre (1842-1909) da cui nacque l’idea di tecnocrazia al “materialismo spiritista”, il tutto con un crescente chiodo fisso. L’uomo, finalmente scopertosi dio a se stesso, doveva pur essere un superuomo, immune da ogni pecca, scevro da tacche, resistente, esente e libero, in una parola vaccinato contro ogni degenerazione. Non fu così soltanto per Nietzsche e per la sorella pre-nazista di Nietzsche, ma per l’Occidente intero. L’idea darwiniana del progressismo medicina che cura la vita senza bisogno di Dio grazie al moto perpetuo di un meccanismo che esiste inesorabilmente da sempre e che funzionerà inflessibilmente per sempre ne è stato l’ermeneutica somma. Bisognerebbe datare il “temerario mondo nuovo” di Aldous Huxley (1894-1963) dall’anno di pubblicazione de L’origine delle specie di Darwin.
Ora, Darwin non dedica un rigo all’eugenetica non solo perché non ne aveva a disposizione il termine, ma perché non ne aveva affatto bisogno. La logica con cui spiega lo sviluppo di una vita nata per caso dalla materia inanimata è intrisa di sostanza eugenetica: la “stirpe buona” è il prodotto di una natura sostituitasi a Dio. Galton ha avuto il merito di essere stato il primo ad averlo compreso alla perfezione. Solo che sia Darwin sia Galton avevano fatto i conti senza l’oste, che se per loro Dio non esiste più (o è ininfluente) possiamo senza problemi chiamare anche solo natura.
L’ipotesi del progresso migliorativo darwiniano è infatti totalmente indimostrata e infondata. Anzi, sono più i fatti che la confutano di quelli che la sosterrebbero. Basti solo pensare che le modificazioni genetiche sono solo patologiche; che nessuno ha mai documentato la nascita di una specie nuova per mutazione genetica da una precedente; che tutti gli esempi forniti dai darwinisti di “mutazione genetica” e di “speciazione” sono in realtà lo sviluppo attuale di potenzialità già insite negli esseri viventi (le varianti melaniche delle falene, per esempio, o il polimorfismo del proteo); e che lo stesso Darwin dovette arrendersi davanti a quelle forme di vita “inspiegabili” (ma solo per il darwinismo) che chiamò «fossili viventi», ovvero animali e piante che, stando a L’origine delle specie, avrebbero dovuto estinguersi “milioni” di anni fa poiché “arretrate” per cedere il passo a forme più “evolute”, ma che, non avendo invece letto L’origine delle specie, continuano indisturbatamente a esistere, e anzi sono oggi note in numero assolutamente enorme, molto più grande che al tempo di Darwin.
Essendo non solo indimostrata e infondata, ma anzitutto e soprattutto falsa, questa meccanica però semplicemente non funziona. Come farebbe, infatti, ciò che ieri si è solamente creduto essere il meglio dell’oggi, ma che tale non era, produrre il meglio di domani per modificazioni che sono attestate solo in senso degenerativo? Non funzionando, della due l’una: o l’ipotesi va gettata oppure occorre forzarla. È qui che Galton ha evitato al cugino Darwin il disastro, scegliendo la seconda opzione.
Il “galtonismo” (come è stato a volte chiamato il pensiero eugenetico) non è insomma il tradimento del darwinismo: è la sua sola possibilità di salvezza. Peggio ancora: è un fossile vivente. Secondo il progressismo imperante avrebbe dovuto estinguersi nel maggio 1945 assieme al nazismo, ma non lo ha fatto perché è una delle anime nere del progressismo stesso. Galton gli ha semplicemente dato un nome, ma esiste da tempo, almeno da quando c’è il peccato dell’uomo, ed è “scienza” da che lo Stato ha avuto i mezzo per farsi totalitario: si è manifestato in Francia con l’Illuminismo e la Rivoluzione che inventò il razzismo, volle rifare gli ebrei e sterminò i cattolici “sbagliati” dell’Ovest; si è palesato in Unione Sovietica quando Stalin perseguitò gli ebrei (come hanno illustrato almeno il giornalista statunitense Louis Rapoport, lo storico tedesco Arno Lustiger [1924-2012] e il giornalista russo Arkady Vaksberg [1927-2011]); ovviamente è stato l’asse portante dal nazismo, ma quello lo sappiamo bene perché i progressisti solo di quello ci parlano; ed è alacremente al lavoro oggi nell’aborto (la terza sorella incestuosa), nell’eutanasia, negli ospedali-prigione in cui sono stati uccisi Terry Schiavo (1963-2005), Eluana Englaro (1970-2009), Charlie Gard (2016-2017) e Alfie Evans (2016-2018).
L’uomo dio a se stesso decide che l’«interesse migliore» per chi è ammalato e bisognoso di cure è quello di scomparire senza lasciare né traccia né eredi. Vaneggiamenti invasati? No, parole del consigliere del principe, dove il principe è il premier gauchiste francese Emmanuel Macron e il consigliere è l’economista e banchiere pure francese Jacques Attali: «L’eutanasia sarà uno degli strumenti essenziali delle nostre società future […]. Per cominciare, in una logica socialista, il problema si pone così: la logica socialista è la libertà e la libertà fondamentale è il suicidio; di conseguenza, il diritto al suicidio diretto o indiretto è dunque un valore assoluto in questo tipo di società. In una società capitalista, verranno inventate e saranno di uso comune macchine per uccidere, strumenti che permetteranno di eliminare la vita quando sarà troppo insopportabile o economicamente troppo costosa. Ritengo quindi che l’eutanasia, sia essa un valore di libertà o una merce, sarà una delle regole della società futura» (citazione tratta da La médecine en accusation, intervista ad Attali nel volume L’avenir de la vie curato dal giornalista Michel Salomon edito da Seghers a Parigi nel 1981 con prefazione del filosofo Edgar Morin, alle pp. 274-275).
Qualcuno, scrivendo sul sito della Fondazione Luigi Einaudi, ci crede al punto di chiamare «[…] sciacalli ideologici» coloro che hanno cercato di strappare Alfie al boia, argomentando così: «Alfie non era più e forse non era mai stato un bambino, nell’accezione della completezza umana, forse non era solo in stato vegetativo, in quanto ciucciava e muoveva le braccine. Lascio a laicisti, eticisti, scientisti e religiosi vari marcare il confine terminologico, ma su un fatto erano tutti quanti d’accordo: il bimbo era condannato. Il problema si spostava dunque sul “come” arrivare al termine». È il “caro”, vecchio galtonismo, illustrato a puntino da Richard Weikart – professore di Storia alla California State University Stanislaus di Turlock – in From Darwin to Hitler: Evolutionary Ethics, Eugenics, and Racism in Germany, pubblicato da Palgrave Macmillan (lo stesso editore di Galton) a Londra nel 2004 e contro cui si sono scatenate le polemiche. Ma guarda un po’.
Marco Respinti
Google stila liste di proscrizione contro i propri impiegati. È facile: basta che siano bianchi, maschi, eterosessuali e conservatori. Lo denunciano James Damore e Dabin Gudeman, dipendenti del colosso del web che ha sede a Mountain View, in California, con una class action promossa l’8 gennaio davanti alla Corte superiore della contea californiana di Santa Clara dallo studio Dhillon Law Group di San Francisco di cui è titolare l’avvocato Harmeet Kaur Dhillon, già vicepresidente del Partito Repubblicano della California. Rischio di sciovinismo stile “white supremacy”? Impossibile. L’avvocato Dhillon è infatti una donna, è di religione sikh e ogni tanto si copre pure il capo con una pashmina, visto che è nata 50 anni fa a Chandigarth, nel Punjab indiano. Il 19 luglio 2016, secondo giorno della Convenzione nazionale Repubblicana che due giorni dopo incoronò Donald J. Trump candidato presidenziale, salmodiò una preghiera sikh in lingua punjabi con il capo coperto come di rito.
Ebbene, per denunciare gli abusi di Google la Dhillon ha presentato al tribunale californiano un documento di 161 pagine che illustra in modo circostanziato l’ostilità aperta contro tutti quei dipendenti che non si prostrano al diktat egualitarista con cui l’azienda discrimina per mero intento ideologico i maschi bianchi nelle assunzioni, negli spostamenti e nelle promozioni.
La storia ha girovagato tutta la settimana scorsa sul web. Un breve articolo di Mattia Ferraresi su Il Foglio ne ha informato anche i lettori italiani. Quello che però quell’articoletto non dice è che a monte c’è dell’altro, pure a suo tempo emerso anche in italiano.
Vi è cioè la memoria “anti-aziendale” di 10 pagine che Damore, ingegnere informatico, ha scritto in luglio con il titolo Googles Ideological Echo Chamber, facendola circolare tra i suoi ex colleghi. In essa Damore denuncia le suddette pratiche insopportabili da parte di Google, ma pure si lascia andare a giudizi sessistici decisamente antipatici (se non pure altro) che, ispirati tra l’altro a un evoluzionismo trito, ritrito e scaduto, sostengono l’esistenza di una differenza biologica tra uomini e donne che renderebbe le seconde meno adatte dei primi a ruoli di responsabilità nell’industria hi-tech. Sul “caso” esiste persino una voce Wikipedia in inglese che differisce un po’ da quella in italiano.
A causa di quelle 10 pagine, in agosto Damore ha perso il posto in Google.
Convivono dunque due fatti. La prima è la discriminazione intollerabile perpetrata da Google contro chi obbietta al suo egualitarismo falso e stucchevole; la seconda è il giro mentale altrettanto intollerabile, falso e stucchevole che emerge dalla memoria di Damore. A quest’ultima mostra del resto forte simpateticità – tra altri – un personaggio famoso e famigerato come Peter Singer, il “profeta” della “liberazione animale” che, in un articolo dal costrutto piuttosto arzigogolato, dice a nuora che la propria difesa di Damore sarebbe solo un omaggio alla libertà di espressione qualsiasi cosa si pensi di ciò che l’ex dipendente di Google ha detto per fare in realtà intendere a suocera che, per gran parte del testo, egli altro non fa che ripetere per filo e per segno proprio il pensiero antipatico di Damore.
Ora, “il caso Damore” sarebbe solo un fatto marginale e meramente americano se non mettesse il dito dentro quella piaga sanguinante che potremmo chiamare la notte in cui tutte le vacche sono nere. Ovvero, se non si distingue accuratamente la discriminazione anticonservatrice promossa da Google dal “pensiero antipatico” dei tanti Damore in circolazione, si commette un errore madornale che fa esattamente il gioco dei liberal. Si confonde, cioè, il pensiero conservatore, che doverosamente contrasta il pensiero liberal, con i cortocircuiti sessisti e razzisti. È ciò in cui la dirigenza liberal di Google, che ha annunciato controquerele, probabilmente spera. Tocca dunque all’avvocato Dhillon agire oculatamente con il microtomo, evitando di cascare in una trappola mortale.
Marco Respinti
Si parla sempre più spesso di “popoli originari”. È un neologismo che traduce letteralmente l’espressione “aborigeni” (dal latino ab origine). Molto probabilmente perché, vista la tracotante ignoranza del tempo in cui viviamo, qualcuno avrà pensato che “aborigeno”, scambiandolo per un sinonimo di “selvaggio” o equipollenti, sia un termine offensivo. Chi se la sente insomma di reggere lo sguardo del prossimo trinariciuto dicendo candidamente al bar che, che so, Nelson Mandela è un aborigeno sudafricano?
Ora, “originari”, “aborigeni” o “nativi” sono tutte espressioni che veicolano la medesima idea: che certi popoli siano gli abitatori primigeni di una certa terra, di cui sono dunque i possessori legittimi e titolati, talora persino culturalmente tutt’uno con essa. Però è falso.
Quali sono, infatti, i popoli “originari” di un determinato territorio? Scegliamo a caso. Si parla in lungo e in largo dei “nativi” americani per intendere quelli che Cristoforo Colombo (1451-1506) battezzò “indiani” pensando di essere arrivato in Oriente, che la finezza linguistica ha poi ribattezzato “amerindi” e che non sempre con garbo vengono indicati anche come “pellerossa”. Non sono nativi americani per nulla. Sono i discendenti delle popolazioni altaiche dell’Asia (con cui hanno infatti ancora in comune dei tratti somatici) che attraversarono il “ponte” (in realtà largo anche fino a 1600 chilometri) di terra e ghiaccio (in realtà una sorta di enorme acquitrino) della Beringia, il quale nel Pleistocene congiungeva la punta estrema della Siberia con l’Alaska attuale e che oggi è sommerso dal braccio di mare noto come Stretto di Bering. Una volta attraversato l’istmo, dilagarono in tutto il continente americano prendendone possesso. Si dirà che allora l’America era deserta e che quindi gli “indiani” non hanno sottratto niente a nessuno, ma lo stesso vale in decine di altri casi moderni in cui i nuovi arrivati, per esempio gli europei, sono giunti in territori tecnicamente non privi di presenza umana, ma di fatto vuoti. Quando, nella primavera del 1541, il conquistador spagnolo Francisco Vázquez de Coronado (1510 ca.-1554) si spinse con i propri uomini attraverso quelli che oggi sono New Mexico, Texas, Oklahoma e Kansas marciò per 37 giorni, forse male indirizzato (apposta?) da un “indiano”, senza incontrare anima via e poi tornò indietro. E oggi basta un aereo coast-to-coast per rendersi conto che quelli appunto rinominati “fly-over states” sono davvero spopolati…
Gli indios Mapuche nel Cile centromeridionale, che loro o chi per loro bruciano chiese e scuole per rivendicare dallo Stato cileno il possesso di una terra con cui s’identificano (il loro nome, in lingua Mapudungun, significa appunto “gente della terra”), sono lì da circa 500-600 anni prima di Cristo. Prima però c’erano i Tehuelche.
