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Un’équipe di cinque specialisti, quatto cinesi e uno inglese, ha compiuto una scoperta clamorosa. Nelle rocce sedimentarie della provincia di Shaanxi, nella Cina centrale, hanno rivenuto una quarantina di fossili di un esserino di un millimetro la cui forma a sacchetto e la spropositata bocca “coronata” funzionante anche da ano gli ha guadagnato il nome scientifico Saccorhytus coronarius. Visse circa 540 milioni di anni fa, al tempo dell’“esplosione” della vita nel periodo Cambriano e appartiene al superphylum dei Deuterostomia, una delle categorie biologiche fondamentali con cui viene descritto il regno animale.
Il rapporto scientifico del ritrovamento è stato sottoposto al periodico specializzato Nature a metà di agosto, ha superato la peer review in dicembre e il 30 gennaio è stato pubblicato, rimbalzando immediatamente sulla stampa. Come mai? Perché la scoperta è sensazionale: dai Deuterostomia si sono infatti sviluppati, dicono gli studiosi, tutti i vertebrati; tra i vertebrati c’è anche l’uomo; essendo il Saccorhytus cinese il più antico di tutti, è quindi partendo da questo microrganismo senz’ano che si è giunti a san Tomaso d’Aquino, Albert Einstein e Belén Rodriguez. In esso si è infatti «identificato il più antico progenitore dell’uomo», come ha lanciato l’agenzia ANSA e come ugualmente hanno sparato la Reuters, The Guardian, The New Scientist, Wired, la Repubblica, Forbes, TGR Leonardo, il Post, Focus e così via. In italiano c’è già persino una voce di Wikipedia.

Una ricostruzione del “Saccorhytus coronarius” basata sui ritrovamenti fosili originali e realizzata il 30 gennaio 2017. Courtesy Illustration by Jian Han/Handout via REUTERS
Perché gli scienziati dicono un’enormità del genere? Perché l’hanno letta in Charles Darwin, stupefatto perché al principio vi furono «[..] poche forme» di vita o anche «[…] una sola» e poi «[…] si svilupparono da un principio tanto semplice e ancora si sviluppano infinite forme sempre più belle e meravigliose». È l’ultima frase del celeberrimo On the origin of species by means of natural selection, or the preservation of favoured races in the struggle for life, ovvero L’origine delle specie, frase immutata in tutte le sei edizioni rivedute che il suo autore pubblicò dal 1859 al 1876. Ma è un trucco. L’assunto iniziale è infatti solo una ipotesi. Che il Saccorhytus coronarius, o chi per esso, sia l’antenato di tutti i vertebrati e quindi anche di un vertebrato come l’uomo è vero solo se è vera l’ipotesi evoluzionista in base alla quale le specie viventi nuove sono modificazioni genetiche dalle antiche lungo un albero filogenetico che si ramifica da un antenato comune. Questo è però proprio ciò che non mai stato dimostrato. Darwin lo dice, ma non ve n’è prova. Non un passaggio evolutivo, non uno snodo, non un anello di congiunzione è stato attestato a norma di metodo scientifico. Nessuna traccia fossile esiste di “esseri intermedi” o di organi in trasformazione. Anzi, i fossili restituiscono solo resti interi o parziali di individui perfettamente compiuti senz’alcun gradualismo.
Uno degli scopritori del Saccorhytus è il celebre paleontologo di Cambridge Simon Conway Morris, un “concordista” che cerca di cristianizzare l’evoluzionismo come del resto faceva all’inizio lo stesso Darwin salvo poi perdere completamente la fede a causa delle sue infondate supposizioni biologiche, come si evince chiaramente dalla sua autobiografia, The Autobiography of Charles Darwin 1809-1882. With the original omissions restored. Edited and with appendix and notes by his granddaughter Nora Barlow (Collins, Londra 1958). Dice Conway Morris: «È difficile ovviamente tracciare una precisa linea di discendenza tra noi uomini e il Saccorhytus coronarius, tuttavia non c’è dubbio che possiamo realmente considerarlo un nostro antichissimo antenato»: «è difficile» significa impossibile, ma «non c’è dubbio» perché… «non c’è dubbio».
Anzi, lo stesso concetto di “esplosione del Cambriano”, implicante la comparsa improvvisa e strutturata della vita senza progenitori, imbarazzantissimo per l’evoluzionismo, può essere del tutto archiviato. Come? Affermando che anche prima del Cambriano c’era vita e così finalmente risolvendo l’annoso «dilemma di Darwin».
Ebbene, sull’ipotesi di vita precambriana infervora da tempo il dibattito. Mettiamo che certe tracce precambriane siano davvero vita o che certe tracce di vita siano davvero precambriane. Tutto sta però nelle definizioni. I fossili che si scoprono non hanno l’etichetta e lo stesso le suddivisioni della scala dei tempi terrestri. La nomenclatura tassonomica e geologica è coniata dagli studiosi in base a determinati parametri. Si tratta cioè di nomi arbitrari, scelti in base a certi elementi d’identificazione. Per esempio “Pitecantropo” significa letteralmente “uomo-scimmia”, ma non ha mai mostrato la carta d’identità: fu chiamato così poiché il suo scopritore, l’antropologo neerlandese Eugène Dubois (1858-1940), voleva fargli recitare una parte ben precisa. Infatti quei nomi mutano, scompaiono, vengono accorpati. Il “pitecantropo” oggi si chiama Homo erectus e il celeberrimo Quaternario di quando studiavamo da piccoli è oggi declassato e completamente riformulato. Così anche il Cambriano, che spacca in due la storia tra deserto e vita, è una convenzione. Chi si occupa di stabilire quando un periodo geologico inizia e finisce è la Commissione Internazionale di Stratigrafia, la quale discute e discute e discute fino a che non raggiunge un accordo sui criteri d’individuazione di un intervallo temporale: la presenza di fossili detti “guida” o di certe rocce. Ma è il contrario di una scienza esatta. La durata di un periodo può infatti variare a seconda del luogo geografico e i periodi si sovrappongo abbondantemente; l’individuazione di nuovi criteri più stringenti può rendere obsolete le definizioni e superate le suddivisioni; oppure specie viventi ritenute originarie di una data epoca possono rivelarsi più antiche. È un caso particolare e concretissimo del famoso giro mentale descritto dall’epistemologo statunitense Thomas Samuel Kuhn (1922-1996) ne La struttura delle rivoluzioni scientifiche, del 1962 (trad. it., Einaudi, Torino 2009): nuove scoperte generano nuovi paradigmi interpretativi.
Vale a dire: se prima del Cambriano vi erano esseri viventi, bisognerà rivedere il concetto di Cambriano o retrodatare l’esplosione della vita. Ma la questione resta: nel Cambriano o altrove, la vita è sorta senza derivare da altro. Potremo infatti sempre trovare fossili più vecchi di quelli che ora riteniamo i più antichi, ma il “fossile zero” che si trasforma nell’albero filogenetico manca all’appello. Finché mancherà, saremo sempre davanti all’esplosione della vita “dal nulla”, cambriana o no che sia. E finché mancheranno le prove empiriche della trasformazione delle specie viventi le une nelle altre, il Saccorhytus coronarius cinese non sarà affatto il progenitore dell’uomo. Non basta dargli un nome o un titolo di giornale per rendere scientifico l’evoluzionismo.
Marco Respinti
La nascita della vita sulla Terra, milioni e milioni di anni fa, è un mistero di gratuità e di bellezza che nessun meccanismo semplicemente naturalistico è in grado di spiegare.
