Domani, 3 gennaio, è il 126° anniversario della nascita di J.R.R. Tolkien (1892-1973) e Bompiani, oggi del gruppo Giunti, rimanda finalmente in libreria la traduzione, completamente rifatta, delle sue Lettere 1914-1973 (766 pagine, 24 euro), curate dal biografo tolkieniano Humphrey Carpenter (1946-2005) con l’assistenza di Christopher Tolkien, terzo dei quattro figli dello scrittore e filologo inglese, suo esecutore letterario oggi 94enne. L’edizione inglese risale al 1981, impreziosita nel 1999 con un indice ampliato dai coniugi Christina Scull e Wayne G. Hammond, massimi esperti mondiali di bibliografia tolkieniana, e la nuova versione italiana di Lorenzo Gammarelli, dell’Associazione Italiana Studi Tolkieniani (AIST), restituisce la freschezza e l’incisività dell’originale.
Il Italia, infatti, il testo non ha mai avuto fortuna. Tradotto nel 1990 dalla giornalista Cristina De Grandis per Rusconi con il titolo (arbitrario) La realtà in trasparenza, nel 2000 passò a Bompiani. Riedito per un po’ identico, è poi scomparso assieme alla pletora di errori di cui era appesantito.
Il più clamoroso è quello della lettera al secondogenito Michael (1920-1984), datata 6-8 marzo 1941. Qui un Tolkien dal cuore gravato (la guerra, i molti amici morti, un legendarium intricatissimo da dominare), ma confortato dalla fede cattolica, scrive: «Dall’oscurità della mia vita, cosi frustrata, ti offro l’unica grande cosa da amare sulla terra: il Santissimo Sacramento». Per un incantesimo di Sauron, la prima traduzione ci ha appioppato l’assurdo plurale «Santissimi Sacramenti», che non esiste: né nel testo né in dottrina, visto che una cosa è l’Eucarestia e un’altra sono i sette sacramenti. Tolkien esortava il figlio a relativizzare guai e paure inginocchiandosi al corpo di Cristo e per decenni noi abbiamo fatto finta di capire quel che non capivamo affatto (anche se quel «terra» andrebbe maiuscolato, essendo il pianeta che abitiamo e non la polvere che calpestiamo: l’inglese earth può invece tollerare anche il minuscolo giacché inconfondibile con ground).
Non da meno è la lettera al suo editore, Rayner Unwin (1925-2000), dell’11 aprile 1953. Tolkien avrebbe scritto un’assurdità come: «Finalmente ho completato la revisione per la stampa – spero fino all’ultimo comma – della parte I» de Il Signore degli Anelli semplicemente perché nessuno si è accorto che in inglese comma significa “virgola”. In un’altra lettera dell’agosto 1967 abbiamo sempre letto che il tempo della mitologia tolkieniana è quello in cui la preghiera degli Uomini non ricorda più l’«Unico Dio, Eru» mentre invece sta scritto proprio il contrario. Insomma, c’è davvero da domandarsi quale Tolkien abbiamo conosciuto. E pensare che la De Grandis, interpellata dal principe dei collezionisti tolkieniani italiani, Oronzo Cilli, nelle pagine della sua colossale e acribica ricerca Tolkien e l’Italia (Il Cerchio, Rimini 2016), confessa il «[…] grande interesse che ho immediatamente provato per le lettere», «perché contengono moltissime spiegazioni di numerosi passaggi dell’epopea tolkieniana». Menomale che Gammarelli ci ha messo mano.
Le lettere di Tolkien sono infatti davvero cruciali. Lo scrittore dedicava a quest’arte di altri tempi gran parte delle proprie giornate, cesellando le frasi e scegliendo con cura le parole come sempre faceva quando armeggiava con carta e penna. Ne esce così uno spaccato prezioso che documenta i suoi processi creativi e la sua mentalità, l’incrollabile fede religiosa e il senso profondo che per lui aveva il mito “germanico”, purtroppo sfigurato. Lo scrive espressamente il 9 giugno 1941 al figlio Michael: «Ho passato la maggior parte della mia vita, da quando avevo la tua età, studiando argomenti germanici (nel senso generale che include l’Inghilterra e la Scandinavia). Nell’ideale “germanico” c’è molta più forza (e verità) di quanto la gente ignorante immagini. Ne fui molto attirato da studente (quando suppongo che Hitler si dilettasse di pitture e non ne aveva ancora sentito parlare), per reazione agli “studi classici”. Si deve capire il lato buono che c’è nelle cose, per comprenderne il vero lato cattivo. Ma nessuno mi chiama per parlare alla radio o per scrivere un commento!».