Una fetta enorme di mondo, dal Maghreb all’Indonesia, è ancora oggi più o meno arabizzata come esito della colossale conquista islamica. E gli Ebrei della Bibbia arrivano nella Terra Promessa guidata da Mosè e poi da Giosuè, ma non ci sono nati.

L’arrivo “dal cielo” dei Túatha Dé Danann in una illustrazione di Jim Fitzpatrick, “The Book of Conquests” (E.P. Dutton, New York 1978)
La storia d’Europa è una continua migrazione. Il regno dei nordici Vandali fu in Nordafrica e i biondi Visigoti soppiantarono Iberi, Celti e Baschi della Penisola iberica. I magiari dell’Ungheria vengono dalle steppe dell’Asia centrale. Le isole britanniche erano abitate da popolazioni celtiche che furono invase, nel secolo V, da Angli, Sassoni, Iuti e Frisoni continentali, poi invasi pure loro, nel secolo XI, dai Normanni, stanziatisi circa un secolo prima nel nord della Francia dalla Scandinavia. Roma ha romanizzato quasi tutto il mondo allora conosciuto. E il folclore nazionale dell’Irlanda, così fieramente opposta all’anglicizzazione, tramanda che i popoli gaelici giunsero nell’Isola Verde da invasori, spodestando i mitici Túatha Dé Danann, che avevano spodestato i mitici Fir Bolg, una popolazione scura, che avevano spodestato i mitici Fomoriani. Il Lebor Gabála Érenn, che significa “Libro delle invasioni dell’Irlanda”, del secolo XII, riporta tutto. Dèi sorpassati, etnie mitologiche, popoli storici chi lo sa, ma qualcosa tutto questo vorrà pur dire. Come che sia, i celti lì non sono autoctoni (i Pitti di Scozia sono forse il resto di chi c’era prima). E la Lombardia si chiama ancora oggi così per via dei Longobardi nordici della Scandinavia meridionale.
Si potrebbe continuare pressoché all’infinito. Nessun popolo è davvero “originario”. Per la Bibbia e per la dottrina cattolica, gli unici aborigeni sono Adamo ed Eva, i santi progenitori del genere umano “colonizzatore” e “invasore” che nacquero nell’Eden, forse ubicabile, stando alla Genesi, nella Mesopotamia meridionale. Per la scienza, l’uomo attuale deriva da quella che i ricercatori hanno soprannominato “Eva mitocondriale” (di tutte le formule possibili hanno scelto quella biblica, notevole). Saremmo cioè tutti il frutto di una discendenza femminile, posta a circa 200mila anni fa, più o meno in Africa. Lo dice la comparazione del DNA contenuto nei mitocondri (mtDNA), gli organelli che sono presenti in tutte le cellule di tutti gli esseri appartenenti ai cinque regni della vita: animali, piante, funghi, protisti (misteri della sublimità biologica che non sono né animali, né piante, né funghi) e cromisti (altri microrganismi unicellulari o pluricellulari a se stanti). Solo il DNA mitocondriale si trasferisce infatti dalla madre alla prole e così si è potuto localizzare l’antenato comune. Umano, non scimmia. Con l’mtDNA anche l’evoluzionismo si dice pago, benché di evoluzionistico l’“Eva mitocondriale” non abbia alcunché. Una intera branca della scienza, la genetica delle popolazioni, studia le conseguenze di questa meraviglia.
Insomma, dire “popoli originari” ha lo stesso senso che dire “razza pura”. Cioè nessuno: esiste infatti una sola “razza” umana ed è quindi ovvio che sia “pura”. Guadandone l’antroposfera, la Terra più che un globo è dunque una cipolla: fatta a strati. Spesso dolorosi, perché Adamo ed Eva un’altra cosa sul serio originale ce l’hanno trasmessa, il peccato, ma non sempre e solo così. L’uomo è poi capace di chiamare patria qualsiasi luogo, e a buon diritto se non travalica la giustizia. Che però non è una questione micragnosa di chi è arrivato falsamente primo giusto in tempo per buttare dalla torre tutti gli altri. A meno di non volerci costruire sopra una ideologia che usa lo specchietto per le allodole dell’“indigenismo” per cercare di aggiornare la sdrucita lotta di classe.
Marco Respinti
Versione originale dell’articolo pubblicato con il medesimo titolo
in La nuova Bussola Quotidiana, Monza 21-01-2017
La «razza bianca» da difendere di cui ha parlato Attilio Fontana, candidato presidente della Regione Lombardia per il Centrodestra, in una intervista a Radio Padania il 14 gennaio, è un imbecillità assoluta esattamente come un’imbecillità assoluta è la «nostra razza» (italiana) da sostenere di cui ha parlato in luglio Patrizia Prestipino, membro della direzione nazionale del Partito Democratico, responsabile del dipartimento del PD per la difesa degli animali, ex assessore regionale e insegnante di Lettere nei licei, in una intervista a Radio Cusano Campus. Diverso è solo il putiferio scatenato da queste due identiche imbecillità: totale nel caso di Fontana, perché è di Centrodestra, praticamente nullo nel caso della Prestipino, perché è di Centrosinistra.
La questione delle “razze umane” è un’imbecillità perché le “razze umane” non esistono. La biologia mostra e dimostra che ogni essere umano, di qualunque colore abbia la pelle, appartiene all’Homo sapiens sapiens, il nome con cui i biologi classificano ufficialmente l’uomo attuale. Che pure è biologicamente identico all’uomo arcaico, quello chiamato “semplicemente” Homo sapiens. L’unico modo per sostenere il contrario è postulare che, oltre alla specie sapiens, il genere Homo abbia conosciuto altre specie biologicamente diverse e quindi progenitrici di “razze” diverse. Ma è un problema che va posto direttamente agli evoluzionisti, non certo per esempio al cattolicesimo, da sempre granitico nell’affermare l’unicità del genere umano. Del resto gli evoluzionisti, assai prodighi di nomenclature tassonomiche nuove ogni qualvolta s’imbattono in un reperto fossile umano “sconosciuto”, da un po’ di tempo sono alle prese con un ridimensionamento realistico della selva di “specie” di cui lussureggiano i loro indimostrati alberi genealogici dell’umanità, riconoscendo che spesso si tratta solo di varietà locali o diacroniche dello stesso, unico Homo.
Le differenze tra le varietà locali dell’unico essere umano che constatiamo a occhio nudo (il colore della pelle, il taglio degli occhi, e così via) sono il modo con cui la biologia umana risponde a certe sollecitazioni, fra cui, sì, anche quelle ambientali (la pelle scura per proteggersi dal Sole alle latitudini dove i suoi raggi sarebbero altrimenti micidiali, gli occhi “a mandorla” per sopperire al riverbero abbacinante della luce sui ghiacci, e così via). Il che è però completamente diverso dal dire, come invece dice l’evoluzionismo, che le pressioni ambientali determinino i mutamenti genetici che genererebbero le specie nuove. Le differenze biologiche tra le varietà si spiegano infatti ancora con il buon vecchio Aristotele: la biologia umana ha in sé potenzialità che attualizza quando deve rispondere a un bisogno. Le diversità nel colore della pelle umana dipendono dalle concentrazioni della stessa melanina che tutti hanno, non certo da una diversa genetica. Ma se quelle potenzialità non sono già insiste nella biologia umana, nessun bisogno le produrrà dal nulla. Per quanto gli possano essere utili, insomma, le ali all’uomo non spunteranno mai perché la sua biologia non le possiede nemmeno in potenza. La biologia corrobora, dunque, il cattolicesimo sull’unicità del genere umano, mentre è il giro mentale evoluzionista che apre pericolosamente alla fantascientifica ipotesi che, durante la lunga marcia da scimmia a uomo, possano essere esistiti ceppi umani diversi da cui è semplice poi inferire la bugia delle “razze umane” con tutto il suo corollario di orrori. Basti solo pensare al povero pigmeo congolese Ota Benga (1883 ca.-1916), che, considerato l’anello di congiunzione tra uomo e scimmia dall’evoluzionismo dominante, fu rinchiuso in un zoo finché non si suicidò.
Affinché non sia cioè peloso l’odierno stracciarsi le vesti per le parole di Fontana, occorrerebbe primo che ci si stracciasse le vesti pure per le identiche parole della Prestipino, secondo che s’intentasse un processo culturale serio all’evoluzionismo e terzo che si denunciasse apertamente la matrice ideologica dell’idea balorda delle “razze umane” divise tra superiori e inferiori, aulenti e puzzone.
Il termine “razza” è stato infatti usato solo in zootecnia fino a che non lo ha applicato all’uomo, forse per primo, uno dei padri più stimati del pensiero progressista moderno: François-Marie Arouet (1694-1778), meglio noto come Voltaire. Lo fece nell’Essai sur les moeurs et l’esprit des nations et sur les principaux faits de l’histoire, depuis Charlemagne jusqu’à Louis XIII, del 1756, e da lì l’Illuminismo è stato un fiume in piena. Il tedesco Johann Heinrich Samuel Formey (1711-1797), un sacerdote completamente votato al nuovo verbo rivoluzionario, chiamò «termini estremi della razza dell’uomo» quei lapponi che Jean-Baptiste-Claude Delisle de Sales (1741-1816) definì «aborti della razza umana». Quanto agli ottentotti, per Delisle de Sales «si tratta di uomini imperfetti», per il padre gesuita Guillaume-Thomas François Raynal (1713-1796), un altro apostata, «hanno qualcosa della sporcizia e della stupidità degli animali che rigovernano» e per Georges-Louis Leclerc conte di Buffon (1707-1788), uno dei primi evoluzionisti, sono un «popolo spregevole». Ecco ancora Voltaire: «Il brasiliano è un animale che non ha ancora raggiunto la maturazione della propria specie». Il tocco da maestro spetta all’ennesimo prete indegno stavolta pure spretato, padre del pensiero cattolico-democratico, Baptiste-Henri Grégoire (1750-1831), che non seppe fare di meglio che redigere un Essai sur la régénération physique, morale et politique des Juifs, vantata come «ouvrage couronné par la Société royale des Sciences et des Arts de Metz, le 23 Août 1788» di cui era membro. Contiene l’idea che gli ebrei, sbagliati, vadano rettificati. Sarà un caso che il primo genocidio della storia, quello giacobino contro i cattolici della Vandea fra 1793 e 1794, fu perpetrato al grido di «razza ribelle» (Bertrand Barère de Vieuzac, 1755-1834), «razza esecrabile» (tale A. Minier sul Journal de Paris il 31 dicembre 1793), «razza abominevole» (Marie Pierre Adrien Francastel, 1761-1831), «razza […] [che] dev’essere annientata» (Jacques Garnier detto Garnier de Saintes, 1755-1818?) e «animali con la faccia da uomini» (Camille Desmoulins, 1760-1794)?
Solo quando l’antirazzismo sacrosanto saprà riconoscere la matrice culturale del pensiero imbecille che ci assedia, sarà vera indignazione.
Marco Respinti
Versione originale dell’articolo pubblicato con il titolo
La razza non esiste, ricordatelo anche al Pd
in La nuova Bussola Quotidiana, Monza 19-01-2017
Due ricercatori del Weizmann Institute of Science di Rehovot, in Israele, Shmuel Pietrokovski e Moran Gershoni, hanno reso pubblici i risultati di un importante studio genetico nato come indagine sulle cause della sterilità umana. Ne emerge che ben 6500 geni si attivano in modo diverso nei maschi e nelle femmine, anche in reazione ai farmaci, poiché, a seconda che appunto appartengano a un maschio o a una femmina, quei geni sintetizzano diversamente le proteine. Per la scienza si tratta di un’acquisizione tanto sorprendente quanto importante.
Ovvio, infatti, che il dimorfismo sessuale tra maschio e femmina umani, o certe caratteristiche tipiche dell’uno e dell’altra, siano dovute a un modo diverso di esprimersi di geni uguali, ma i risultati ottenuti dalla ricerca del Weizmann Institute si spingono più in là. Si parla infatti di differenze importanti, talora decisive, nel determinare il modo di essere fisico, e appunto persino l’insorgere di talune patologie con la conseguente responsività relativa ai farmaci atti a curarle, del maschio e della femmina, identici nel loro essere umani diversi l’uno dall’altra.
Tracciando dunque una mappa dettagliata di questi geni i due ricercatori israeliani hanno dovuto arrendersi ad alcune evidenze che non obbediscono affatto a certe presunzioni correnti. Per esempio quelle legate all’ipotesi evoluzionista, oggi data per scontata ma che evidentemente – così si è scoperto al Weizmann Institute – così scontata non è. Constata infatti Gershoni che «più un gene è specifico a un sesso e meno su quel gene è visibile la selezione». Tradotto, significa che l’azione della selezione naturale debitamente “spiegata” negli schemi intellettuali evoluzionistici come motore della speciazione per mutazione genetica non viene invece riscontrata dall’osservazione scientifica degli esseri viventi.
Di più: più si ha a che fare con individui concreti, tanto unici quanto irripetibili proprio nella loro individualità (ben denotata, per esempio, dalla sessualità: un maschio è sempre un maschio, e non è interscambiabile ad libitum con una femmina, e viceversa, con buona pace dell’ideologia di gender), più l’effetto della selezione naturale come motore di speciazione per mutazione genetica non è attestato.
Un interessante servizio su questa scoperta trasmesso lunedì 8 maggio da TGR Leonardo evidenzia bene l’impasse. La diversa reattività mostrata dai geni a seconda del sesso, dice la giornalista Cinzia di Cianni, «[…] dimostra che le differenze tra i sessi vanno ben oltre quelle più appariscenti, fino a delineare una storia evolutiva interconnessa ma distinta». Due punti: primo, le differenze tra maschio e femmina sono intrinseche alla loro natura specifica di maschio e di femmina, tanto che persino la loro natura biologica ugualmente umana è (parzialmente) diversa a seconda del sesso.