Tutto l’essenziale si compie di fatto durante il Cambriano (tra circa 541 e 485 milioni di anni fa) e l’Ordoviciano (tra circa 485 e 444 milioni di anni fa), che sono il primo e il secondo periodo dell’era Paleozoica, la prima dell’eone Faneorozoico. L’immenso abisso della “notte dei tempi” precedente viene descritto sulla scala dei tempi geologici in tre eoni (Adeano, Archeano, Proterozoico) raggruppati nel superone Archeozoico detto anche Precambriano. Gli ordini di grandezza temporali sono enormi e incommensurabili: l’intero Precambriano misura infatti quattro miliardi di anni, laddove il Fanerozoico che inizia con il Cambriano e l’Ordoviciano “solo” mezzo miliardo. Come suggerisce chiaramente la nomenclatura, è il Cambriano il turning point decisivo che segna il “prima” e il “dopo”. Perché? Perché quello è il “momento” in cui la vita sorge “improvvisamente” in tutte le proprie varietà e magnificenza. In un tempo geologicamente assai limitato, compaiono cioè tutti gli attuali phyla (un phylum, un tempo detto “tipo”, definisce la classificazione di base di gruppi di animali estinti o attuali) forse a eccezione delle spugne. Prima invece non c’è praticamente alcunché; la natura di alcuni ritrovamenti che testimonierebbero l’esistenza di organismi pluricellulari prima del Cambriano è infatti molto dubbia e comunque ampiamente discussa. I phyla del Cambriano non sono insomma mutazioni di creature precedenti. Non hanno antenati, non hanno progenitori e non sono l’uno l’evoluzione dell’altro; sono semplicemente se stessi.
È quella che i biologi chiamano “esplosione” del Cambriano. Nell’Ordoviciano si verifica poi il secondo grande balzo: la vita si diffonde, quasi quadruplicando il numero di specie e di generi che pure si distribuiscono più globalmente. Dopo il “big bang”, la radiazione. I biologi parlano di Grande Evento di Biodiversificazione dell’Ordoviciano reso con la sigla G.O.B.E. (dalla dizione canonica inglese “Great Ordovician Biodiversification Event”). Un particolare rende peraltro la questione ancora più affascinante. Tra l’esplosione cambriana e la radiazione ordoviciana non c’è sviluppo lineare, ma catastrofe. Alla fine del Cambriano moltissime specie si estinguono, e lo stesso faranno altre alla fine dell’Ordoviciano, ma ciò che non si estingue sono i phyla, definiti una volta per tutte. Sono proprio i fossili a testimoniare che l’impianto della vita non muta e che i viventi non si evolvono saltando da un phylum all’altro.
Ebbene, il riduzionismo naturalistico cerca di spiegare la comparsa improvvisa della vita sulla Terra e la sua diffusione diversificata come l’effetto di condizioni ambientali particolari o il prodotto di eventi cosmici accidentali in grado di svelare che il presunto mistero è solo un meccanismo. Se in genere per l’esplosione cambriana si parla dunque di un fantasioso e indimostrato “brodo prebiotico” (nonostante le dimostrazioni scientifiche dell’impossibilità di generare la vita dalla non-vita), per la radiazione ordoviciana si tira in ballo la pioggia di meteore caduta sul nostro pianeta in seguito a uno scontro tra asteroidi che, alterando l’atmosfera e il clima, avrebbe modificato gli ecosistemi marini e quindi dato impulso alla grande varietà. La formulazione più compiuta di questa ipotesi è quella ultimamente offerta dal geologo svedese Birger Schmitz, apparentemente confermata da una serie di recenti conferme empiriche tanto importanti da portare a interessarsi dell’argomento anche un organo di comunicazione di massa come il quotidiano la Repubblica. Ma non è affatto così.
Sull’Ordoviciano piovvero sì meteoriti (come le ricerche di Schmitz hanno riscontrato), ma queste con la biodiversificazione non c’entrano. I frammenti della grande collisione cosmica caddero infatti sul nostro pianeta dopo la radiazione della vita, un paio di milioni di anni più tardi. A stabilirlo categoricamente sono i rilevamenti millimetrici effettuati da un équipe congiunta dell’Università svedese di Lund (la medesima di Schmitz) e dell’Università danese di Copenhagen guidata dal geologo Anders Lindskog, che, proprio citando la formulazione classica della teoria delle meteoriti del collega Schmitz, dimostra l’errore di valutazione dandone comunicazione su Nature, ripreso da Le Scienze.
Insomma, come sulla Terra sia esplosa e grandiosamente si sia diffusa la vita in tutta la sua varietà nessuno scienziato sa dirlo. Le ipotesi vengono formulate per essere smentite dalla ricerca. Per certo i fortunali cosmici non c’entrano e la bellezza del mistero permane.
Marco Respinti
È nato il primo batterio alieno. Possiede infatti un DNA a sei basi azotate anziché le quattro di tutti gli esseri viventi del mondo e della storia. Lo hanno prodotto artificialmente il biochimico statunitense Floyd E. Romesberg e i suoi colleghi nei laboratori dello Scripps Research Institute di La Jolla, in California: a riferirlo sono il periodico Le Scienze e Leonardo, il telegiornale della scienza e dell’ambiente della Testata Giornalistica Regionale della Rai in onda quotidianamente sul terzo canale (qui al minuto 5,05).
Romesberg e colleghi ci aveva provato già due anni fa, ne avevano dato notizia sull’autorevole periodico Nature, ma quei primi risultati, a coronamento di un ventennio di ricerche e tentativi, non erano soddisfacenti. Adesso invece il batterio alieno è una realtà. Funzionante.

Il batterio “Escherichia coli”: vive nel nostro intestino ed è chiamto “prostituta delle biotecnologie”
Gli scienziati sono intervenuti modificando il codice genetico di alcuni esemplari di Escherichia coli, il batterio che vive nell’intestino degli animali a sangue caldo, tra cui quindi anche l’uomo, svolgendo funzioni indispensabili per la digestione. Sperimentare su quel batterio è del resto da sempre un classico, tanto che gli operatori dell’ingegneria genetica lo definiscono la “prostituta delle biotecnologie”. Il biologo statunitense Richard Lenski, per esempio, conduce ininterrottamente dal 1988 esperimenti su di esso alla ricerca della conferma empirica del processo di speciazione per mutazioni genetiche postulato dall’evoluzionismo neodarwinista, ma tutto ciò che da decenni ottiene sono svantaggi correlati a eventuali vantaggi molto limitati, degrado del patrimonio cromosomico e impoverimento funzionale.
Ebbene, in tutti gli esseri viventi le istruzioni genetiche sono scritte attraverso quattro basi azotate che compongo i nucleotidi, le lunghe catene di molecole elementari che costituiscono i mattoni del DNA, le quali si accoppiano a due a due sempre allo stesso modo. Le quattro basi sono l’adenina, la citosina, la guanina e la timina indicate con le iniziali dei loro nomi: A, C, G e T. Nella famosa raffigurazione del DNA come una scala che si avvolge su stessa a mo’ di elica i due filamenti nucleotidici costituiscono la doppia catena “di supporto” e le basi azotate sono i “pioli” che le tengono assieme: l’adenina si accoppia sempre nello steso modo e solo con la timina e la citosina sempre nello stesso modo e solo con la guanina in miliardi di combinazioni che formano i geni, le unità ereditarie fondamentali dei viventi, le “cabine di regia” della vita, le “fabbriche” di proteine e di enzimi essenziali a tutti gli organismi.
Quel che Romesberg e i suoi colleghi hanno fatto nello Scripps Research Institute è stato intervenire in questo alfabeto, introducendo due lettere nuove: X e Y. Ovvero espandere artificialmente il DNA dell’Escherichia coli con l’inserzione di due basi azotate sintetiche, chiamate d5SICS e dNaM. Se però, per scrivere la vita, la natura si serve sempre e solo di A, C, G e T, allora il risultato ottenuto nei laboratori californiani non è un’altra Escherichia coli, bensì un vivente non attestato in natura: un vero e proprio alieno sulla Terra o – come dice la giornalista Silvia Rosa-Brusin a Leonardo ‒ «[…] una vita innaturale»: «[…] una creatura mai vista», che «[…] ha cambiato completamente il gioco».