Un cammeo imperdibile è quel che de Il Signore degli Anelli scrisse ai giornalisti Charlotte e Denis Plimmer del Daily Telegraph l’8 febbraio 1967: «Il progredire della storia termina con quanto di più simile alla restaurazione di un effettivo Sacro Romano Impero con sede a Roma un “nordico” potesse inventare». Indispensabile è poi l’architettura letteraria esposta a fine 1951 al consulente editoriale Milton Waldman (1895-1976), tanto da essere poi riprodotta dal figlio Christopher a partire dalla seconda edizione de Il Silmarillion del 1999, e fondamentale l’ermeneutica teologica spiegata all’amico padre gesuita Robert Murray, ancora vivente a Bournemouth, nel Dorset, un luogo dove Tolkien passò parecchio tempo, in una lettera del 4 novembre 1965. Anno nuovo, insomma, Tolkien vero.
Marco Respinti
Versione originale e completa dell’articolo pubblicato
con il titolo Quando Tolkien usava le lettere come psicanalisi
in Libero [Libero quotidiano], anno LIII, n. 1, Milano 02-1-2018, p. 26
La cosa ha un precedente, occorso esattamente tre anni fa, nell’aprile 2012, che è utile rievocare. Allora successe che un parroco di Ferrara avesse umiliato un bimbo disabile davanti a tutta la chiesa e ai suoi amici, rifiutando di accettarlo alla prima comunione perché «stupido e incapace di capire». O così affermavano i giornali con gran concorso di laici, laiconi e laicisti, subito lanciatisi in una improbabile “crociata” a favore dell’Eucarestia (sic) e del denegato diritto a Essa che tutti hanno…Ma era una bufala. Tutto era infatti stato serenamente e preventivamente concordato con la famiglia e violazioni di “diritti” non ve n’era stata alcuna.
Ma il fatto si rese allora propizio per considerazioni importanti che vale la pena di riprendere oggi a commento dei fatti del miranese. Tre anni fa accadde che i genitori del ragazzo disabile scelsero di portarlo negli ambienti parrocchiali onde farlo sentire parte della comunità. Il vescovo, mons. Paolo Rabitti, spiegava però che i genitori in parrocchia il ragazzo ce lo avevano portato solo un paio di volte. All’inizio di aprile si svolse poi l’incontro in Curia in previsione della cerimonia della Prima Comunione del disabile; il sacerdote offrì al ragazzo un’ostia non consacrata (per sondare la situazione) e quegli la respinse bruscamente, sputandola. Con i genitori si decise allora che alla Messa della Prima Comunione il ragazzo avrebbe trovato posto in parrocchia nelle panche con i coetanei senza però ricevere la particola consacrata, ma una carezza del parroco e la benedizione, e solo per attendere, propiziandoli con dovuta attenzione e profonda carità, tempi più maturi.
Ebbene, il principio che vale anche oggi nel nuovo caso che riguarda il bimbo autistico veneto è che la sublimità della Comunione è, per un cristiano, così eccelsa che nessun potere umano, nemmeno vestito in abiti sacerdotali, può negarla, se vi sono le condizioni spirituali giuste affinché un cristiano la riceva. In tesi, è difficilissimo, anzi impossibile stabilire, per esempio, come invece facciamo purtroppo tutti a cuor leggero, se un tizio fa la Comunione solo per “farsi vedere” o davvero per autentica devozione. Del resto, non spetta a noi stabilire la sincerità del cuore del prossimo. Compete a Dio, e sarà Dio a giudicare. Un sacerdote ha il diritto e pure il dovere di accertarsi che vi siano le condizioni spirituali affinché un fedele riceva la Comunione: ovvero la confessione, la contrizione e la remissione dei peccati. Nel caso di un peccato pubblico, non confessato, non ricusato e anzi propagandato, il sacerdote può rifiutare sì la Comunione, ma non perché sia in suo potere arbitrario decidere l’esclusione di qualcuno dal Sacramento, quanto perché la condizione oggettiva di peccato (visibile, pubblica, conclamata, persino rivendicata) esclude automaticamente tal fedele dalla Comunione. Fu questo il caso della nota con cui Papa Benedetto XVI ricordò a suo tempo ‒ in pendenza di elezioni per la Casa Bianca e mentre imperversavano i cattolici ultra-liberal John F. Kerry e Nancy Pelosi ‒ ai vescovi statunitensi che non è possibile dare la Comunione agli uomini politici che pubblicamente sostengono cose come per esempio l’aborto. Ed è questo il caso odierno dell’impossibilità di dare la Comunione ai divorziati “risposati”.