Secondo, l’“evoluzione” dell’essere umano è un enigma enorme, tanto che bisogna postularne non una bensì due, una per i maschi e l’altra per le femmine, evoluzioni in qualche modo “parallele” eppure distinte. Conclusione: l’evoluzione è un’astrazione cui la realtà si ribella e che va dunque continuamente rimodulata, ma ogni rimodulazione equivale a una smentita. Tant’è che alla fine è costretta ad affermarlo la giornalista stessa, la quale, sintetizzando la ricerca del Weizmann Institute, dice: «Dal punto di vista evolutivo, la cosa non ha senso. Ogni mutazione che provoca la riduzione della prole minacciando la sopravvivenza della specie dovrebbe essere eliminata dalla selezione naturale, ma lo studio mostra invece che più grandi sono le differenze di espressione di un gene tra uomini e donne, minore è la selezione sul quel gene, e questo vale soprattutto per gli uomini. Ecco perché, ad esempio, le mutazioni che ostacolano la formazione dello sperma» – la ricerca è stata avviata appunto per indagare le cause della sterilità umana – «non scompaiono come ci si aspetterebbe».
Insomma, il postulato secondo cui l’evoluzione avanzerebbe per effetto di una selezione naturale che a livello genetico premierebbe le caratteristiche più adatte alla sopravvivenza costringendo quelle meno adatte all’estinzione si comporta invece in modo contrario. Colpo al cuore del dogma evoluzionista centrale. In natura l’evoluzione non si comporta affatto come sta scritto nei libri degli evoluzionisti. Lo afferma la scienza “evoluzionista”. Dal punto di vista evolutivo, la cosa non ha senso: lo afferma la RAI.
Marco Respinti
Un’équipe di cinque specialisti, quatto cinesi e uno inglese, ha compiuto una scoperta clamorosa. Nelle rocce sedimentarie della provincia di Shaanxi, nella Cina centrale, hanno rivenuto una quarantina di fossili di un esserino di un millimetro la cui forma a sacchetto e la spropositata bocca “coronata” funzionante anche da ano gli ha guadagnato il nome scientifico Saccorhytus coronarius. Visse circa 540 milioni di anni fa, al tempo dell’“esplosione” della vita nel periodo Cambriano e appartiene al superphylum dei Deuterostomia, una delle categorie biologiche fondamentali con cui viene descritto il regno animale.
Il rapporto scientifico del ritrovamento è stato sottoposto al periodico specializzato Nature a metà di agosto, ha superato la peer review in dicembre e il 30 gennaio è stato pubblicato, rimbalzando immediatamente sulla stampa. Come mai? Perché la scoperta è sensazionale: dai Deuterostomia si sono infatti sviluppati, dicono gli studiosi, tutti i vertebrati; tra i vertebrati c’è anche l’uomo; essendo il Saccorhytus cinese il più antico di tutti, è quindi partendo da questo microrganismo senz’ano che si è giunti a san Tomaso d’Aquino, Albert Einstein e Belén Rodriguez. In esso si è infatti «identificato il più antico progenitore dell’uomo», come ha lanciato l’agenzia ANSA e come ugualmente hanno sparato la Reuters, The Guardian, The New Scientist, Wired, la Repubblica, Forbes, TGR Leonardo, il Post, Focus e così via. In italiano c’è già persino una voce di Wikipedia.

Una ricostruzione del “Saccorhytus coronarius” basata sui ritrovamenti fosili originali e realizzata il 30 gennaio 2017. Courtesy Illustration by Jian Han/Handout via REUTERS
Perché gli scienziati dicono un’enormità del genere? Perché l’hanno letta in Charles Darwin, stupefatto perché al principio vi furono «[..] poche forme» di vita o anche «[…] una sola» e poi «[…] si svilupparono da un principio tanto semplice e ancora si sviluppano infinite forme sempre più belle e meravigliose». È l’ultima frase del celeberrimo On the origin of species by means of natural selection, or the preservation of favoured races in the struggle for life, ovvero L’origine delle specie, frase immutata in tutte le sei edizioni rivedute che il suo autore pubblicò dal 1859 al 1876. Ma è un trucco. L’assunto iniziale è infatti solo una ipotesi. Che il Saccorhytus coronarius, o chi per esso, sia l’antenato di tutti i vertebrati e quindi anche di un vertebrato come l’uomo è vero solo se è vera l’ipotesi evoluzionista in base alla quale le specie viventi nuove sono modificazioni genetiche dalle antiche lungo un albero filogenetico che si ramifica da un antenato comune. Questo è però proprio ciò che non mai stato dimostrato. Darwin lo dice, ma non ve n’è prova. Non un passaggio evolutivo, non uno snodo, non un anello di congiunzione è stato attestato a norma di metodo scientifico. Nessuna traccia fossile esiste di “esseri intermedi” o di organi in trasformazione. Anzi, i fossili restituiscono solo resti interi o parziali di individui perfettamente compiuti senz’alcun gradualismo.
Uno degli scopritori del Saccorhytus è il celebre paleontologo di Cambridge Simon Conway Morris, un “concordista” che cerca di cristianizzare l’evoluzionismo come del resto faceva all’inizio lo stesso Darwin salvo poi perdere completamente la fede a causa delle sue infondate supposizioni biologiche, come si evince chiaramente dalla sua autobiografia, The Autobiography of Charles Darwin 1809-1882. With the original omissions restored. Edited and with appendix and notes by his granddaughter Nora Barlow (Collins, Londra 1958). Dice Conway Morris: «È difficile ovviamente tracciare una precisa linea di discendenza tra noi uomini e il Saccorhytus coronarius, tuttavia non c’è dubbio che possiamo realmente considerarlo un nostro antichissimo antenato»: «è difficile» significa impossibile, ma «non c’è dubbio» perché… «non c’è dubbio».
Anzi, lo stesso concetto di “esplosione del Cambriano”, implicante la comparsa improvvisa e strutturata della vita senza progenitori, imbarazzantissimo per l’evoluzionismo, può essere del tutto archiviato. Come? Affermando che anche prima del Cambriano c’era vita e così finalmente risolvendo l’annoso «dilemma di Darwin».
Ebbene, sull’ipotesi di vita precambriana infervora da tempo il dibattito. Mettiamo che certe tracce precambriane siano davvero vita o che certe tracce di vita siano davvero precambriane. Tutto sta però nelle definizioni. I fossili che si scoprono non hanno l’etichetta e lo stesso le suddivisioni della scala dei tempi terrestri. La nomenclatura tassonomica e geologica è coniata dagli studiosi in base a determinati parametri. Si tratta cioè di nomi arbitrari, scelti in base a certi elementi d’identificazione. Per esempio “Pitecantropo” significa letteralmente “uomo-scimmia”, ma non ha mai mostrato la carta d’identità: fu chiamato così poiché il suo scopritore, l’antropologo neerlandese Eugène Dubois (1858-1940), voleva fargli recitare una parte ben precisa. Infatti quei nomi mutano, scompaiono, vengono accorpati. Il “pitecantropo” oggi si chiama Homo erectus e il celeberrimo Quaternario di quando studiavamo da piccoli è oggi declassato e completamente riformulato. Così anche il Cambriano, che spacca in due la storia tra deserto e vita, è una convenzione. Chi si occupa di stabilire quando un periodo geologico inizia e finisce è la Commissione Internazionale di Stratigrafia, la quale discute e discute e discute fino a che non raggiunge un accordo sui criteri d’individuazione di un intervallo temporale: la presenza di fossili detti “guida” o di certe rocce. Ma è il contrario di una scienza esatta. La durata di un periodo può infatti variare a seconda del luogo geografico e i periodi si sovrappongo abbondantemente; l’individuazione di nuovi criteri più stringenti può rendere obsolete le definizioni e superate le suddivisioni; oppure specie viventi ritenute originarie di una data epoca possono rivelarsi più antiche. È un caso particolare e concretissimo del famoso giro mentale descritto dall’epistemologo statunitense Thomas Samuel Kuhn (1922-1996) ne La struttura delle rivoluzioni scientifiche, del 1962 (trad. it., Einaudi, Torino 2009): nuove scoperte generano nuovi paradigmi interpretativi.
Vale a dire: se prima del Cambriano vi erano esseri viventi, bisognerà rivedere il concetto di Cambriano o retrodatare l’esplosione della vita. Ma la questione resta: nel Cambriano o altrove, la vita è sorta senza derivare da altro. Potremo infatti sempre trovare fossili più vecchi di quelli che ora riteniamo i più antichi, ma il “fossile zero” che si trasforma nell’albero filogenetico manca all’appello. Finché mancherà, saremo sempre davanti all’esplosione della vita “dal nulla”, cambriana o no che sia. E finché mancheranno le prove empiriche della trasformazione delle specie viventi le une nelle altre, il Saccorhytus coronarius cinese non sarà affatto il progenitore dell’uomo. Non basta dargli un nome o un titolo di giornale per rendere scientifico l’evoluzionismo.
Marco Respinti
La nascita della vita sulla Terra, milioni e milioni di anni fa, è un mistero di gratuità e di bellezza che nessun meccanismo semplicemente naturalistico è in grado di spiegare.
Tutto l’essenziale si compie di fatto durante il Cambriano (tra circa 541 e 485 milioni di anni fa) e l’Ordoviciano (tra circa 485 e 444 milioni di anni fa), che sono il primo e il secondo periodo dell’era Paleozoica, la prima dell’eone Faneorozoico. L’immenso abisso della “notte dei tempi” precedente viene descritto sulla scala dei tempi geologici in tre eoni (Adeano, Archeano, Proterozoico) raggruppati nel superone Archeozoico detto anche Precambriano. Gli ordini di grandezza temporali sono enormi e incommensurabili: l’intero Precambriano misura infatti quattro miliardi di anni, laddove il Fanerozoico che inizia con il Cambriano e l’Ordoviciano “solo” mezzo miliardo. Come suggerisce chiaramente la nomenclatura, è il Cambriano il turning point decisivo che segna il “prima” e il “dopo”. Perché? Perché quello è il “momento” in cui la vita sorge “improvvisamente” in tutte le proprie varietà e magnificenza. In un tempo geologicamente assai limitato, compaiono cioè tutti gli attuali phyla (un phylum, un tempo detto “tipo”, definisce la classificazione di base di gruppi di animali estinti o attuali) forse a eccezione delle spugne. Prima invece non c’è praticamente alcunché; la natura di alcuni ritrovamenti che testimonierebbero l’esistenza di organismi pluricellulari prima del Cambriano è infatti molto dubbia e comunque ampiamente discussa. I phyla del Cambriano non sono insomma mutazioni di creature precedenti. Non hanno antenati, non hanno progenitori e non sono l’uno l’evoluzione dell’altro; sono semplicemente se stessi.
È quella che i biologi chiamano “esplosione” del Cambriano. Nell’Ordoviciano si verifica poi il secondo grande balzo: la vita si diffonde, quasi quadruplicando il numero di specie e di generi che pure si distribuiscono più globalmente. Dopo il “big bang”, la radiazione. I biologi parlano di Grande Evento di Biodiversificazione dell’Ordoviciano reso con la sigla G.O.B.E. (dalla dizione canonica inglese “Great Ordovician Biodiversification Event”). Un particolare rende peraltro la questione ancora più affascinante. Tra l’esplosione cambriana e la radiazione ordoviciana non c’è sviluppo lineare, ma catastrofe. Alla fine del Cambriano moltissime specie si estinguono, e lo stesso faranno altre alla fine dell’Ordoviciano, ma ciò che non si estingue sono i phyla, definiti una volta per tutte. Sono proprio i fossili a testimoniare che l’impianto della vita non muta e che i viventi non si evolvono saltando da un phylum all’altro.
Ebbene, il riduzionismo naturalistico cerca di spiegare la comparsa improvvisa della vita sulla Terra e la sua diffusione diversificata come l’effetto di condizioni ambientali particolari o il prodotto di eventi cosmici accidentali in grado di svelare che il presunto mistero è solo un meccanismo. Se in genere per l’esplosione cambriana si parla dunque di un fantasioso e indimostrato “brodo prebiotico” (nonostante le dimostrazioni scientifiche dell’impossibilità di generare la vita dalla non-vita), per la radiazione ordoviciana si tira in ballo la pioggia di meteore caduta sul nostro pianeta in seguito a uno scontro tra asteroidi che, alterando l’atmosfera e il clima, avrebbe modificato gli ecosistemi marini e quindi dato impulso alla grande varietà. La formulazione più compiuta di questa ipotesi è quella ultimamente offerta dal geologo svedese Birger Schmitz, apparentemente confermata da una serie di recenti conferme empiriche tanto importanti da portare a interessarsi dell’argomento anche un organo di comunicazione di massa come il quotidiano la Repubblica. Ma non è affatto così.
Sull’Ordoviciano piovvero sì meteoriti (come le ricerche di Schmitz hanno riscontrato), ma queste con la biodiversificazione non c’entrano. I frammenti della grande collisione cosmica caddero infatti sul nostro pianeta dopo la radiazione della vita, un paio di milioni di anni più tardi. A stabilirlo categoricamente sono i rilevamenti millimetrici effettuati da un équipe congiunta dell’Università svedese di Lund (la medesima di Schmitz) e dell’Università danese di Copenhagen guidata dal geologo Anders Lindskog, che, proprio citando la formulazione classica della teoria delle meteoriti del collega Schmitz, dimostra l’errore di valutazione dandone comunicazione su Nature, ripreso da Le Scienze.
Insomma, come sulla Terra sia esplosa e grandiosamente si sia diffusa la vita in tutta la sua varietà nessuno scienziato sa dirlo. Le ipotesi vengono formulate per essere smentite dalla ricerca. Per certo i fortunali cosmici non c’entrano e la bellezza del mistero permane.