Ora, questo esperimento corre certamente sulla falsariga dell’antico sogno dell’abiogenesi, vale a dire l’idea che la vita nasca per “generazione spontanea” dalla materia inerte grazie a proprietà intrinseche alla materia stessa catalizzate e innescate da particolari condizioni ambientali, dunque senz’alcun bisogno di agenti esteriori volitivi e senzienti, per esempio il Creatore. Ma l’abiogenesi è una superstizione tanto cara agli evoluzionisti quanto smentita definitivamente e a norma di metodo scientifico da scienziati veri del calibro del medico, naturalista e letterato toscano Francesco Redi (1626-1697), uno dei maggiori biologi di tutti i tempi, del biologo e gesuita emiliano Lazzaro Spallanzani (1729-1799) nonché del chimico e biologo francese Louis Pasteur (1822-1895), “padre” della microbiologia. Tra l’altro tre buoni cattolici. Né hanno potuto alcunché le ipotesi fantascientifiche sul “brodo primordiale” del biochimico sovietico Aleksàndr Ivanovič Oparin (1894-1980) o del biologo e genetista marxista inglese John B.S. Haldane (1892-1964). E di fatto a nulla sono valsi gli esperimenti non conclusivi del chimico e fisico statunitense Harold Clayton Urey (1893-1981) – Premio Nobel per la Chimica nel 1934 per la scoperta del deuterio –, e del chimico e biologo statunitense Stanley Lloyd Miller (1930-2007). La vita in laboratorio non è mai stata creata e l’alieno di Romesberg non ne è un esempio.
Il nuovo essere californiano è infatti solo la modificazione di un vivente già esistente, senza che questo dica alcunché sul mistero della vita in sé. In pratica è solo un OGM molto sofisticato, dice a La nuova Bussola Quotidiana il chimico Giulio Dante Guerra, Primo Ricercatore a riposo del Consiglio Nazionale delle Ricerche, Socio Onorario della Società Italiana dei Biomateriali. Appartiene al “sogno faustiano” cui Guerra dedica un capitolo intero del suo recente L’origine della vita. Il “caso” non spiega la realtà (D’Ettoris, Crotone 2016).
Del resto, come sottolineano i suoi “creatori”, il batterio alieno non può affatto vivere al di fuori dei laboratori. Legittimo allora domandarsi a che serva. Ed è qui che Guerra s’incupisce: «Quell’alieno non può vivere fuori dai laboratori per ora. Certo, forse non sarà mai in grado di farlo. Ma è un fatto che questo tipo di esperimenti apra la porta a sviluppi potenzialmente inquietanti. Il rischio, almeno teorico, è infatti che l’obiettivo finale di queste ricerche sia quello di ottenere l’“arma biologica assoluta”. Immaginiamo infatti cosa accadrebbe se certi “pseudo-batteri” o “para-virus” finissero nelle mani sbagliate…». La vita innaturale usata per cancellare la vita naturale?
Marco Respinti
La mela di Newton, estensione web dell’Almanacco della scienza di MicroMega, Telmo Pievani, responsabile entusiasticamente darwinista sia del blog sia dell’”Almanacco”, pubblica l’articolo La falena delle betulle sbaraglia i creazionisti. Il caso è quello, citato in ogni libro di testo, della falena punteggiata delle betulle, Biston betularia, in inglese peppered moth. Nel distretto industriale della Manchester ottocentesca si sarebbe scurita imitando le betulle imbrunite dalla fuliggine e dalle piogge acide causate dall’inquinamento della Rivoluzione Industriale onde continuare a nascondersi dai predatori. Per Pievani (che per tutto l’articolo si produce in una prosa inutilmente sardonica) è uno dei «[…] tantissimi esempi probanti un’evoluzione darwiniana in atto» e un «[…] archetipo della spiegazione darwiniana» per effetto di un articolo comparso sul numero datato 2 giugno della prestigiosa rivista Nature, a cui vanno certamente aggiunti un secondo articolo e l’editoriale “benedicente” che Pievani non cita. Pievani sunteggia il primo spiegando che un’équipe formata da otto specialisti dell’Istituto di Biologia integrativa dell’Università di Liverpool e uno del Wellcome Trust Sanger Institute di Hinxton, in Inghilterra, «[…] ha scoperto che la mutazione all’origine del melanismo industriale in Inghilterra consiste nell’inserzione di un grosso elemento trasponibile nel primo introne del gene cortex (preposto alla divisione cellulare, ma coinvolto anche nel mimetismo attraverso la sua azione sullo sviluppo delle ali delle falene)», un “gene saltatore” responsabile della novità adattativa. Ovvero: un pezzo del DNA che salta da una parte all’altra del genoma è finito dentro un certo gene influenzandone il comportamento.
Questa però non è affatto «evoluzione darwiniana in atto». Il rimescolamento delle informazioni genetiche esistenti in una specie è infatti cosa completamente diversa dalla comparsa dal nulla d’informazioni genetiche nuove. I due fenomeni sono noti come microevoluzione e macroevoluzione. La prima è la variabilità interna a una specie, la seconda la nascita di una specie completamente nuova per trasformazione sostanziale di una vecchia (speciazione). Li divide l’abisso che corre tra un fatto osservato e un’ipotesi mai provata.
Del resto le falene chiare e scure coesistono: non sono una specie trasformata in un’altra. Quella scura (carbonaria) non è un’altra falena; è la stessa falena chiara (typica) che sviluppa appieno una possibilità prima attuata in modo limitato: è detta “punteggiata” proprio perché il pigmento scuro c’è benché limitato ad aree specifiche (i puntini neri sulle ali). Il fenomeno è ben noto e si chiama polimorfismo. Ne sono responsabili gli alleli, le due o più forme alternative del medesimo gene che si trovano nella stessa posizione su ciascun cromosoma omologo. Controllano lo stesso carattere, ma possono portare a risultati quantitativamente o qualitativamente diversi: la Donax variabilis, un mollusco bivalve, esiste in varie forme diversamente colorate; le pantere nere sono solo giaguari e leopardi melanici. La ricerca della succitata équipe di scienziati ha dunque scoperto il “gene saltatore” che rende scure le falene. Chapeau. Ha scoperto anche la data del suo “salto” nel genotipo di quei lepidotteri, circa il 1819, molto prima (30 generazioni, stante che il ciclo riproduttivo delle falene si ripete ogni anno) dei primi rilevamenti di fenotipi scuri, verso il 1848, cioè prima anche di una presenza massiccia di fabbriche. Chapeau. Dunque la comparsa di una nuova specie per adattamento agli effetti dell’inquinamento non c’è e la mutazione mimetica per sopravvivere nemmeno (le falene non riposano sui tronchi degli alberi, ma sui ramosi frondosi più alti e gli uccelli le predano soprattutto in volo): per quale motivo si dovrebbe allora parlare di evoluzionismo?
Negli uomini accade la stessa cosa. La melanina, che dà la pigmentazione estesa a tutto il corpo degli africani subsahariani, è presente in tutti gli uomini; è quella che, stimolata dalla radiazione solare, è responsabile dell’abbronzatura estiva dei bianchi (l’assenza totale di melanina provoca infatti negli uomini l’albinismo, che ha caratteri paragonabili a quelli di una patologia). I neri sono geneticamente uguali ai bianchi ma la loro cute è più adatta alla vita in un preciso contesto. La pelle nera protegge dai melanomi, che sono mutazioni genetiche (patologiche come tutte le mutazioni genetiche) indotte dai raggi ultravioletti; motivo per cui d’esatte i bianchi si cospargono di protettivi solari.