Tornando in diocesi di Venezia-Mestre, un sacerdote non può rifiutare la Comunione se la condizione spirituale del fedele non lo “costringe” a ratificare l’autoesclusione dall’Eucarestia in cui una situazione pubblica di peccato inchioda detto fedele, e a maggior ragione non può farlo accampando ragioni di menomata intelligibilità del gesto da parte di quel fedele.
A suo tempo, inquadrò alla perfezione la questione padre Giorgio Carbone, dei domenicani di Bologna, ottimo teologo e direttore di quel gioiello che sono le Edizioni Studio Domenicano. Scusandomi con i lettori per la lunghezza della citazione, e chiedendo al Direttore de L’Intraprendente venia per abuso di così tanto spazio, riporto sue parole decisive di allora che sembrano scritte per il caso di oggi.
«Certamente […] se la disabilità psichica fosse così grave da rendere la persona incapace di intendere e di volere e se questa persona ha ricevuto il battesimo, non c’è alcun serio motivo per negarle la comunione eucaristica. È stata battezzata nella fede della Chiesa e dei genitori, è stata battezzata nella sua condizione di disabilità che fa supporre l’inesistenza di ostacoli o rifiuti da parte sua, perciò in queste stesse condizioni (disabilità psichica che fa supporre a noi la non-esistenza di ostacoli o rifiuti volontari) può ricevere l’Eucaristia. Può riceverla, ma non è necessario per la sua salvezza […]. Se poi la persona disabile avesse problemi di deglutizione, va ricordato che di fatto è possibile dare la comunione, non solo con il Corpo di Cristo, ma anche solo con il Sangue di Cristo. Sono sufficienti poche gocce, o anche una sola, del Sangue di Cristo per comunicare la realtà della sua presenza e della sua grazia. […] Tutto ciò rende possibile realizzare quanto Benedetto XVI insegna con l’Esortazione Postsinodale Sacramentum Caritatis del 2007, n. 58: trattando dell’attiva partecipazione degli infermi all’Eucarestia e dei disabili in generale, scrive “venga assicurata anche la comunione eucaristica, per quanto possibile, ai disabili mentali, battezzati e cresimati: essi ricevono l’Eucaristia nella fede anche della famiglia o della comunità che li accompagna”».
Ecco, il valore divino dell’Eucarestia non dipende dalla capacità umana di comprendere con la ragione quel gesto soprannaturale. Se Dio dovesse far dipendere la Sua grazia dalla nostra capacità umana di comprenderne la divina sublimità nell’Eucarestia, saremmo tutti fritti, santi compresi. Fortunatamente, però, se Dio non è un illusionista, non è nemmeno un ragioniere. Il massimo della consapevolezza anche razionale del divino mistero dell’Eucarestia che ci chiede nel riceverLa è lo stato di grazia ottenuto con la contrizione e la remissione dei peccati. E che in assoluto quello stato di grazia non lo possa vivere anche un disabile, commisuratamente alla condizione in cui il mistero del male fisico lo costringe (ma pur sempre secondo quando Dio altrettanto misteriosamente permette al male di farlo), è una responsabilità che personalmente non mi assumerei. Dopo di che, il sacerdote ha una coscienza; di essa risponde a Dio e giustamente non a noi. Sempre che la notizia sul rifiuto della Comunione nel miranese non sia un’ennesima bufala buona per gli asini come quella di Ferrara tre anni fa.
Marco Respinti
Pubblicato con il medesimo titolo
in l’intraprendente. Giornale d’opinione dal Nord, Milano 12-03-2015