Marco Respinti
È nato il primo batterio alieno. Possiede infatti un DNA a sei basi azotate anziché le quattro di tutti gli esseri viventi del mondo e della storia. Lo hanno prodotto artificialmente il biochimico statunitense Floyd E. Romesberg e i suoi colleghi nei laboratori dello Scripps Research Institute di La Jolla, in California: a riferirlo sono il periodico Le Scienze e Leonardo, il telegiornale della scienza e dell’ambiente della Testata Giornalistica Regionale della Rai in onda quotidianamente sul terzo canale (qui al minuto 5,05).
Romesberg e colleghi ci aveva provato già due anni fa, ne avevano dato notizia sull’autorevole periodico Nature, ma quei primi risultati, a coronamento di un ventennio di ricerche e tentativi, non erano soddisfacenti. Adesso invece il batterio alieno è una realtà. Funzionante.

Il batterio “Escherichia coli”: vive nel nostro intestino ed è chiamto “prostituta delle biotecnologie”
Gli scienziati sono intervenuti modificando il codice genetico di alcuni esemplari di Escherichia coli, il batterio che vive nell’intestino degli animali a sangue caldo, tra cui quindi anche l’uomo, svolgendo funzioni indispensabili per la digestione. Sperimentare su quel batterio è del resto da sempre un classico, tanto che gli operatori dell’ingegneria genetica lo definiscono la “prostituta delle biotecnologie”. Il biologo statunitense Richard Lenski, per esempio, conduce ininterrottamente dal 1988 esperimenti su di esso alla ricerca della conferma empirica del processo di speciazione per mutazioni genetiche postulato dall’evoluzionismo neodarwinista, ma tutto ciò che da decenni ottiene sono svantaggi correlati a eventuali vantaggi molto limitati, degrado del patrimonio cromosomico e impoverimento funzionale.
Ebbene, in tutti gli esseri viventi le istruzioni genetiche sono scritte attraverso quattro basi azotate che compongo i nucleotidi, le lunghe catene di molecole elementari che costituiscono i mattoni del DNA, le quali si accoppiano a due a due sempre allo stesso modo. Le quattro basi sono l’adenina, la citosina, la guanina e la timina indicate con le iniziali dei loro nomi: A, C, G e T. Nella famosa raffigurazione del DNA come una scala che si avvolge su stessa a mo’ di elica i due filamenti nucleotidici costituiscono la doppia catena “di supporto” e le basi azotate sono i “pioli” che le tengono assieme: l’adenina si accoppia sempre nello steso modo e solo con la timina e la citosina sempre nello stesso modo e solo con la guanina in miliardi di combinazioni che formano i geni, le unità ereditarie fondamentali dei viventi, le “cabine di regia” della vita, le “fabbriche” di proteine e di enzimi essenziali a tutti gli organismi.
Quel che Romesberg e i suoi colleghi hanno fatto nello Scripps Research Institute è stato intervenire in questo alfabeto, introducendo due lettere nuove: X e Y. Ovvero espandere artificialmente il DNA dell’Escherichia coli con l’inserzione di due basi azotate sintetiche, chiamate d5SICS e dNaM. Se però, per scrivere la vita, la natura si serve sempre e solo di A, C, G e T, allora il risultato ottenuto nei laboratori californiani non è un’altra Escherichia coli, bensì un vivente non attestato in natura: un vero e proprio alieno sulla Terra o – come dice la giornalista Silvia Rosa-Brusin a Leonardo ‒ «[…] una vita innaturale»: «[…] una creatura mai vista», che «[…] ha cambiato completamente il gioco».
Ora, questo esperimento corre certamente sulla falsariga dell’antico sogno dell’abiogenesi, vale a dire l’idea che la vita nasca per “generazione spontanea” dalla materia inerte grazie a proprietà intrinseche alla materia stessa catalizzate e innescate da particolari condizioni ambientali, dunque senz’alcun bisogno di agenti esteriori volitivi e senzienti, per esempio il Creatore. Ma l’abiogenesi è una superstizione tanto cara agli evoluzionisti quanto smentita definitivamente e a norma di metodo scientifico da scienziati veri del calibro del medico, naturalista e letterato toscano Francesco Redi (1626-1697), uno dei maggiori biologi di tutti i tempi, del biologo e gesuita emiliano Lazzaro Spallanzani (1729-1799) nonché del chimico e biologo francese Louis Pasteur (1822-1895), “padre” della microbiologia. Tra l’altro tre buoni cattolici. Né hanno potuto alcunché le ipotesi fantascientifiche sul “brodo primordiale” del biochimico sovietico Aleksàndr Ivanovič Oparin (1894-1980) o del biologo e genetista marxista inglese John B.S. Haldane (1892-1964). E di fatto a nulla sono valsi gli esperimenti non conclusivi del chimico e fisico statunitense Harold Clayton Urey (1893-1981) – Premio Nobel per la Chimica nel 1934 per la scoperta del deuterio –, e del chimico e biologo statunitense Stanley Lloyd Miller (1930-2007). La vita in laboratorio non è mai stata creata e l’alieno di Romesberg non ne è un esempio.
Il nuovo essere californiano è infatti solo la modificazione di un vivente già esistente, senza che questo dica alcunché sul mistero della vita in sé. In pratica è solo un OGM molto sofisticato, dice a La nuova Bussola Quotidiana il chimico Giulio Dante Guerra, Primo Ricercatore a riposo del Consiglio Nazionale delle Ricerche, Socio Onorario della Società Italiana dei Biomateriali. Appartiene al “sogno faustiano” cui Guerra dedica un capitolo intero del suo recente L’origine della vita. Il “caso” non spiega la realtà (D’Ettoris, Crotone 2016).
Del resto, come sottolineano i suoi “creatori”, il batterio alieno non può affatto vivere al di fuori dei laboratori. Legittimo allora domandarsi a che serva. Ed è qui che Guerra s’incupisce: «Quell’alieno non può vivere fuori dai laboratori per ora. Certo, forse non sarà mai in grado di farlo. Ma è un fatto che questo tipo di esperimenti apra la porta a sviluppi potenzialmente inquietanti. Il rischio, almeno teorico, è infatti che l’obiettivo finale di queste ricerche sia quello di ottenere l’“arma biologica assoluta”. Immaginiamo infatti cosa accadrebbe se certi “pseudo-batteri” o “para-virus” finissero nelle mani sbagliate…». La vita innaturale usata per cancellare la vita naturale?
Marco Respinti
Le Grotte di Postumia sono un meraviglioso complesso di caverne a stalattiti e stalagmiti che il fiume Pivka scava per circa 21 chilometri (quelli scoperti sino a oggi da che si cominciò nel 1818) nel sottosuolo dell’omonima cittadina della Slovenia. Fra i tanti spettacoli che offrono al visitatore uno è davvero singolare: il Proteus anguinus, un anfibio caudato classificato nel 1768 dal biologo austriaco di origine italiana Josephus Nicolaus Laurenti (1735-1805). Può raggiungere i 25-30 centimetri di lunghezza, è raro e quindi è iperprotetto. Vive solo nelle acque del sistema carsico delle Alpi Dinariche che costeggia l’Adriatico Orientale dal bacino dell’Isonzo goriziano-triestino alla Slovenia meridionale proseguendo attraverso la catena costiera dell’Istria e della Dalmazia croate fino alle montagne marittime della Bosnia occidentale (di recente è stato registrato anche nella parte occidentale del Montenegro). In America Settentrionale ha dei cugini, le sette specie in cui si suddivide il genere Necturus che appunto con il genere Proteus forma la famiglia dei Proteidae, originaria del periodo Miocene (tra circa 23 milioni e poco più di 5 milioni di anni fa).
Stante la scarsità di cibo (vive d’insetti e di piccolissimi crostacei), può campare senza nutrirsi per periodi enormi: perfino una decina di anni. Non ha occhi, inservibili al buio, sostituiti da organi lievemente fotosensibili coperti da uno spesso strato di pelle. E la sua epidermide senza pigmentazione è trasparente (si scorgono gli organi interni), rosacea solo per riflesso quando lo s’illumina (in Slovenia lo hanno soprannominato “pesce uomo”). E questo perché? Perché il proteo sarebbe la dimostrazione più palese dell’evoluzionismo, l’esito per mutazione genetica del lungo processo con cui un essere in origine diverso dall’animaletto attuale (cioè vedente e pigmentato) avrebbe violentato la propria biologia per sopravvivere in un habitat scomodo. L’ambiente avrebbe cioè costretto il suo genoma a produrre caratteri del tutto nuovi che poi, una volta selezionati solo quelli utili, sarebbero divenuti ereditari evolvendolo. Mai esposto alla luce, il proteo avrebbe progressivamente perso gli occhi e mutato la pelle non più bisognosa di protezione, anzi strategicamente più utile al mimetismo se incolore. Ma c’è più di un intoppo.
Il primo è che l’intero assunto è solo un enunciato ipotetico. Nessuno sa documentare biologicamente come la pressione ambientale possa indurre novità inedite nel DNA. L’abate Gregor Mendel (1822-1884) ha descritto la regola con cui nelle specie si trasmettono i caratteri ereditari dominanti e recessivi già presenti nel corredo genetico, mostrando che la ricombinazione di quello che nel 1953 si sarebbe scoperto essere il DNA non avviene casualmente mediante trasformazione dell’informazione genetica in qualcosa che prima non c’era, bensì attraverso un’alternanza matematica di caratteri già tutti e sempre presenti nel corredo genetico di partenza (che tra l’altro spiega perché i figli sono sempre diversi dai genitori). La pietra tombale sulla questione l’ha posta il biologo e botanico tedesco Friedrich Leopold August Weismann (1834-1914), peraltro evoluzionista, che confutò definitivamente la pretesa ereditarietà di caratteri acquisiti inesistenti nel genoma quando, nel 1883, tagliò le code ad alcune coppie di topi, le incrociò e constatò che la prole nasceva con code regolari e che lo stesso facevano i loro discendenti per diverse generazioni. Così facendo accertò che i responsabili della trasmissione dei caratteri ereditari sono le cellule germinali, ovvero i gameti, le cellule sessuali, e non quelle somatiche. È la cosiddetta “barriera di Weismann”, che impedisce alle variazioni indotte dall’ambiente di andare oltre il singolo vivente che le subisce: le informazioni ereditarie si muovono cioè solo dai geni che le posseggono alle cellule somatiche, mai in senso contrario. Diverso è invece il caso del polimorfismo, quando uno stesso genotipo può dare vita a fenotipi diversi: qui appunto la potenzialità mendeliana di un carattere latente è già tutto insita nel DNA della specie e dell’individuo. Celebre è l’esempio delle falene punteggiate delle betulle.
Il secondo intoppo è che si fa presto a parlare di mutazioni genetiche, ma esse sono sempre e solo patologiche (sempre degenerazioni d’informazioni genetiche esistenti, mai comparsa di nuove ancorché morbose). Non possono cioè affatto essere il motore dell’evoluzione, come ha documentato il celebre studio L’évolution du vivant: matériaux pour une nouvelle théorie transformiste (Albin Michel, Parigi 1973) di Pierre Paul Grassé (1895-1985), zoologo francese neo-lamarckiano per ciò stesso attentissimo alle variazioni dei viventi e all’impatto ambientale.
Il terzo è però quello più critico. Perché del Proteus anguinus esiste un parente diverso, scoperto nel 1986 nella regione slovena della Carniola Bianca (Bela krajina): un parente dotato di occhi sviluppati e di epidermide pigmentata di nero che per questo nel 1994 i biologi Boris Sket, sloveno, e Jan Willem “Pim” Arntzen, neerlandese, hanno identificato come la sottospecie Proteus anguinus parkelj riclassificando l’altra come la sottospecie Proteus anguinus anguinus. Ora, Sket e Arntzen affermano che il Parkelj vedente e nero presenta differenze genetiche con l’Anguinus cieco e trasparente di Postumia, ma non con l’Anguinus cieco e trasparente delle da lui poco distanti grotte di Stična. In questo modo però il proteo di Stična dovrebbe essere contemporaneamente sia diverso sia uguale a quello di Postumia: i due biologi non ne fanno infatti né una sottospecie né tantomeno una specie a sé, e per tutti i tassonomi l’Anguinus è e resta l’unica specie del genere Proteus nonché l’unica europea della famiglia Proteidae. Persino piccole differenze genetiche non determinano cioè esemplari in essenza diversi e talora nemmeno varianti. Non a caso qualche studioso sostiene che il proteo vedente e nero sia solo una varietà (esempio di polimorfismo) di quello (unico) cieco e trasparente. Sket e Arntzen comunque non ci stanno e aggiungono che il Parkelj è classificato ora come sottospecie solo per prudenza, in verità forse meritando addirittura lo status di specie nuova).
Sia come sia, tutti i protei delle Alpi Dinariche vivono perennemente al buio e si cibano quando capita. Eppure quello nero e vedente non si è evoluto in quello cieco e trasparente. Se la selezione naturale non ha penalizzato il primo, la presunta evoluzione del secondo è l’adattamento migliorativo di quale animale? Protei in sé simili ma con apparati visivi tanto diversi che convivono nel medesimo ambiente; ennesimi “fossili viventi” identici oggi a com’erano in origine e a come sono stati per milioni di anni; la genetica che dice una cosa e assieme il suo contrario; nessuna trasformazione della specie per selezione: insomma, un’altra cantonata del neodarwinismo.