Ogni presunta prova fornita dai neodarwinisti è insomma sempre e solo la constatazione di un caso di variabilità interna a una specie (microevoluzione), mai di speciazione dal nulla (macroevoluzione). Nessuno infatti mette oggi in dubbio la variabilità e la selezione naturale, nemmeno i più incalliti tra i creazionisti come dicono proprio i più incalliti tra i creazionisti (anche se si può legittimamente contestare la felicità dell’espressione). La selezione è osservabile: praticata dall’allevatore, dall’agricoltore o da un “attore” ecologico diverso. Ma è una scelta limitata entro un ambito dato, non la produzione dal niente di geni nuovi. Lo scrive l’équipe scientifica nell’articolo citato da Pievani: «le nostre scoperte colmano una sostanziale vuoto di conoscenza riguardo l’esempio-simbolo del cambiamento microevolutivo, aggiungendo un ulteriore livello di comprensione del meccanismo di adattamento in risposta alla selezione naturale». Nell’introduzione all’edizione del 1972 de L’origine delle specie di Darwin, lo zoologo evoluzionista inglese Leonard Harrison Matthews (1901-1986) ha scritto che gli esperimenti sulle falene «dimostrano meravigliosamente la selezione naturale […] in atto, ma non mostrano l’evoluzione in divenire; perché, per quanto le popolazioni possano variare nel numero di esemplari chiari, intermedi o scuri, tutte le falene rimangono, dall’inizio alla fine, Biston betularia». Niente evoluzionismo, il caso è archiviato da tempo; quella pubblicata da Nature è una bella storia che parla di altro.
Marco Respinti
Tempi duri per lo storione pallido. Vive esclusivamente nello Stato nordamericano del Missouri e l’Unione mondiale per la conservazione della natura dice che è in pericolo di estinzione a causa di una progettata diga sul fiume Yellowstone che impedirebbe al pesce di raggiungere le acque più adatte per lo sviluppo di uova e larve. Ne rimarrebbero in tutto solo 125 esemplari e anche questi rischiano di avere i giorni contati. Lo afferma The New York Times e l’agenzia ANSA lo riprende ricordando che la progettata diga è al centro di una lite tra agenzie governative – che vorrebbero costruirla salvaguardando comunque un canale di passaggio per i pesci – e le sigle ecologiste che hanno il dente avvelenato.
Ora, quale che sia la verità sulle sorti dello storione pallido del Missouri, questa notizia non esattamente travolgente ne contiene un’altra ben più seria che però gli organi di stampa buttano lì in modo tanto sfumato da sbiadirla. Lo storione pallido del Missouri – dice The New York Times e l’ANSA riprende – potrebbe non superare oggi una diga eppure è stato capace di sopravvivere ai formidabili dinosauri, che si sarebbero estinti quasi 66 milioni di anni fa. E non solo è sopravvissuto per quei milioni e milioni di anni, ma per quei milioni e milioni di anni non è cambiato di una sola squama.
Oltre allo Scaphirhynchus albus (questo il suo nome scientifico), classificato nel 1905, per quegli stessi milioni e milioni di anni non sono però cambiati nemmeno tutti gli altri suoi cugini storioni delle diverse specie sparse per il mondo (e un po’ tutte a rischio di estinzione). Anzi, tutti gli storioni del mondo non sono minimamente cambiati per un numero ancora maggiore di milioni e milioni di anni. Della famiglia Acipenseridae cui appartengono gli storioni, classificata nel 1831, le prime tracce fossili risalgono a un periodo indicato tra i 245 e i 208 milioni di anni fa: ebbene, da allora tutti gli storioni sono rimasti perfettamente invariati e i reperti fossili non presentano alcuna differenza rispetto agli esemplari odierni. Gli storioni sono nati storioni e storioni sono sempre rimasti nonostante quel che dice l’evoluzionismo. Non si sono trasformati, non hanno generato specie nuove e nemmeno si sono estinti.
È un fenomeno noto come “effetto Lazzaro”, forme arcaiche che si mostrano identiche a quelle odierne, animali preistorici ancora vivi oggi, specie che dovrebbero essere “morte” e invece “risuscitate”. Sono analoghi ai cosiddetti “fossili viventi”, animali che la logica evoluzionista vorrebbe estinti in ragione del loro “primitivismo” e che invece sono perfettamente attuali (in pratica le due espressioni sono sinonimi e infatti vengono usate in maniera interscambiabile). Per l’ipotesi evoluzionista, che sostiene la graduale trasformazione delle specie viventi le une dalle altre con scarto di quelle meno adatta alla vita, sono oltremodo imbarazzanti. È lo stesso Charles Darwin (1809-1882), il padre dell’evoluzionismo, a coniare l’espressione “fossile vivente” nel capitolo IV della prima edizione del suo arcinoto L’origine delle specie (1859): non sapendo infatti come cavarsela davanti all’evidenza di specie che per la sua ipotesi non dovrebbero esistere affatto ma che invece spavaldamente esistono, il naturalista inglese se la cava sbrigativamente definendole «forme anomale», anzi «aberranti», sopravvissute soltanto come eccezioni perché isolate dal resto del mondo in evoluzione.
Ma non è così. Perché a fare compagnia allo storione pallido del Missouri e ai suoli vecchissimi cugini in giro per il mondo ci sono centinaia di altre specie sia animali sia vegetali (ne ricordo diversi esempi nel mio Evoluzione. Dubbi e obiezioni). Anzi, se ne scoprono sempre di più. L’intero regno dei viventi pullula di “Lazzari” e di “fossili viventi” che ogni giorno, da milioni e milioni di anni, sfidano quell’ipotesi trasformista dell’evoluzionismo che ancora non riesce a produrre uno straccio di prova di sé. Il più celebre è il celacanto, un altro pesce, dato a lungo certamente per scomparso assieme ai dinosauri e invece ritrovato in due varianti, una al largo del Sudafrica, dove i pescatori lo conoscono da sempre, e l’altra in Indonesia, nientemeno che al banco del pesce in un mercato di Sulawesi nel 1997.
Marco Respinti
Versione completa e originale dell’articolo pubblicato con il titolo
Uno storione pallido sbugiarda Darwin (e l’evoluzione)
in La nuova Bussola Quotidiana, Monza (Milano) 13-08-2016
Mezzo secolo fa, il 20 giugno 1966, moriva il sacerdote cattolico che ha descritto la nascita dell’Universo secondo un modello in cui ciò che la scienza scopre non nega ciò che la fede afferma.
Georges Henry Joseph Eduard Lemaître nasce il 17 luglio 1894 a Charleroi, in Belgio, e lì compie studi classici nel Collegio del Sacro Cuore retto dai gesuiti. Dopo avere frequentato un anno propedeutico di Matematica nel Collegio Saint-Michel di Etterbeek, vicino a Bruxelles, nel 1911 è ammesso nell’Università Cattolica di Lovanio, all’École des Mines, la facoltà d’Ingegneria. Volontario nel primo conflitto mondiale, si guadagna la Croce di Guerra. Poi, nel 1919, torna agli studi, riorientandosi su Matematica e Fisica. Nello stesso anno consegue il baccellierato in Filosofia.
Ma in lui la vocazione sacerdotale cresce forte sin dall’età di 9 anni e può corrispondervi con pienezza una volta terminati gli studi universitari, come gli aveva domandato il padre. Nell’ottobre 1920 entra così nella Maison Saint-Rombaut, che nel Seminario di Malines accoglie le vocazioni adulte, e, grazie alla lungimiranza dei superiori, prosegue gli studi scientifici approfondendo la conoscenza dei princìpi della relatività. Nel 1922 vince una borsa di studio per l’estero con la memoria La physique d’Einstein e può studiare Astronomia nell’Università di Cambdrige.
In quello stesso 1922 aderisce alla Fraternità sacerdotale degli amici di Gesù, fondata dal cardinal Desiré-Félicien-François-Joseph Mercier (1851-1926), arcivescovo metropolita di Malines e figura significativa del neotomismo, che il 22 settembre 1923 lo ordina sacerdote.
Si perfeziona quindi all’Harvard College Observatory (1924-1925) e al Massachusetts Institute of Technology consegue il Ph.D. in Fisica. Nel 1925 rientra finalmente in Belgio per insegnare nella facoltà di Scienze della sua alma mater corsi di astronomia, meccanica quantistica, calcolo delle probabilità, storia e metodologia della matematica nonché teoria della relatività e questo fino al 1964, allorché un infarto lo ferma. Ripresosi, nel 1966 sviluppa però la leucemia, e nella notte tra il 19 e il 20 giugno muore. Nel 1960 Papa san Giovanni XXIII (1881-1963) lo aveva nominato “prelato domestico di Sua Santità” nonché presidente della Pontificia Accademia delle Scienze in sostituzione di Agostino Gemelli O.F.M. (1878-1959).
L’«atomo primitivo»
A quella che si rivelerà essere una delle intuizioni più importanti di tutta la storia dell’astronomia il sacerdote belga giunge dando alle equazioni sulla relatività generale formulate da Albert Einstein (1879-1955) una soluzione diversa da quella prevista dall’idea di un Universo eterno e statico allora in voga e di fatto più onnicomprensiva (stizzito, il celebre fisico introdurrà infatti una nuova variabile con un gesto che solo più tardi definirà come il maggiore errore della propria vita).
Nel saggio Un Univers homogène de masse constante et de rayon croissant rendant compte de la vitesse radiale des nébuleuses extra-galactiques, pubblicato nell’aprile 1927 negli Annales de la Société Scientifique de Bruxelles, don Lemaître ipotizza infatti che la velocità con cui le galassie si separano e allontanano l’una dall’altra – la cosiddetta velocità di recessione delle nebulose – sia la conseguenza diretta dell’Universo che si espande. È l’elaborazione di questo presupposto che porta ad affermare, certamente sul piano logico ma indubbiamente anche su quello fisico, che l’Universo debba avere un inizio: un punto di avvio che, postulato risalendo teoricamente a ritroso lungo il percorso descritto dal moto delle galassie, concentri tutta la materia di cui è fatto tutto l’Universo in uno stato di ordine perfetto opposto a quella descritto proprio dal moto di recessione. L’origine di tutto, insomma, in un’anticipazione clamorosa di quanto due anni dopo ri-scoprirà l’astrofisico statunitense Edwin Hubble (1889-1953) descrivendo empiricamente quella relazione tra distanza e velocità delle galassie che è passata alla storia appunto come “legge di Hubble”.
Il modello che don Lemaître propone – stimando pure in circa 10 miliardi di anni l’età dell’Universo – è quello dell’«atomo primitivo», la cui esplosione radioattiva molto violenta e di breve durata avrebbe dapprima rapidamente portato il raggio dell’Universo da un valore prossimo allo zero (nel punto di origine) all’estensione ipotizzata anche dal modello einsteiniano, poi avviato due fasi ulteriori ma più lente di espansione (noi stiamo vivendo l’ultima).
Lo scherno e la conferma
Per la maggior parte della comunità scientifica l’idea è però semplicemente inconcepibile. Lo stesso Einstein boccia pubblicamente il sacerdote nel 1927 e nel 1931 per via di quell’insopportabile (ai suoi occhi) “creazionismo” che la sua ipotesi veicolerebbe. Un ostracismo ancora più severo don Lemaître lo subisce peraltro dopo la Seconda guerra mondiale, quando l’astronomo inglese Fred Hoyle (1915-2001), ardente e ascoltato ripropositore dell’Universo statico, lo dileggia bollandone l’ipotesi come «Big Bang», il “grande botto” da cui, contro ogni plausibilità (dice Hoyle), sarebbero nati la materia e il tempo. Ma, come spesso accadde, proprio questa espressione canzonatoria ha fatto la fortuna di un modello intelligente di spiegazione della realtà capace di ridurre al silenzio gli avversari. Soprattutto da quando gli astronomi statunitensi Arno Penzias e Robert Woodrow Wilson, premi Nobel nel 1978, ne hanno trovato empiricamente i riscontri nel 1964 misurando la radiazione elettromagnetica di fondo presente nel cosmo come “eco” dell’esplosione lemaîtreana originaria.
Tomista rigoroso, animato da profonda devozione mariana, ispirato dal modello sacerdotale di san Giovanni Maria Vianney (1786-1859), don Lemaître si è sempre ben guardato dai facili “concordismi” con cui scienza e teologia si sovrappongono. A lui, presbitero e scienziato, bastava contemplare la sinfonia della verità.
Marco Respinti
Per approfondire
Francesco Agnoli e Andrea Bartelloni, Scienziati in tonaca.
Da Copernico, padre dell’eliocentrismo, a Lemaître, padre del Big Bang, La Fontana di Siloe, Torino 2013.
F. Agnoli, Creazione ed evoluzione dalla geologia alla cosmologia:
Stenone, Wallace e Lemaître, Cantagalli, Siena 2015.
Giorgio Lemaître, Il nostro sacerdozio, trad. it., Morcelliana, Brescia 1949.
L’evoluzionismo è la spiegazione della nascita e dello sviluppo della vita sulla Terra così come ipotizzato dal naturalista inglese Charles Darwin e in seguito elaborato attraverso la cosiddetta “Teoria sintetica”. Suoi perni centrali sono la “selezione naturale”, il “caso” e la necessità di tempi geologici enormemente lunghi. Ma nulla di tutto ciò è osservabile empiricamente: darwinismo e neodarwinismo si sottraggono dunque sistematicamente alla necessaria verifica a norma di metodo scientifico. Le affermazioni evoluzioniste sono peraltro lacunose e contraddittorie, e a volte persino truffaldine come nel caso di certi reperti tanto famosi quanto falsi. È un tema su cui si scatena la propaganda e infuria la battaglia culturale. Se infatti l’evoluzionismo radicale avesse ragione, Dio non servirebbe.
I Quaderni del Timone A38
© 2016 I.d.A. – Istituto di Apologetica, Via Benigno Crespi 30/2 2015 Milano
ISBN 978-88-97921-16-5
info@iltimone.org
INDICE
Introduzione
Capitolo I. Scienza e ipotesi evoluzionista
Il metodo scientifico
L’Illuminismo e Lamarck
Charles Darwin
Capitolo II. Darwinismo, genetica e neodarwinismo
Darwin sfratta il Creatore
Il monaco e l’eclisse
La conferma da Nobel
La controffensiva della “Teoria sintetica”
Capitolo III. L’origine della vita
Il falso mito della “generazione spontanea”
Il “brodo primordiale”
Gli esperimenti non conclusivi di Urey e di Miller
I fossili non sono una prova
Capitolo IV. La paleontologia obietta
I “fossili viventi”
L’“effetto Lazzaro”
L’esplosione della vita
Capitolo V. L’anello sempre mancante
Il pipistrello per avvocato
Rettili e uccelli
Piume e penne
Capitolo VI. L’Homo sapiens
L’uomo fra le bestie
Giocare a dadi con l’ignoto
Chi è l’uomo di Neanderthal?
L’uomo e la sua unicità
Conclusione
Bibliografia e sitografia
RECENSIONI:
Delia è una bellissima donna di 28mila anni. Stiamo parlando di uno dei più importanti ritrovamenti paleontologici del mondo, avvenuto in Italia nel 1991. Fu allora che nella grotta-santuario di Santa Maria di Agnano, sulle colline fuori Ostuni, in Puglia, l’équipe del professore Donato Coppola, docente nell’Università degli Studi Aldo Moro di Bari, scoprì una sepoltura unica: lo scheletro praticamente completo e in ottimo stato di una giovane donna incinta di otto mesi. Anche il piccolo scheletrino che stava nel suo ventre è quasi completo e in condizioni eccellenti. Oggi riposano entrambi, la madre accanto al figlio, al 15 di Via Cattedrale a Ostuni, cioè nell’ex monastero carmelitano di Santa Maria Maddalena dei Pazzi, annesso alla chiesa di San Vito Martire, che accoglie il Museo di Civiltà Preclassiche della Murgia Meridionale (Coppola ne è il direttore scientifico), una struttura che gestisce pure il Parco Archeologico e Naturalistico di Santa Maria di Agnano.