Marco Respinti
La mela di Newton, estensione web dell’Almanacco della scienza di MicroMega, Telmo Pievani, responsabile entusiasticamente darwinista sia del blog sia dell’”Almanacco”, pubblica l’articolo La falena delle betulle sbaraglia i creazionisti. Il caso è quello, citato in ogni libro di testo, della falena punteggiata delle betulle, Biston betularia, in inglese peppered moth. Nel distretto industriale della Manchester ottocentesca si sarebbe scurita imitando le betulle imbrunite dalla fuliggine e dalle piogge acide causate dall’inquinamento della Rivoluzione Industriale onde continuare a nascondersi dai predatori. Per Pievani (che per tutto l’articolo si produce in una prosa inutilmente sardonica) è uno dei «[…] tantissimi esempi probanti un’evoluzione darwiniana in atto» e un «[…] archetipo della spiegazione darwiniana» per effetto di un articolo comparso sul numero datato 2 giugno della prestigiosa rivista Nature, a cui vanno certamente aggiunti un secondo articolo e l’editoriale “benedicente” che Pievani non cita. Pievani sunteggia il primo spiegando che un’équipe formata da otto specialisti dell’Istituto di Biologia integrativa dell’Università di Liverpool e uno del Wellcome Trust Sanger Institute di Hinxton, in Inghilterra, «[…] ha scoperto che la mutazione all’origine del melanismo industriale in Inghilterra consiste nell’inserzione di un grosso elemento trasponibile nel primo introne del gene cortex (preposto alla divisione cellulare, ma coinvolto anche nel mimetismo attraverso la sua azione sullo sviluppo delle ali delle falene)», un “gene saltatore” responsabile della novità adattativa. Ovvero: un pezzo del DNA che salta da una parte all’altra del genoma è finito dentro un certo gene influenzandone il comportamento.
Questa però non è affatto «evoluzione darwiniana in atto». Il rimescolamento delle informazioni genetiche esistenti in una specie è infatti cosa completamente diversa dalla comparsa dal nulla d’informazioni genetiche nuove. I due fenomeni sono noti come microevoluzione e macroevoluzione. La prima è la variabilità interna a una specie, la seconda la nascita di una specie completamente nuova per trasformazione sostanziale di una vecchia (speciazione). Li divide l’abisso che corre tra un fatto osservato e un’ipotesi mai provata.
Del resto le falene chiare e scure coesistono: non sono una specie trasformata in un’altra. Quella scura (carbonaria) non è un’altra falena; è la stessa falena chiara (typica) che sviluppa appieno una possibilità prima attuata in modo limitato: è detta “punteggiata” proprio perché il pigmento scuro c’è benché limitato ad aree specifiche (i puntini neri sulle ali). Il fenomeno è ben noto e si chiama polimorfismo. Ne sono responsabili gli alleli, le due o più forme alternative del medesimo gene che si trovano nella stessa posizione su ciascun cromosoma omologo. Controllano lo stesso carattere, ma possono portare a risultati quantitativamente o qualitativamente diversi: la Donax variabilis, un mollusco bivalve, esiste in varie forme diversamente colorate; le pantere nere sono solo giaguari e leopardi melanici. La ricerca della succitata équipe di scienziati ha dunque scoperto il “gene saltatore” che rende scure le falene. Chapeau. Ha scoperto anche la data del suo “salto” nel genotipo di quei lepidotteri, circa il 1819, molto prima (30 generazioni, stante che il ciclo riproduttivo delle falene si ripete ogni anno) dei primi rilevamenti di fenotipi scuri, verso il 1848, cioè prima anche di una presenza massiccia di fabbriche. Chapeau. Dunque la comparsa di una nuova specie per adattamento agli effetti dell’inquinamento non c’è e la mutazione mimetica per sopravvivere nemmeno (le falene non riposano sui tronchi degli alberi, ma sui ramosi frondosi più alti e gli uccelli le predano soprattutto in volo): per quale motivo si dovrebbe allora parlare di evoluzionismo?
Negli uomini accade la stessa cosa. La melanina, che dà la pigmentazione estesa a tutto il corpo degli africani subsahariani, è presente in tutti gli uomini; è quella che, stimolata dalla radiazione solare, è responsabile dell’abbronzatura estiva dei bianchi (l’assenza totale di melanina provoca infatti negli uomini l’albinismo, che ha caratteri paragonabili a quelli di una patologia). I neri sono geneticamente uguali ai bianchi ma la loro cute è più adatta alla vita in un preciso contesto. La pelle nera protegge dai melanomi, che sono mutazioni genetiche (patologiche come tutte le mutazioni genetiche) indotte dai raggi ultravioletti; motivo per cui d’esatte i bianchi si cospargono di protettivi solari.
Ogni presunta prova fornita dai neodarwinisti è insomma sempre e solo la constatazione di un caso di variabilità interna a una specie (microevoluzione), mai di speciazione dal nulla (macroevoluzione). Nessuno infatti mette oggi in dubbio la variabilità e la selezione naturale, nemmeno i più incalliti tra i creazionisti come dicono proprio i più incalliti tra i creazionisti (anche se si può legittimamente contestare la felicità dell’espressione). La selezione è osservabile: praticata dall’allevatore, dall’agricoltore o da un “attore” ecologico diverso. Ma è una scelta limitata entro un ambito dato, non la produzione dal niente di geni nuovi. Lo scrive l’équipe scientifica nell’articolo citato da Pievani: «le nostre scoperte colmano una sostanziale vuoto di conoscenza riguardo l’esempio-simbolo del cambiamento microevolutivo, aggiungendo un ulteriore livello di comprensione del meccanismo di adattamento in risposta alla selezione naturale». Nell’introduzione all’edizione del 1972 de L’origine delle specie di Darwin, lo zoologo evoluzionista inglese Leonard Harrison Matthews (1901-1986) ha scritto che gli esperimenti sulle falene «dimostrano meravigliosamente la selezione naturale […] in atto, ma non mostrano l’evoluzione in divenire; perché, per quanto le popolazioni possano variare nel numero di esemplari chiari, intermedi o scuri, tutte le falene rimangono, dall’inizio alla fine, Biston betularia». Niente evoluzionismo, il caso è archiviato da tempo; quella pubblicata da Nature è una bella storia che parla di altro.
Marco Respinti
Tempi duri per lo storione pallido. Vive esclusivamente nello Stato nordamericano del Missouri e l’Unione mondiale per la conservazione della natura dice che è in pericolo di estinzione a causa di una progettata diga sul fiume Yellowstone che impedirebbe al pesce di raggiungere le acque più adatte per lo sviluppo di uova e larve. Ne rimarrebbero in tutto solo 125 esemplari e anche questi rischiano di avere i giorni contati. Lo afferma The New York Times e l’agenzia ANSA lo riprende ricordando che la progettata diga è al centro di una lite tra agenzie governative – che vorrebbero costruirla salvaguardando comunque un canale di passaggio per i pesci – e le sigle ecologiste che hanno il dente avvelenato.
Ora, quale che sia la verità sulle sorti dello storione pallido del Missouri, questa notizia non esattamente travolgente ne contiene un’altra ben più seria che però gli organi di stampa buttano lì in modo tanto sfumato da sbiadirla. Lo storione pallido del Missouri – dice The New York Times e l’ANSA riprende – potrebbe non superare oggi una diga eppure è stato capace di sopravvivere ai formidabili dinosauri, che si sarebbero estinti quasi 66 milioni di anni fa. E non solo è sopravvissuto per quei milioni e milioni di anni, ma per quei milioni e milioni di anni non è cambiato di una sola squama.
Oltre allo Scaphirhynchus albus (questo il suo nome scientifico), classificato nel 1905, per quegli stessi milioni e milioni di anni non sono però cambiati nemmeno tutti gli altri suoi cugini storioni delle diverse specie sparse per il mondo (e un po’ tutte a rischio di estinzione). Anzi, tutti gli storioni del mondo non sono minimamente cambiati per un numero ancora maggiore di milioni e milioni di anni. Della famiglia Acipenseridae cui appartengono gli storioni, classificata nel 1831, le prime tracce fossili risalgono a un periodo indicato tra i 245 e i 208 milioni di anni fa: ebbene, da allora tutti gli storioni sono rimasti perfettamente invariati e i reperti fossili non presentano alcuna differenza rispetto agli esemplari odierni. Gli storioni sono nati storioni e storioni sono sempre rimasti nonostante quel che dice l’evoluzionismo. Non si sono trasformati, non hanno generato specie nuove e nemmeno si sono estinti.
È un fenomeno noto come “effetto Lazzaro”, forme arcaiche che si mostrano identiche a quelle odierne, animali preistorici ancora vivi oggi, specie che dovrebbero essere “morte” e invece “risuscitate”. Sono analoghi ai cosiddetti “fossili viventi”, animali che la logica evoluzionista vorrebbe estinti in ragione del loro “primitivismo” e che invece sono perfettamente attuali (in pratica le due espressioni sono sinonimi e infatti vengono usate in maniera interscambiabile). Per l’ipotesi evoluzionista, che sostiene la graduale trasformazione delle specie viventi le une dalle altre con scarto di quelle meno adatta alla vita, sono oltremodo imbarazzanti. È lo stesso Charles Darwin (1809-1882), il padre dell’evoluzionismo, a coniare l’espressione “fossile vivente” nel capitolo IV della prima edizione del suo arcinoto L’origine delle specie (1859): non sapendo infatti come cavarsela davanti all’evidenza di specie che per la sua ipotesi non dovrebbero esistere affatto ma che invece spavaldamente esistono, il naturalista inglese se la cava sbrigativamente definendole «forme anomale», anzi «aberranti», sopravvissute soltanto come eccezioni perché isolate dal resto del mondo in evoluzione.
Ma non è così. Perché a fare compagnia allo storione pallido del Missouri e ai suoli vecchissimi cugini in giro per il mondo ci sono centinaia di altre specie sia animali sia vegetali (ne ricordo diversi esempi nel mio Evoluzione. Dubbi e obiezioni). Anzi, se ne scoprono sempre di più. L’intero regno dei viventi pullula di “Lazzari” e di “fossili viventi” che ogni giorno, da milioni e milioni di anni, sfidano quell’ipotesi trasformista dell’evoluzionismo che ancora non riesce a produrre uno straccio di prova di sé. Il più celebre è il celacanto, un altro pesce, dato a lungo certamente per scomparso assieme ai dinosauri e invece ritrovato in due varianti, una al largo del Sudafrica, dove i pescatori lo conoscono da sempre, e l’altra in Indonesia, nientemeno che al banco del pesce in un mercato di Sulawesi nel 1997.
Marco Respinti
Versione completa e originale dell’articolo pubblicato con il titolo
Uno storione pallido sbugiarda Darwin (e l’evoluzione)
in La nuova Bussola Quotidiana, Monza (Milano) 13-08-2016
L’evoluzionismo è la spiegazione della nascita e dello sviluppo della vita sulla Terra così come ipotizzato dal naturalista inglese Charles Darwin e in seguito elaborato attraverso la cosiddetta “Teoria sintetica”. Suoi perni centrali sono la “selezione naturale”, il “caso” e la necessità di tempi geologici enormemente lunghi. Ma nulla di tutto ciò è osservabile empiricamente: darwinismo e neodarwinismo si sottraggono dunque sistematicamente alla necessaria verifica a norma di metodo scientifico. Le affermazioni evoluzioniste sono peraltro lacunose e contraddittorie, e a volte persino truffaldine come nel caso di certi reperti tanto famosi quanto falsi. È un tema su cui si scatena la propaganda e infuria la battaglia culturale. Se infatti l’evoluzionismo radicale avesse ragione, Dio non servirebbe.
I Quaderni del Timone A38
© 2016 I.d.A. – Istituto di Apologetica, Via Benigno Crespi 30/2 2015 Milano
ISBN 978-88-97921-16-5
info@iltimone.org
INDICE
Introduzione
Capitolo I. Scienza e ipotesi evoluzionista
Il metodo scientifico
L’Illuminismo e Lamarck
Charles Darwin
Capitolo II. Darwinismo, genetica e neodarwinismo
Darwin sfratta il Creatore
Il monaco e l’eclisse
La conferma da Nobel
La controffensiva della “Teoria sintetica”
Capitolo III. L’origine della vita
Il falso mito della “generazione spontanea”
Il “brodo primordiale”
Gli esperimenti non conclusivi di Urey e di Miller
I fossili non sono una prova
Capitolo IV. La paleontologia obietta
I “fossili viventi”
L’“effetto Lazzaro”
L’esplosione della vita
Capitolo V. L’anello sempre mancante
Il pipistrello per avvocato
Rettili e uccelli
Piume e penne
Capitolo VI. L’Homo sapiens
L’uomo fra le bestie
Giocare a dadi con l’ignoto
Chi è l’uomo di Neanderthal?
L’uomo e la sua unicità
Conclusione
Bibliografia e sitografia
RECENSIONI:
Delia è una bellissima donna di 28mila anni. Stiamo parlando di uno dei più importanti ritrovamenti paleontologici del mondo, avvenuto in Italia nel 1991. Fu allora che nella grotta-santuario di Santa Maria di Agnano, sulle colline fuori Ostuni, in Puglia, l’équipe del professore Donato Coppola, docente nell’Università degli Studi Aldo Moro di Bari, scoprì una sepoltura unica: lo scheletro praticamente completo e in ottimo stato di una giovane donna incinta di otto mesi. Anche il piccolo scheletrino che stava nel suo ventre è quasi completo e in condizioni eccellenti. Oggi riposano entrambi, la madre accanto al figlio, al 15 di Via Cattedrale a Ostuni, cioè nell’ex monastero carmelitano di Santa Maria Maddalena dei Pazzi, annesso alla chiesa di San Vito Martire, che accoglie il Museo di Civiltà Preclassiche della Murgia Meridionale (Coppola ne è il direttore scientifico), una struttura che gestisce pure il Parco Archeologico e Naturalistico di Santa Maria di Agnano.