Nel Museo, Delia e il suo piccolo sono adagiati in una teca trasparente come le principesse buone delle fiabe. Quando li trovarono, la madre, reclina sul lato sinistro, le gambe rannicchiate e una mano sotto la guancia, pareva dormire. La mano destra la poggiava sul ventre, proteggendo e coccolando la creatura che era in lei. La loro famiglia li ha sepolti così, componendoli in quel gesto che Delia avrà compiuto d’istinto mille volte e che nel silenzio della tomba diventa un quadro indelebile. Per questo gli scienziati non se la sono sentita di perderlo per sempre, realizzando prima un calco che riproduce il ritrovamento esatto (le ossa dei due corpi non più rette da muscoli e fibre che si accatastano mescolandosi tra loro, con i monili e con la terra) e poi un vivido rendering tridimensionale di come potessero davvero essere quella mamma e quel suo pancione.
Affiancati nella teca mettono i brividi. Lei, probabilmente ventenne, alta, circa 1,70 mt., e il piccolo invece così minuscolo. Eppure sono uguali: il feto è solo un uomo in miniatura. Chi ne è rimasto profondamente colpito è il popolare conduttore televisivo Alberto Angela, che ne ha voluto parlare dettagliatamente nella puntata di Ulisse, il piacere della scoperta trasmessa sabato 10 ottobre su Rai3.
La storia della madre paleolitica lo ha affascinate tanto che in un post su Facebook ha scritto: «Non si riesce a nascondere una commozione intima davanti a questa mamma e il suo piccolo (o la sua piccola) che il destino ha unito nei millenni. Non si conoscono al mondo resti di una donna incinta così antica». E in un altro, commentando una fotografia dello scheletrino: «La ragazza è morta per cause sconosciute all’ottavo mese di gravidanza e i ricercatori hanno rinvenuto il suo piccolo ancora in grembo. La cosa che mi ha impressionato di più nel racconto della scoperta è che al momento di estrarre delicatamente le minuscole ossa del feto il prof. Coppola si è accorto che delle falangi della mano (non esposte nella teca) erano ancora a contatto con le orbite, segno che il piccolo aveva i “pugnetti” davanti agli occhi. Come non sentire un istintivo senso di protezione nei suoi confronti anche a 28 mila anni di distanza?».
Quante volte l’abbiamo sentita la storia dei piccoli che nel grembo materno fanno i “pugnetti”, si sfregano il viso, sbadigliano e pure si scansano se c’è un fastidio, un pericolo? Quante volte l’abbiamo sentita la storia dei bimbi che nel ventre materno provano dolore se dolore viene loro procurato? Come si fa a pensare che quello vivo nel ventre di una madre sia solo un grumo di cellule senza diritti che si può abortire a piacimento? Delia e il suo piccolo sono Homo sapiens, cioè uomini esattamente come noi; che grande insegnamento ci proviene da quei nonni paleolitici. Ma non è finita.
Nella tomba Delia portava dei bracciali e un copricapo, una specie di cuffia, fatti di centinaia di conchiglie. Cipree, ovvero quei gasteropodi piuttosto comuni che hanno forma globosa, lucida e porcellanacea, un’apertura longitudinale tra due labbra accentuate e un manto sovente maculato. Ricordando l’organo genitale femminile, per le culture arcaiche sono simbolo di maternità e quindi archetipo della vita. Lo stesso dicasi per l’ocra, di cui è intrisa la “cuffia” di Delia: il suo colore è rosso come il sangue, altro emblema della vita. Delia si chiama così perché Coppola, il suo scopritore, l’ha voluta chiamare come la moglie (da quando hanno divorziato la “madre antica” si chiama freddamente “Ostuni 1”, ma noi tiriamo diritto).
Quel copricapo ricorda quello di una famosa statuetta, la Venere di Willendorf (oggi nel Museo di storia naturale di Vienna), che ha più o meno l’età di Delia. A statuette così si è voluto far dire di tutto: la Dea Madre, il matriarcato originario e il sacro femminino in un pot-pourri di parole in libertà che dall’archeologia seria passano con nonchalance al trash più ridicolo. Invece quelle micro-virago con seni esagerati, ventri gonfi e steatopigia spavalda sono state scolpite da ignoti Botero preistorici “solo” per celebrare il culto e il rito della femminilità generosa, della maternità esuberante e della vita prorompente (quindi delle nozze feconde e della famiglia). Il primo segno attraverso cui si mostra (cioè si comunica e si trasmette) la peculiarità dell’Homo sapiens è la relazione simbolica, un atto di carattere spirituale che l’arte manifesta e che la religione (religio come “legame” ovvero ancora “simbolo”) costituisce. Che fa, cioè, l’uomo appena viene al mondo, all’alba dei tempi oppure oggi? Disegna, colora, scolpisce, incide e poi scrive (che è un altro modo di disegnare) per dire ai suoi contemporanei (orizzontalmente) e ai posteri (verticalmente) ciò che merita di essere detto. Testimonia, insomma, il grande mistero che lo circonda, lo affascina e lo costituisce. Uomini che pregano, madri gravide e scene sociali di carattere propiziatorio oppure apotropaico sono la prima forma di comunicazione umana, l’arte dell’Homo sapiens. Gesti sacrali, sacri, religiosi.
Cosa ci fanno le conchiglie vulvari della nascita e l’ocra sanguigna della vita là nel buio della morte di Delia e del suo piccolo? Dicono, anzitutto a Delia e al suo piccolo, poi a tutti (dal suo clan di 28mila anni fa fino a noi nell’anno del Signore 2015) che la vita continua dopo la morte, addirittura che c’è la promessa di una nuova nascita oltre il sepolcro. Anche per i bimbi morti ancora nel grembo della madre. L’umanità della vita che sta nel ventre materno e la speranza “a tentoni” della risurrezione sono cose antiche quanto l’uomo, che l’uomo si porta dentro ‒ appunto ‒ le ossa perché così l’uomo è stato costituito da chi lo ha costituito. Per questo Delia non ha paura e, serena, conforta il suo piccolino. È il secondo grande insegnamento che ci viene da quella famiglia di quasi 300 secoli fa. La grotta di Santa Maria d’Agnano è stata un luogo di sepoltura e di preghiera dal paleolitico sino al Medioevo cristiano, quando divenne una chiesa rupestre. Dei molti affreschi che un tempo l’adornavano, ne è rimasto solo uno. Quello cinquecentesco della Vergine Maria che stringe in braccio Gesù bambino, contornati dagli angeli e adorati da un orante in ginocchio. Delia e il suo piccino dormivano lì.
Marco Respinti
Versione completa e originale dell’articolo pubblicato con il medesimo titolo
in La nuova Bussola Quotidiana, Milano 15-10-2015
A Hollywood c’è un eroe conservatore che riesce a sbancare il box office ogni volta che sforna un capolavoro, e in quella palude liberal non è mica roba da poco. Si chiama Christopher Nolan, è nato a Londra nel 1970, ha doppia cittadinanza britannica e statunitense, e il suo nome è legato a memorabilia come Memento (2000), Insomnia (2002), The Prestige (2006), la trilogia-reboot di Batman (2005, 2008, 2012), Inception (2010) e Interstellar (2014). Il suo terzo (e ultimo) Batman, Il cavaliere oscuro. Il ritorno (The Dark Knight Rises), è un’allegoria della Rivoluzione Francese da Oscar del pensiero reazionario e il suo ultimo parto, il distopico Interstellar, è la difesa morale dei valori della civiltà Occidentale: l’uomo è un essere unico, non è un prodotto casuale dell’evoluzione, non è il problema ma la soluzione ai mali del mondo e la storia del Dio cristiano che dà il proprio figlio per riscattare l’umanità (il film lo sussurra morbidamente ma distinguibilmente) conquista ancora i cuori e le menti. Insomma, Nolan «è (diventato) un conservatore nel senso di chi si e dato il compito di ristrutturare il cinema hollywoodiano nella sua grandiosità mitopoietica». Una definizione icastica che, scomodando elegantemente portenti come la magia, i sogni, il sacrificio, il doppio, il tempo, la memoria, il labirinto, la paura, l’orrore, il rapporto padre-figlio e i segreti dell’universo (l’amore manca apposta per eccesso d’inflazione), sunteggia alla perfezione il libro-quadro Christopher Nolan. Il tempo, la maschera, il labirinto (prefazione di Roy Menarini, Bietti, Milano 2015, pp. 290, euro 17,00) con cui Massimo Zanichelli già evoca l’empireo degli Alfred Hitchcock, dei Fritz Lang e dei Douglas Sirk («in fondo Hollywood è sempre stata intuita al meglio dagli stranieri») per restituirci la rotondità di un personaggio e l’opera di un cineasta che a soli 45 anni è già un classico.