Nel Museo, Delia e il suo piccolo sono adagiati in una teca trasparente come le principesse buone delle fiabe. Quando li trovarono, la madre, reclina sul lato sinistro, le gambe rannicchiate e una mano sotto la guancia, pareva dormire. La mano destra la poggiava sul ventre, proteggendo e coccolando la creatura che era in lei. La loro famiglia li ha sepolti così, componendoli in quel gesto che Delia avrà compiuto d’istinto mille volte e che nel silenzio della tomba diventa un quadro indelebile. Per questo gli scienziati non se la sono sentita di perderlo per sempre, realizzando prima un calco che riproduce il ritrovamento esatto (le ossa dei due corpi non più rette da muscoli e fibre che si accatastano mescolandosi tra loro, con i monili e con la terra) e poi un vivido rendering tridimensionale di come potessero davvero essere quella mamma e quel suo pancione.
Affiancati nella teca mettono i brividi. Lei, probabilmente ventenne, alta, circa 1,70 mt., e il piccolo invece così minuscolo. Eppure sono uguali: il feto è solo un uomo in miniatura. Chi ne è rimasto profondamente colpito è il popolare conduttore televisivo Alberto Angela, che ne ha voluto parlare dettagliatamente nella puntata di Ulisse, il piacere della scoperta trasmessa sabato 10 ottobre su Rai3.
La storia della madre paleolitica lo ha affascinate tanto che in un post su Facebook ha scritto: «Non si riesce a nascondere una commozione intima davanti a questa mamma e il suo piccolo (o la sua piccola) che il destino ha unito nei millenni. Non si conoscono al mondo resti di una donna incinta così antica». E in un altro, commentando una fotografia dello scheletrino: «La ragazza è morta per cause sconosciute all’ottavo mese di gravidanza e i ricercatori hanno rinvenuto il suo piccolo ancora in grembo. La cosa che mi ha impressionato di più nel racconto della scoperta è che al momento di estrarre delicatamente le minuscole ossa del feto il prof. Coppola si è accorto che delle falangi della mano (non esposte nella teca) erano ancora a contatto con le orbite, segno che il piccolo aveva i “pugnetti” davanti agli occhi. Come non sentire un istintivo senso di protezione nei suoi confronti anche a 28 mila anni di distanza?».
Quante volte l’abbiamo sentita la storia dei piccoli che nel grembo materno fanno i “pugnetti”, si sfregano il viso, sbadigliano e pure si scansano se c’è un fastidio, un pericolo? Quante volte l’abbiamo sentita la storia dei bimbi che nel ventre materno provano dolore se dolore viene loro procurato? Come si fa a pensare che quello vivo nel ventre di una madre sia solo un grumo di cellule senza diritti che si può abortire a piacimento? Delia e il suo piccolo sono Homo sapiens, cioè uomini esattamente come noi; che grande insegnamento ci proviene da quei nonni paleolitici. Ma non è finita.
Nella tomba Delia portava dei bracciali e un copricapo, una specie di cuffia, fatti di centinaia di conchiglie. Cipree, ovvero quei gasteropodi piuttosto comuni che hanno forma globosa, lucida e porcellanacea, un’apertura longitudinale tra due labbra accentuate e un manto sovente maculato. Ricordando l’organo genitale femminile, per le culture arcaiche sono simbolo di maternità e quindi archetipo della vita. Lo stesso dicasi per l’ocra, di cui è intrisa la “cuffia” di Delia: il suo colore è rosso come il sangue, altro emblema della vita. Delia si chiama così perché Coppola, il suo scopritore, l’ha voluta chiamare come la moglie (da quando hanno divorziato la “madre antica” si chiama freddamente “Ostuni 1”, ma noi tiriamo diritto).
Quel copricapo ricorda quello di una famosa statuetta, la Venere di Willendorf (oggi nel Museo di storia naturale di Vienna), che ha più o meno l’età di Delia. A statuette così si è voluto far dire di tutto: la Dea Madre, il matriarcato originario e il sacro femminino in un pot-pourri di parole in libertà che dall’archeologia seria passano con nonchalance al trash più ridicolo. Invece quelle micro-virago con seni esagerati, ventri gonfi e steatopigia spavalda sono state scolpite da ignoti Botero preistorici “solo” per celebrare il culto e il rito della femminilità generosa, della maternità esuberante e della vita prorompente (quindi delle nozze feconde e della famiglia). Il primo segno attraverso cui si mostra (cioè si comunica e si trasmette) la peculiarità dell’Homo sapiens è la relazione simbolica, un atto di carattere spirituale che l’arte manifesta e che la religione (religio come “legame” ovvero ancora “simbolo”) costituisce. Che fa, cioè, l’uomo appena viene al mondo, all’alba dei tempi oppure oggi? Disegna, colora, scolpisce, incide e poi scrive (che è un altro modo di disegnare) per dire ai suoi contemporanei (orizzontalmente) e ai posteri (verticalmente) ciò che merita di essere detto. Testimonia, insomma, il grande mistero che lo circonda, lo affascina e lo costituisce. Uomini che pregano, madri gravide e scene sociali di carattere propiziatorio oppure apotropaico sono la prima forma di comunicazione umana, l’arte dell’Homo sapiens. Gesti sacrali, sacri, religiosi.
Cosa ci fanno le conchiglie vulvari della nascita e l’ocra sanguigna della vita là nel buio della morte di Delia e del suo piccolo? Dicono, anzitutto a Delia e al suo piccolo, poi a tutti (dal suo clan di 28mila anni fa fino a noi nell’anno del Signore 2015) che la vita continua dopo la morte, addirittura che c’è la promessa di una nuova nascita oltre il sepolcro. Anche per i bimbi morti ancora nel grembo della madre. L’umanità della vita che sta nel ventre materno e la speranza “a tentoni” della risurrezione sono cose antiche quanto l’uomo, che l’uomo si porta dentro ‒ appunto ‒ le ossa perché così l’uomo è stato costituito da chi lo ha costituito. Per questo Delia non ha paura e, serena, conforta il suo piccolino. È il secondo grande insegnamento che ci viene da quella famiglia di quasi 300 secoli fa. La grotta di Santa Maria d’Agnano è stata un luogo di sepoltura e di preghiera dal paleolitico sino al Medioevo cristiano, quando divenne una chiesa rupestre. Dei molti affreschi che un tempo l’adornavano, ne è rimasto solo uno. Quello cinquecentesco della Vergine Maria che stringe in braccio Gesù bambino, contornati dagli angeli e adorati da un orante in ginocchio. Delia e il suo piccino dormivano lì.
Marco Respinti
Versione completa e originale dell’articolo pubblicato con il medesimo titolo
in La nuova Bussola Quotidiana, Milano 15-10-2015
È la notizia del giorno, battuta lunedì pomeriggio in simultanea da tutti gli organi di stampa. Sul pianeta Marte c’è acqua allo stato liquido ha detto la NASA in un’attesissima conferenza stampa. La prova arriva dal satellite statunitense Mars Reconnaissance Orbiter. E qui scatta subito il meccanismo pavloviano: se su Marte c’è acqua, allora vuol dire che su Marte c’è vita. O c’è stata, o ci sarà. Ma non è per nulla così facile. A dirlo molto bene è l’astrofisico dell’Accademia dei Lincei Giovanni Bignami, intervistato da La Stampa.
Alla domanda «Abbiamo veramente scoperto l’acqua su Marte?» postagli dal giornalista Enrico Forzinetti, lo specialista risponde: «In verità no, è stata osservata la sicura presenza di sali idrati, tracce di colate che ci dicono che deve essere scorsa dell’acqua liquida nella quale erano presenti sali. È importane sottolineare come l’acqua possa risalire solo al passato perché su Marte, con un’atmosfera così sottile e a quelle temperature, non può esistere acqua liquida. Al massimo può esistere per pochi minuti dato che evapora poco dopo. Comunque l’osservazione fatta si tratta di un’eccellente conferma di quanto già trovato in passato. Non so se definirla una grande scoperta».
Tra l’altro la scoperta non è una novità, come dice ancora Bignami: «Noi sapevamo già dell’esistenza di una quantità consistente di acqua in profondità grazie a dei radar speciali che hanno rilevato diversi strati di ghiaccio. La novità sta nel fatto che non avevamo mai osservato così bene dei sali idrati sulla superficie. È stata fatta un’analisi dettagliata dei sali che sono una sorta di firma della presenza di acqua salata. In passato avevamo solo un’evidenza delle colate di questi sali, ora abbiamo una misura dettagliata».
Ma ovviamente è la questione della vita quella che importa. Così, quando l’intervistatore gli domanda: «C’è vita su Marte?», l’astrofisico replica: «Di sicuro l’osservazione di acqua salata ne aumenta la possibilità. Prendendo come esempio il deserto Atacama in Cile, simile a Marte per aridità, lì si trovano comunità di colonie di microbi alofili. Una forma analoga di vita elementare potrebbe esistere anche su Marte».
I sostantivi e i verbi sono fondamentali. I secondi sono correttamente al condizionale («potrebbe esistere»), i primi parlano di possibilità. A livello teorico, cioè, la presenza di acqua salata, dice lo scienziato, non contraddice il fatto che, in tesi, la vita possa esserci. Anzi. Ma in concreto tra possibilità e probabilità c’è un abisso. L’acqua è infatti necessaria alla vita, ma non è sufficiente. Non è detto che se su un pianeta vi è acqua, automaticamente vi è allora anche vita. Per innescare il meccanismo della vita serve altro. E che cosa serva a generare la vita è ancora un mistero fitto per la scienza, la quale può al massimo elencare altre condizioni necessarie alla vita, ma nessuna di loro sufficiente.
L’esempio importante citato da Bignami del deserto di Acama in Cile, simile a Marte per aridità, lo dice benissimo. Sul pianeta Terra c’è vita in abbondanza e così anche nelle condizioni estreme del deserto cileno di Acama la vita trova il modo di attecchire. Ma non è che siccome su Marte sono ipotizzabili condizioni estreme simili a quelle che si verificano concretamente in una nicchia bioambientale terrestre allora si possa desumere che su Marte la vita c’è, c’è stata o ci sarà. Nessuna condizione favorevole alla vita genera di per sé la vita. La vita, che per esistere ha bisogno di acqua e di altre cose sia sulla Terra sia su Marte, resta un grande mistero. Sulla Terra c’è, mentre su Marte fa acqua.
Marco Respinti
Pubblicato con il medesimo titolo
sul sito Internet de Il Timone, Milano 29-09-2015
Il noto genetista Edoardo Boncinelli scrive, sul Corriere della Sera, che «tra noi e le scimmie anche più evolute e capaci c’è un’enorme differenza, in diverse caratteristiche biologiche ma soprattutto nel cervello. Noi possediamo una corteccia cerebrale molto più estesa e probabilmente meglio connessa. Questo secondo punto è ancora molto difficile da esplorare, ma in quanto alle dimensioni le differenze sono indubbie. Che cosa ha fatto crescere enormemente la nostra corteccia cerebrale? Non si sa, ma si deve trattare di un certo numero di geni dello sviluppo e della loro azione. Uno di questi, denominato ARHGAP11B, è certamente coinvolto in questo processo, come dimostrato in un lavoro che esce oggi sulla rivista Science, condotto da Marta Florio e collaboratori nel laboratorio di Dresda di Wieland Huttner. Questo gene non esiste nel genoma delle scimmie antropomorfe, mentre è presente in noi e nei nostri cugini Neandertal. Ha fatto la sua comparsa cioè nella linea evolutiva che porta all’uomo dopo la sua separazione da quella delle attuali scimmie antropomorfe, come gli oranghi e gli scimpanzé e, fatto agire in un embrione di topo, gli espande notevolmente la corteccia cerebrale, ispessendola e facendola cominciare a ondularsi in circonvoluzioni primordiali. Si presenta quindi come un ottimo candidato per il ruolo di “promotore” della nostra crescita cerebrale. Non sarà stato l’unico, certamente, ma certo un protagonista di tale processo. Che non sarà stato l’unico lo sappiamo anche perché come sottoprodotto del lavoro sperimentale che ha portato a questo appassionante risultato c’è stata l’individuazione di una cinquantina di geni che esistono in noi ma non negli scimpanzé. Non tutti saranno attivi nel cervello e non tutti saranno importanti, ma c’è da aspettarsi per il prossimo futuro una vera e propria “cascata” di geni specificamente umani. Il laboratorio di Dresda ha collaborato con quello di Lipsia diretto da Svante Paabo, che “sa tutto” anche sui Neandertal, conferendo alla notizia un risalto tutto particolare. Una grande corteccia cerebrale da sola non garantisce niente per quanto riguarda le capacità intellettive del possessore, a queste non possono certamente essere eccelse in una corteccia cerebrale molto più piccola della nostra. Personalmente, sono molto curioso di vedere dove porta una storia del genere e sono sicuro che presto ne vedremo delle belle. Penso che anche Darwin vi si sarebbe interessato, visto l’enorme effetto che gli fece l’osservazione di Jenny, un orango femmina, allo Zoo di Londra nel marzo del 1838». Soprattutto perché la cosa mette scientificamente una volta in più in crisi gli assunti non scientifici di tutto il darwinismo…
Marco Respinti
Pubblicato con il medesimo titolo
sul sito de Il Timone, Milano 02-03-2015
Come titola Le Scienze, due fisici italiani hanno appena compiuto Un passo avanti nella spiegazione dell’origine della vita. Franz Saija e Antonino Marco Saitta ‒ il primo ricercatore dell’Istituto per i processi chimico-fisici del Consiglio nazionale delle ricerche di Messina, il secondo professore di Fisica nell’Università Pierre et Marie Curie di Parigi ‒ hanno infatti riprodotto al computer, e quindi confermato, i celebri esperimenti con cui negli anni 1950 il biochimico statunitense Stanley L. Miller (1930-2007) dimostrò in laboratorio – così sintetizza la Repubblica − «la possibilità di formare spontaneamente gli aminoacidi, le molecole base della vita, sottoponendo a intense scariche elettriche le semplici molecole inorganiche presenti nel brodo primordiale così come ipotizzato già nel 1871 da Charles Darwin». Ma Miller non è mai affatto affatto a trarre la vita dalla materia inorganica.