Ogni volta che entra in sala, e che buca il grande schermo, il regista anglo-americano fa sobbalzare il pubblico sulla poltroncina, spesso scatenando polemiche anche accese. A pennello gli calza quel che J.R.R. Tolkien disse de Il Signore degli Anelli, o esclami wow! o vomiti un bleah!, e Zanichelli ne illustra magnificamente il perché e il percome (motivo per cui gli va perdonato anche lo svarione di definire “neoconservatori” i “Tea Party” americani…).
Perché l’opera di Nolan sia superlativa Zanichelli la spiega richiamando i fantasmi dell’inconscio e della morale che sono la trama d’Insomnia per raccontarci del sonno della ragione e delle false veglie del razionalismo in cui resta fortunatamente la profondità della coscienza a vigilare, allegoria nobile e monito costante della condizione umana al suo meglio. Esattamente come nel momento della lotta suprema contro il nichilismo dei Ra’s al Ghul, dei Joker e dei Bane in cui i personaggi di Batman e di Jim Gordon si sublimano divenendo la medesima persona in un tourbillon di emozioni: l’amicizia, la giustizia, il dono di sé, il martirio, la carità (il caso Harvey Dent). Ed eccola dunque ancora una volta qui, palese, imponente, la cifra autenticamente conservatrice di un moderno racconteur di metafore che sono più vere della cronaca quotidiana. Il libro di Zanichelli (legato al regista anche da ragioni biografiche) è già un meritato premio alla carriera tutta in fieri di Nolan, e il suo pregio maggiore è quello di farci intuire che con tutta probabilità il meglio lo dobbiamo ancora vedere. Al cinema.
Marco Respinti
È la notizia del giorno, battuta lunedì pomeriggio in simultanea da tutti gli organi di stampa. Sul pianeta Marte c’è acqua allo stato liquido ha detto la NASA in un’attesissima conferenza stampa. La prova arriva dal satellite statunitense Mars Reconnaissance Orbiter. E qui scatta subito il meccanismo pavloviano: se su Marte c’è acqua, allora vuol dire che su Marte c’è vita. O c’è stata, o ci sarà. Ma non è per nulla così facile. A dirlo molto bene è l’astrofisico dell’Accademia dei Lincei Giovanni Bignami, intervistato da La Stampa.
Alla domanda «Abbiamo veramente scoperto l’acqua su Marte?» postagli dal giornalista Enrico Forzinetti, lo specialista risponde: «In verità no, è stata osservata la sicura presenza di sali idrati, tracce di colate che ci dicono che deve essere scorsa dell’acqua liquida nella quale erano presenti sali. È importane sottolineare come l’acqua possa risalire solo al passato perché su Marte, con un’atmosfera così sottile e a quelle temperature, non può esistere acqua liquida. Al massimo può esistere per pochi minuti dato che evapora poco dopo. Comunque l’osservazione fatta si tratta di un’eccellente conferma di quanto già trovato in passato. Non so se definirla una grande scoperta».
Tra l’altro la scoperta non è una novità, come dice ancora Bignami: «Noi sapevamo già dell’esistenza di una quantità consistente di acqua in profondità grazie a dei radar speciali che hanno rilevato diversi strati di ghiaccio. La novità sta nel fatto che non avevamo mai osservato così bene dei sali idrati sulla superficie. È stata fatta un’analisi dettagliata dei sali che sono una sorta di firma della presenza di acqua salata. In passato avevamo solo un’evidenza delle colate di questi sali, ora abbiamo una misura dettagliata».
Ma ovviamente è la questione della vita quella che importa. Così, quando l’intervistatore gli domanda: «C’è vita su Marte?», l’astrofisico replica: «Di sicuro l’osservazione di acqua salata ne aumenta la possibilità. Prendendo come esempio il deserto Atacama in Cile, simile a Marte per aridità, lì si trovano comunità di colonie di microbi alofili. Una forma analoga di vita elementare potrebbe esistere anche su Marte».
I sostantivi e i verbi sono fondamentali. I secondi sono correttamente al condizionale («potrebbe esistere»), i primi parlano di possibilità. A livello teorico, cioè, la presenza di acqua salata, dice lo scienziato, non contraddice il fatto che, in tesi, la vita possa esserci. Anzi. Ma in concreto tra possibilità e probabilità c’è un abisso. L’acqua è infatti necessaria alla vita, ma non è sufficiente. Non è detto che se su un pianeta vi è acqua, automaticamente vi è allora anche vita. Per innescare il meccanismo della vita serve altro. E che cosa serva a generare la vita è ancora un mistero fitto per la scienza, la quale può al massimo elencare altre condizioni necessarie alla vita, ma nessuna di loro sufficiente.
L’esempio importante citato da Bignami del deserto di Acama in Cile, simile a Marte per aridità, lo dice benissimo. Sul pianeta Terra c’è vita in abbondanza e così anche nelle condizioni estreme del deserto cileno di Acama la vita trova il modo di attecchire. Ma non è che siccome su Marte sono ipotizzabili condizioni estreme simili a quelle che si verificano concretamente in una nicchia bioambientale terrestre allora si possa desumere che su Marte la vita c’è, c’è stata o ci sarà. Nessuna condizione favorevole alla vita genera di per sé la vita. La vita, che per esistere ha bisogno di acqua e di altre cose sia sulla Terra sia su Marte, resta un grande mistero. Sulla Terra c’è, mentre su Marte fa acqua.
Marco Respinti
Pubblicato con il medesimo titolo
sul sito Internet de Il Timone, Milano 29-09-2015
Il noto genetista Edoardo Boncinelli scrive, sul Corriere della Sera, che «tra noi e le scimmie anche più evolute e capaci c’è un’enorme differenza, in diverse caratteristiche biologiche ma soprattutto nel cervello. Noi possediamo una corteccia cerebrale molto più estesa e probabilmente meglio connessa. Questo secondo punto è ancora molto difficile da esplorare, ma in quanto alle dimensioni le differenze sono indubbie. Che cosa ha fatto crescere enormemente la nostra corteccia cerebrale? Non si sa, ma si deve trattare di un certo numero di geni dello sviluppo e della loro azione. Uno di questi, denominato ARHGAP11B, è certamente coinvolto in questo processo, come dimostrato in un lavoro che esce oggi sulla rivista Science, condotto da Marta Florio e collaboratori nel laboratorio di Dresda di Wieland Huttner. Questo gene non esiste nel genoma delle scimmie antropomorfe, mentre è presente in noi e nei nostri cugini Neandertal. Ha fatto la sua comparsa cioè nella linea evolutiva che porta all’uomo dopo la sua separazione da quella delle attuali scimmie antropomorfe, come gli oranghi e gli scimpanzé e, fatto agire in un embrione di topo, gli espande notevolmente la corteccia cerebrale, ispessendola e facendola cominciare a ondularsi in circonvoluzioni primordiali. Si presenta quindi come un ottimo candidato per il ruolo di “promotore” della nostra crescita cerebrale. Non sarà stato l’unico, certamente, ma certo un protagonista di tale processo. Che non sarà stato l’unico lo sappiamo anche perché come sottoprodotto del lavoro sperimentale che ha portato a questo appassionante risultato c’è stata l’individuazione di una cinquantina di geni che esistono in noi ma non negli scimpanzé. Non tutti saranno attivi nel cervello e non tutti saranno importanti, ma c’è da aspettarsi per il prossimo futuro una vera e propria “cascata” di geni specificamente umani. Il laboratorio di Dresda ha collaborato con quello di Lipsia diretto da Svante Paabo, che “sa tutto” anche sui Neandertal, conferendo alla notizia un risalto tutto particolare. Una grande corteccia cerebrale da sola non garantisce niente per quanto riguarda le capacità intellettive del possessore, a queste non possono certamente essere eccelse in una corteccia cerebrale molto più piccola della nostra. Personalmente, sono molto curioso di vedere dove porta una storia del genere e sono sicuro che presto ne vedremo delle belle. Penso che anche Darwin vi si sarebbe interessato, visto l’enorme effetto che gli fece l’osservazione di Jenny, un orango femmina, allo Zoo di Londra nel marzo del 1838». Soprattutto perché la cosa mette scientificamente una volta in più in crisi gli assunti non scientifici di tutto il darwinismo…
Marco Respinti
Pubblicato con il medesimo titolo
sul sito de Il Timone, Milano 02-03-2015
Come titola Le Scienze, due fisici italiani hanno appena compiuto Un passo avanti nella spiegazione dell’origine della vita. Franz Saija e Antonino Marco Saitta ‒ il primo ricercatore dell’Istituto per i processi chimico-fisici del Consiglio nazionale delle ricerche di Messina, il secondo professore di Fisica nell’Università Pierre et Marie Curie di Parigi ‒ hanno infatti riprodotto al computer, e quindi confermato, i celebri esperimenti con cui negli anni 1950 il biochimico statunitense Stanley L. Miller (1930-2007) dimostrò in laboratorio – così sintetizza la Repubblica − «la possibilità di formare spontaneamente gli aminoacidi, le molecole base della vita, sottoponendo a intense scariche elettriche le semplici molecole inorganiche presenti nel brodo primordiale così come ipotizzato già nel 1871 da Charles Darwin». Ma Miller non è mai affatto affatto a trarre la vita dalla materia inorganica.
I suoi esperimenti hanno solo prodotto una grande quantità di composti chimici, “fideisticamente” detti contenere presunti ed enigmatici “elementi prebiotici”, i quali però per “funzionare” dovevano comunque essere estratti e purificati in modo alquanto sofisticato (più parecchi altri materiali “inutili”). Mai cioè tutti e contemporaneamente quei classici 20 aminoacidi proteici che farebbero legittimamente parlare di “vita in laboratorio”. Il tutto con una resa bassissima (il 15% al massimo), che è come dire che l’esito principale di quei procedimenti è lo scarto. Insomma un flop, se l’obiettivo chiesto a Miller è creare dal nulla la vita in provetta spingendo l’inorganico a trasformarsi in organico, ma un grande successo se lo scopo è produrre minestroni chimici destinati alla pattumiera. Del resto, se uno scienziato avesse sul serio creato la vita dal niente, non sarebbe cambiato il mondo? O quanto meno lui non ci avrebbe vinto il Nobel?
L’idea base di Miller fu ricreare le condizioni dell’atmosfera terrestre delle origini così da provocare “come allora” la scintilla della vita e assistere in diretta oggi al processo. Nessuno però ha mai saputo né ancora sa quale sia stata la composizione dell’atmosfera terrestre delle origini. Quindi Miller la inventò, decidendo che l’atmosfera della Terra di “miliardi di anni fa” fosse simile a quella attuale di Giove: in massima parte ammoniaca, metano e idrogeno. Gli esiti dei suoi esperimenti dipesero dunque dalle arbitrarie premesse da cui egli partì all’inizio, dimostrando semplicemente la coerenza interna del suo modello teorico. La più famosa di quelle premesse arbitrarie è il «brodo primordiale», la fantasiosa e gigionesca espressione con cui negli anni 1920 il biochimico russo Aleksàndr I. Oparin (1894-1980), eroe “scientifico” dell’Unione Sovietica comunista, aveva battezzato quell’insieme variegato di sostanze carboniose che, interagendo con la famosa “atmosfera terrestre delle origini” grazie a radiazioni ultraviolette e fulmini, si sarebbe diluita negli oceani per poi casualmente formare le prime biomolecole in perfetta armonia con il materialismo dialettico marxista. Ipotesi analoga fu ideata contemporaneamente ma in modo indipendente dal biologo britannico John B.S. Haldane (1892-1964), altro comunista provetto che restò leninista anche dopo le delusioni provocategli da quella catastrofica “scienza” stalinista che Oparin appoggiava. Oparin non se lo filò nessuno finché il chimico e fisico statunitense Harold C. Urey (1893-1981) formulò un’ipotesi sulla formazione del sistema solare che andava d’accordo con il «brodo primordiale». Insieme a Urey (lui sì Premio Nobel ma per la scoperta del deuterio, un isotopo dell’idrogeno), Miller riprese quindi Oparin (e Haldane), e, osserva il biologo Enzo Pennetta, «costruì un’apparecchiatura e la fece funzionare per studiarne i risultati». Ciò che dimostrano gli esperimenti di Miller e Urey è che i loro esiti sono coerenti con le premesse poste dagli stessi Miller e Urey, coerenti con l’ipotesi di Oparin (e di Haldane), coerenti… con l’ideologia marxista-leninista…
Oggi quel che si dice abbia fatto (e però non è vero) Miller porta il nome, “elegante”, di “abiogenesi”, ma è solo l’antica superstizione (un bel po’ panteista) della “generazione spontanea” della vita da ciò che vita non è, in virtù di un principio “magico” insito nelle pieghe della materia sterile. Questa superstizione, però, diffusa nel pensiero scientista moderno in ripresa degli aspetti più “misteriosofici” e decadenti del pensiero pagano, è stata da tempo rigorosamente confutata a norma di metodo scientifico galileiano dal medico toscano Francesco Redi (1626-1697), dal biologo emiliano Lazzaro Spallanzani (1729-1799) e dal biologo francese Louis Pasteur (1822-1895), tutti buoni cattolici e tutti scienziati autentici, il secondo persino padre gesuita.
Torniamo allora ai due ricercatori italiani. Ciò che la loro riproduzione al computer degli esperimenti di Miller ottiene è, dice Le Scienze, identificare «nell’intensità dei campi elettrici presenti nell’ambiente il fattore chiave che indirizza le reazioni chimiche a produrre particolari molecole complesse invece di altre». Cioè appurare che le scariche elettriche simulate dal loro computer per imitare gli esperimenti di Miller fanno quello che i fulmini simulati da Miller fanno nei suoi esperimenti. L’ennesima constatazione della coerenza interna tra gli esiti di un certo procedimento e le sue iniziali premesse arbitrarie, a loro volta coerenti con premesse arbitrarie precedenti. Giusto per non dire tautologia. Perché, commenta Pennetta, si sa che «i modelli computerizzati possono dare i risultati più disparati in base ai parametri che vengono inseriti». E così l’unico criterio di verifica ammesso dalla scienza, la realtà sperimentale, si allontana drammaticamente sempre di più,
Marco Respinti
Versione originale e completa dell’articolo pubblicato
con il titolo Non muore il sogno della creazione senza Dio
in La nuova Bussola Quotidiana, Milano 14-09-2014
- Louis Pasteur (1822-1895)
- Francesco Redi (1626-1697)
- Lazzaro Spallanzani, S.I. (1729-1799)