I suoi esperimenti hanno solo prodotto una grande quantità di composti chimici, “fideisticamente” detti contenere presunti ed enigmatici “elementi prebiotici”, i quali però per “funzionare” dovevano comunque essere estratti e purificati in modo alquanto sofisticato (più parecchi altri materiali “inutili”). Mai cioè tutti e contemporaneamente quei classici 20 aminoacidi proteici che farebbero legittimamente parlare di “vita in laboratorio”. Il tutto con una resa bassissima (il 15% al massimo), che è come dire che l’esito principale di quei procedimenti è lo scarto. Insomma un flop, se l’obiettivo chiesto a Miller è creare dal nulla la vita in provetta spingendo l’inorganico a trasformarsi in organico, ma un grande successo se lo scopo è produrre minestroni chimici destinati alla pattumiera. Del resto, se uno scienziato avesse sul serio creato la vita dal niente, non sarebbe cambiato il mondo? O quanto meno lui non ci avrebbe vinto il Nobel?
L’idea base di Miller fu ricreare le condizioni dell’atmosfera terrestre delle origini così da provocare “come allora” la scintilla della vita e assistere in diretta oggi al processo. Nessuno però ha mai saputo né ancora sa quale sia stata la composizione dell’atmosfera terrestre delle origini. Quindi Miller la inventò, decidendo che l’atmosfera della Terra di “miliardi di anni fa” fosse simile a quella attuale di Giove: in massima parte ammoniaca, metano e idrogeno. Gli esiti dei suoi esperimenti dipesero dunque dalle arbitrarie premesse da cui egli partì all’inizio, dimostrando semplicemente la coerenza interna del suo modello teorico. La più famosa di quelle premesse arbitrarie è il «brodo primordiale», la fantasiosa e gigionesca espressione con cui negli anni 1920 il biochimico russo Aleksàndr I. Oparin (1894-1980), eroe “scientifico” dell’Unione Sovietica comunista, aveva battezzato quell’insieme variegato di sostanze carboniose che, interagendo con la famosa “atmosfera terrestre delle origini” grazie a radiazioni ultraviolette e fulmini, si sarebbe diluita negli oceani per poi casualmente formare le prime biomolecole in perfetta armonia con il materialismo dialettico marxista. Ipotesi analoga fu ideata contemporaneamente ma in modo indipendente dal biologo britannico John B.S. Haldane (1892-1964), altro comunista provetto che restò leninista anche dopo le delusioni provocategli da quella catastrofica “scienza” stalinista che Oparin appoggiava. Oparin non se lo filò nessuno finché il chimico e fisico statunitense Harold C. Urey (1893-1981) formulò un’ipotesi sulla formazione del sistema solare che andava d’accordo con il «brodo primordiale». Insieme a Urey (lui sì Premio Nobel ma per la scoperta del deuterio, un isotopo dell’idrogeno), Miller riprese quindi Oparin (e Haldane), e, osserva il biologo Enzo Pennetta, «costruì un’apparecchiatura e la fece funzionare per studiarne i risultati». Ciò che dimostrano gli esperimenti di Miller e Urey è che i loro esiti sono coerenti con le premesse poste dagli stessi Miller e Urey, coerenti con l’ipotesi di Oparin (e di Haldane), coerenti… con l’ideologia marxista-leninista…
Oggi quel che si dice abbia fatto (e però non è vero) Miller porta il nome, “elegante”, di “abiogenesi”, ma è solo l’antica superstizione (un bel po’ panteista) della “generazione spontanea” della vita da ciò che vita non è, in virtù di un principio “magico” insito nelle pieghe della materia sterile. Questa superstizione, però, diffusa nel pensiero scientista moderno in ripresa degli aspetti più “misteriosofici” e decadenti del pensiero pagano, è stata da tempo rigorosamente confutata a norma di metodo scientifico galileiano dal medico toscano Francesco Redi (1626-1697), dal biologo emiliano Lazzaro Spallanzani (1729-1799) e dal biologo francese Louis Pasteur (1822-1895), tutti buoni cattolici e tutti scienziati autentici, il secondo persino padre gesuita.
Torniamo allora ai due ricercatori italiani. Ciò che la loro riproduzione al computer degli esperimenti di Miller ottiene è, dice Le Scienze, identificare «nell’intensità dei campi elettrici presenti nell’ambiente il fattore chiave che indirizza le reazioni chimiche a produrre particolari molecole complesse invece di altre». Cioè appurare che le scariche elettriche simulate dal loro computer per imitare gli esperimenti di Miller fanno quello che i fulmini simulati da Miller fanno nei suoi esperimenti. L’ennesima constatazione della coerenza interna tra gli esiti di un certo procedimento e le sue iniziali premesse arbitrarie, a loro volta coerenti con premesse arbitrarie precedenti. Giusto per non dire tautologia. Perché, commenta Pennetta, si sa che «i modelli computerizzati possono dare i risultati più disparati in base ai parametri che vengono inseriti». E così l’unico criterio di verifica ammesso dalla scienza, la realtà sperimentale, si allontana drammaticamente sempre di più,
Marco Respinti
Versione originale e completa dell’articolo pubblicato
con il titolo Non muore il sogno della creazione senza Dio
in La nuova Bussola Quotidiana, Milano 14-09-2014
- Louis Pasteur (1822-1895)
- Francesco Redi (1626-1697)
- Lazzaro Spallanzani, S.I. (1729-1799)
Da noi lo conoscono quattro gatti, “addetti ai lavori” compresi. Ma Pyiush Jindal, per tutti oramai “Bobby”, è uno degli uomini politici più influenti e significativi degli Stati Uniti, un vero e proprio astro nascente. Nato nel 1971 a Baton Rouge, Louisiana, viene da una famiglia indiana (come rivela il suo nome), e pure induista. Dal 2008 è il 55° governatore dello Stato federato della Louisiana, che è e resta un luogo piuttosto atipico degli Stati Uniti.
Da giovane si è diplomato in Biologia alla Brown University, di Providence, nel Rhode Island (Ivy League, per intenderci), e in Scienze Politiche al New College della prestigiosa università inglese di Oxford. Ha lavorato nel settore del managment consulting per la McKinsey & Company di New York, poi nel suo Stato natio per il deputato Repubblicano Jim McCrery e dal 1996 per il governatore, sempre Repubblicano, diventando ministro della Salute della Louisiana e nel 1999 (28enne, il più giovane di sempre) presidente del suo sistema universitario. Poi è sbarcato a Washington, dove il presidente George W. Bush Jr. lo ha nominato nel 2001 primo consigliere del ministro federale della Salute. Insomma, il classico giovane brillante che, dall’India, bagna il naso a molti rampolli dell’alta società yankee. Un’altra simile lui è Nimrata Nikki Randhaw, meglio nota come Nikki Haley, figlia d’indiani sikh dell’India, governatrice del South Carolina dal 2011 sospinta dalle ali dei “Tea Party” e protetta da Sarah Palin.
Da quando è governatore della Louisiana (dopo aver mancato quella carica nel 2003 ed essere però stato eletto deputato federale a Washington nel 2004), Jindal si è fatto un nome e una fama. Quella di gran conservatore. Di avversario del presidente Barack Obama e della sua riforma sanitaria (che giudica cattiva sul piano economico e pessima su quello morale). Di fustigatore di certi compagni di partito, quello Repubblicano, troppo assopiti. E di paladino dei “princìpi non negoziabili”, come dimostra una delle rare testimonianze della sua azione politica disponibili in italiano, il discorso pronunciato in febbraio alla Ronald Reagan Foundation and Library di Simi Valley, in California.
Nemico dell’aborto e dei “matrimoni” omosessuali, difensore a spada tratta delle libertà costituzionali americane (dalla libertà religiosa al porto d’armi), favorevole allo sbarramento dell’immigrazione clandestina e fautore dell’insegnamento critico dell’evoluzionismo nelle scuole anche sulla base del cosiddetto intelligent design (un tema che negli Stati Uniti è caldo tanto da finire spesso nelle aule parlamentari e in quelle giudiziarie), Bobby Jindal è anche, anzi soprattutto cattolico. Nella Louisiana dove i cattolici sono la denominazione religiosa più vasta (1 milione e 300mila fedeli), ma i protestanti sono il 60% (contro il 28% dei cattolici), Jindal, il governatore, è un cattolico per conversione, esito di un «viaggio dall’induismo […] graduale e doloroso».
Lui stesso ne ha raccontato alcuni particolari in un articolo pubblicato il 31 luglio 1993 sul settimanale dei gesuiti americani America, articolo in cui si domanda se l’ecumenismo abbia forse reso irrilevante la missione e ovviamente rispondendo, da buon cattolico, no.
«Sono nato negli Stati Uniti subito dopo che i miei genitori arrivarono qui dall’India», scrive Jindal. «Sono stato allevato in una rigida cultura induista, tutte le settimane frequentavo i puja (cioè le cerimonie religiose induiste) e leggevo le scritture sacre dei Veda. […] Non mi venne mai l’idea di prendere in seria considerazione una religione diversa; essere induista era un aspetto della mia identità indiana». Poi «ho cominciato a leggere la Bibbia con l’intento di sbugiardare quella fede cristiana che stavo imparando sia ad ammirare sia a disprezzare». Ma le cose non vanno sempre come gli uomini le immaginano. «Non riesco a descrivere quel che ho provato quando ho letto per la prima volta il Nuovo Testamento. Mi vedevo descritto in molte delle parabole e mi sentivo come se la Bibbia fosse stata scritta appositamente per me. Dopo avere letto tutti i libri che potei trovare sull’accuratezza storica della Bibbia e del cristianesimo, mi convinsi che nei secoli la Scrittura era rimasta sempre la stessa e che il racconto della morte di Cristo aveva convertito migliaia di persone. Eppure la mia prospettiva restava intellettuale, non spirituale».
Ebbene, prosegue Jindal, «la mia inchiesta sul cristianesimo avrebbe potuto fermarsi a livello teorico, se non fosse stato per un cortometraggio in bianco e nero. Benché la sua rappresentazione della crocifissione fosse più cruda di quella descritta da molte altre pellicole di soggetto analogo, qualcosa di quel film mi colpì profondamente. Per la prima volta immaginai sul serio cosa significa che il Figlio di Dio sia stato umiliato e persino ucciso per amore di me. Anche se ancora non mi convinse della verità di nulla, quel film mi costrinse a domandarmi se i cristiani non avessero per caso ragione. Mi resi dunque conto che se le narrazioni evangeliche fossero state vere, che se Cristo fosse stato davvero il Figlio di Dio, allora sarei stato arrogante nel rifiutare Lui e nel mettere in dubbio il dono della salvezza».
Ci vollero «ancora un due anni buoni prima del mio battesimo nella Chiesa Cattolica», ma quando questo avvenne, ai tempi della Brown University, «la mia conversione fece infuriare i miei genitori, che ancora mi debbono perdonare del tutto. […] Si accusarono di essere stati dei cattivi educatori, accusarono me di essere un figlio cattivo e accusarono i cristiani di seminare la ribellione. […]. Non vedo l’ora che venga il giorno in cui i miei genitori comprendano, rispettino e possibilmente accettino la mia fede».
Non è comune che un uomo politico tanto in vista, forse persino già proiettato ai vertici della nazione americana, si confessi così; ma in America, in Louisiana, succede anche questo. «Ciò che mi ha spinto a convertirmi», conclude il governatore «è stato però il guadagno di una fede univoca, oggettivamente vera. Se il cristianesimo fosse soltanto una delle tante religioni tutte ugualmente valide, allora i sacrifici che ho fatto, inclusa la perdita della pace familiare, non avrebbero senso. Io stavo bene con la mia fede induista e praticavo un’intensa vita di preghiera; il vuoto l’ho percepito solo gradualmente e fu allora che mi misi a resistere strenuamente alla chiamata che Dio mi stava rivolgendo da dentro la Chiesa. Sono stati la Verità e l’Amore che alla fine mi hanno costretto ad accettare Cristo come il Signore. Gli disse Gesù: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”. (Gv 14:6). Il sacrificio redentore di Cristo aveva provato che Dio mi amava e che mi stava innalzando a Lui».
Poche settimane fa The Washignton Post, quotodiano liberal, gli ha chiesto di Papa Francesco e della su critica al capitalismo che ha indisposto molti americani e molti cattolici. «È favorevole?», ha domandato il giornale. «Certo», ha risposto il governatore. «Sono un Repubblicano conservatore favorevole al mercato libero. Ritengo che la crescita economica migliori le cose per la gente. Ma penso anche che abbiamo delle responsabilità verso gli ultimi… Le Chiese, il governo e le istituzioni no-profit hanno un ruolo da svolgere nell’aiutare i bisognosi anche quando l’economia è solida… Penso che il Papa abbia ragione nel sottolineare le responsabilità che ognuno ha nei confronti degli altri e nell’evidenziare che Cristo ha avuto alcune cose molto radicali da dire a questo proposito». Bobby Jindal, ecco l’uomo?
Marco Respinti
Pubblicato con il medesimo titolo
in La nuova Bussola Quotidiana, Milano 16-07-2014
Anatomia: che cos’è una scimmia antropomorfa?
Dice l’Enciclopedia Treccani (online: i poveri in Italia son sempre più poveri) che le scimmie antropomorfe sono quelle che «per aspetto esteriore e struttura anatomica si avvicinano molto all’uomo: sono Primati del sottordine Catarrine, famiglia dei Pongidi, privi di coda e di borse guanciali, senza callosità ischiatiche o appena rudimentali; faccia e dita prive di peli, arti anteriori assai più lunghi dei posteriori, denti canini ben sviluppati, placenta discoidale. Comprendono i generi: gibbone, gorilla, orango (o urango o rangutan), scimpanzé».
Perdonate la Treccani: i dettagli della sua tassonomia è un po’ in ritardo sull’ultimo grido della moda evoluzionista, ma il punto è cristallino.
Etologia: un orango può offendersi?
Dicesi “orango” una bestia appartenente a quell’ordine di mammiferi placentati del regno animale che è definito scientificamente Primates a far data dall’edizione del 1758 del Systema Naturae di Carlo Linneo (Carl Nilsson Linnaeus, nobilitato in Carl von Linné e latinizzato in Carolus Linnaeus, 1707-1778). I Primates così son detti poiché sono “i primi”, ovvero “i superiori” tra gli animali, i più sviluppati, i maggiormente evoluti. La tassonomia evoluzionista scientifica oggi vigente (su Wikipedia più aggiornata di quella che compare nell’Enciclopedia Treccani online, anche se sempre in ritardo rispetto all’ultimo grido della moda evoluzionista) suddivide i Primates, così come gli altri animali, in diversi taxa: Sottordini, Infraordini, Parvordini, Supefamiglie, Famiglie, Sottofamiglie, Tribù, Sottotribù, Infratribù, Generi, Sottogeneri, Specie, Sottospecie e Forme (qui la botanica usa invece Varietà), in un ampio e ramificato gioco tra scatole cinesi e matrioske. Tra le Famiglie dei Primates vi è quella degli Hominidae cui appunto appartiene, attraverso la Sottofamiglia delle Ponginae, il genere Pongo, cioè gli oranghi, divisi poi in Specie e Sottospecie, cari estinti compresi. La Famiglia Hominidae fu stabilita nel 1825 dal biologo, zoologo e botanico inglese John Edward Gray (1800-1875), che la fa risalire al Miocene inferiore, il Miocene tout court essendo la prima delle due epoche geologiche in cui si suddivide il Neogene, che è il secondo periodo dell’Era cenezoica, iniziato 23,03 milioni di anni fa e terminò 5,332 milioni di anni fa.
Dire dunque “sottospecie di orango” è affermazione scientifica corrispondente a reperto vivente di raffinata ricerca evoluzionista.
Genealogia: chi era tuo nonno?
Dicesi australopithecus un Genere della Famiglia Hominidae ritenuto appartenere alla linea da cui si è evoluto l’uomo. Il suo nome latino significa “scimmia meridionale”. Non ci sono prove empiriche del fatto che l’uomo derivi dalla scimmia se non nel nome che certi uomini hanno un dì arbitrariamente dato a posteriori a determinati reperti di palese natura scimmiesca ma asseriti come preumani. L’intenzione è tutto e la propaganda il suo profeta.
Anagrafe: chi è chi?
Lo scimpanzé comune, uno dei Primates più evoluti e prossimi al vertice Homo, viene in sede scientifica disinvoltamente definito “troglodita”: Pan troglodytes.
Un suo congiunto strettissimo fa di nome e cognome Pan paniscus: in società lo chiamano bonobo e si porta alquanto bene, ma il popolino lo chiama ancora scimpanzé nano. Nano e troglodita sono, dice la scienza, i parenti più prossimi dell’uomo, ma il biologo molecolare statunitense Morris Goodman (1925-2010) smentisce: sono tutte e tre specie del medesimo Genere Homo. La foto di famiglia goodmaniana ritrae tutti sotto le feste abbracciati con vestiti nuovi di zecca: l’Homo paniscus cioè il nano, l’Homo troglodytes e l’Homo sapiens.
L’attualisismo e scottantissimo tema dell’economia dei derivati: l’uomo deriva dalla scimmia?
Sì. L’eminente storico inglese Edward Gibbon (1737-1794), arcinemico della Chiesa Cattolica, cela nel cognome un nesso fondante con la Famiglia Hylobatida cui appartengono i vari Generi di gibboni.
Cronologia: è nato prima l’uomo o la scimmia?
La scienza attuale si dibatte fra chi afferma che le Famiglie delle scimmie si sono evolute nel genere umano e chi afferma che le scimmie sono umane già da milioni di anni. Talune suonano l’organetto, talaltre sono governanti (oops, c’è già uno che si è offeso perché pensa che gli sia appena stato dato del badante).
Arringa immaginaria sul vicepresidente
del Senato, Calderoli Roberto, colpevole di dire semplicemente quello che tutti pensano sia vero. Ovvero di professare in pubblico la fede darwinista che quotidianamente insegniamo
ai nostri figli delle nostre scuole pagate
con le nostre tasse. Su l’intraprendente.
Oggi è il Mendel Day, il primo di quella che gli organizzatori si augurano essere una serie lunga e proficua di colloqui pubblici dedicati alla questione più spinosa della scienza contemporanea: l’evoluzionismo. Sì, perché la domanda sull’origine e sullo sviluppo della vita sulla Terra dovrebbe essere oggetto di ricerche e di osservazioni serie e asettiche, mentre invece è costantemente inficiata da considerazioni filosofiche che portano il discorso troppo oltre il seminato e da retro-pensieri persino di natura politica che tutto fanno tranne che giovare al confronto. Vale dunque la pena di provare a rimettere la barra un poco più diritta, nella speranza che la domanda delle domande, quella appunto sul “quando”, sul “come” e sul “dove” la vita abbia cominciato a germogliare sul nostro minuscolo e atipitico, oltre che fortunato, pianetino sperso nella Via Lattea smetta di farri capziosa per tornare a esser dignitosamente intrigante.
Oggi, dunque, a Verona, all’Istituto Alle Stimate di Via Carlo Montanari 1, a partire dalle ore 16,00 l’Associazione Amici di Mendel (www.mendelday.org) battezza la prima giornata mondiale dedicata al padre della genetica con un convegno animato dagli interventi di Francesco Agnoli, Umberto Fasol, Enzo Pennetta e Mario Gargantini.
Agnoli, scrittore e giornalista, si occupa da tempo del rapporto tra scienza e fede. Fasol, preside dell’Istituto che ospita il convegno, è biologo e docente di Scienze naturali nei licei. Pennetta, una laurea in Scienze naturali e una in Farmacia, ha recentemente pubblicato (con Agnoli) il libro Lazzaro Spallanzani e Gregor Mendel. Alle origini della biologia e della genetica (Cantagalli). E infine Gargantini, ingegnere elettronico e già docente di Fisica, opera da anni come divulgatore scientifico.
Perché Grego Johann Mendel (1822-1884)? Perché Mendel, giocando con piante e pianticelle nell’orto del monastero di San Tommaso dell’allora Brünn, oggi Brno, s’imbatté – lo ricordiamo tutti sin dalle elementari – nelle ferree leggi che presiedono la trasmissione dei caratteri ereditari tra i viventi. Senza volerlo. Per caso, scoprì che il caso non esiste. Che le informazioni fondamentali della vita si trasmettono di padre in figlio secondo un andamento regolare e prevedibile; che obbediscono a un disegno intelligente invece di turbinare a capocchia; che ciò che fa di un vivente un essere unico accanto a milioni di altri esseri unici, ma al contempo accomunati tutti da una familiarità evidente, risponde a un criterio oggettivo.
Mendel non lo sapeva; ci vorrà, nel 1953, la scoperta del DNA; ma i suoi incroci tra vegetali, operati mentre il mondo attorno non ne aveva la più pallida idea, inventarono nientemeno che la genetica, vale a dire quella frontiera dell’infinitamente piccolo dove il fascino del mistero regna sovrano e la curiosità sana del ricercatore affronta ogni giorno sfide nuove. La genetica è infatti il campo-base della vita, il luogo dove i suoi mattoni fondamentali si ordinano, prendono forma, costruiscono. Può essere l’abisso terribile delle sperimentazioni disumane, ma è sempre più bello pensarla come l’ambito dove l’uomo può essere prossimo all’uomo, curando malattie turpi, debellando sin dal principio virus e altre schifezze simili, svelando per contemplare la mappa meravigliosa della vita. Se non fosse stato per Mendel brancoleremmo ancora nel buio più pesto.
Johann Mendel, che quando si fece benedettino prese il nome di Gregor, quello con cui è passato alla storia, nacque da una famiglia contadina di lingua tedesca in territorio ceco. Lavorò come giardiniere, nel 1843 entrò in monastero, nel 1847 divenne prete e nel 1851 s’iscrisse all’Università di Vienna. Completati gli studi, tornò nel 1863 all’abbazia, insegnando Fisica, Matematica e Biologia. Un giorno prese dei piselli, ne selezionò 22 varietà differenti, si concentrò su 7 paia e incrociandole osservò che la prima generazione dava individui uniformi, mentre le successive mutazioni rispondevano a precise proporzioni matematiche.
Da allora la scienza non è più stata la stessa. La scuola evoluzionista, che per definizione non può fare a meno del caso, si è ripensata in quella “teoria sintetica” che rielabora il darwinismo a fronte della genetica, ma la questione è apertissima.
Da anni il 12 febbraio, data della nascita del padre dell’evoluzionismo, Charles Darwin (1809-1882), si celebra il Darwin Day. Dal 2003, grazie soprattutto all’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalistici, lo si fa anche in Italia. Il Mendel Day non è la contro-risposta. È la giornata del ricordo di un grande e rigorosissimo uomo di scienza, oltre che di fede, alla cui lezione si deve tornare tutti. Perché l’auspicio è che scompaiano presto tutti i Darwin Day e tutti i Mendel Day per lasciare spazio a tavoli di lavoro benemeritamente bipartisan, non-profit e value-free. Quel giorno la scienza riprenderà finalmente a studiare con meraviglia la realtà invece di contemplarsi compiaciuta l’ombelico.
Versione originale e completa dell’articolo pubblicato
con il medesimo titolo in Libero quotidiano [Libero]
anno XLVIII, n. 43, Milano, 20-02-2013, p. 28
Il mio articolo sugli strali lanciati dall’epistemologo neodarwinista contro l’esperto di biologia antievoluzionista Enzo Pennetta, uscito su Libero il 16 gennaio 2013, è stato ripubblicato il medesimo giorno
– sul sito di Francesco Agnoli, Libertà e Persona
– sul sito di Enzo Pennetta, Critica scientifica
Telmo Pievani, autore di celebri libri e firma di Micromega, è il testimonial più laccato che il darwinismo conosca. Sul suo blog Pikaia, sottotitolato pomposamente “il portale dell’evoluzione”, pubblica ben 12 pagine di Lettera a un insegnante antidarwiniano impaginata in pdf, con i «wow» e le note. Da sbadigliare. Lui invece si annoia per le domande. In specie quelle serie, già poste al “rottweiler di Darwin”, Richard Dawkins, e da allora sempre senza risposte: è possibile conoscere un esempio di mutazione genetica “positiva”, o di processo evolutivo in cui si possa vedere un incremento d’informazioni nel genoma, o la nascita di una nuova specie? No, non è possibile; ed è qui che il darwinista inciampa: nelle consegne rigorose di cui il metodo scientifico pretende il rispetto. Pievani, invece, che è un filosofo, se la cava da sofista dicendo che la domanda non ha senso. Ma allora perché prendersela tanto con «un insegnante antidarwiniano»?
Nemico pubblico
Ora, l’«insegnante antidarwiniano» ha però un nome, un cognome e un pedigree. Enzo Pennetta, esperto di biologia, due lauree a La Sapienza di Roma, l’una in Scienze naturali e l’altra in Farmacia, e sul tema due libri per la senese Cantagalli, Inchiesta sul darwinismo (2011) e, con Francesco Agnoli, il nuovissimo Lazzaro Spallanzani e Gregor Mendel alle origini della Biologia e della Genetica. Per Pievani «si definisce docente di scienze naturali in una scuola riconosciuta dallo Stato», il Liceo paritario della Fondazione Cristo Re di Roma, ma è lo Stato italiano che lo definisce così, avendogli regolarmente conferito l’abilitazione all’insegnamento.
A Libero Pennetta anticipa la risposta che spedirà a Pievani: «Non ho mai detto che non insegno la teoria darwiniana; anzi, la insegno bene: infatti solo così i suoi difetti diventano evidenti». Ma allora perché Pievani ce l’ha tanto con lui? «Io critico il neodarwinismo su basi scientifiche», dice l’esperto di biologia. «Del neodarwinismo Pievani è il massimo esponente italiano. Logico che si senta chiamato in causa. Ma il motivo vero per cui s’inalbera è che io mostro il collegamento tra darwinismo e politica eugenetica, razziale e malthusiana, link imbarazzanti che Pievani e soci nascondono. Ma bando alle polemiche. Invito Pievani a un confronto pubblico. Ci sta?».
Vedremo. Intanto non perdetevi la vera perla di tutta l’enciclica pievana, cioè la chiusa: «Dopo questa lettera, se compariranno altri insulti, altre insinuazioni o altri travisamenti intenzionali del mio pensiero non sarò più io a rispondere ma i miei legali». Insiste Pievani: «Può la libertà di insegnamento spingersi fino a tollerare che i nostri studenti siano esposti a tesi di questo tipo in una scuola regolarmente riconosciuta dallo Stato italiano?». Accipicchia.
La “trasparenza”
Il filosofo invita i suoi lettori a «mandarci segnalazioni su come si insegnano le scienze naturali, e in particolare l’evoluzione, nelle scuole private paritarie di questo paese. Gli Istituti confessionali, se riconosciuti dallo Stato italiano, sono tenuti a rispettare i programmi ministeriali. Confidiamo che facciano tutti un egregio lavoro, ma è pur sempre bene verificarlo con la massima trasparenza». Siamo alla polizia politica per il reato di pensiero libero e lesa maestà darwiniana?
Pubblicato con il medesimo titolo
in Libero quotidiano [Libero], anno XLVIII, n. 13, Milano 16-01-2013, p. 32
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