Non si è ancora spenta l’eco dell’importante vittoria ottenuta dal pasticciere Jack Phillips davanti alla Corte Suprema federale degli Stati Uniti che la Corte Suprema federale del Canada sferra un colpo durissimo alla libertà religiosa.
Venerdì 15 giugno, la massima magistratura giudica del Paese nordamericano ha stabilito che discriminare i cristiani è cosa perfettamente legale e anzi decisamente auspicabile. Per esempio quando i cristiani non si lasciano normalizzare dai diktat del gender e del transgenderismo. Nella fattispecie, da adesso gli ordini professionali degli avvocati canadesi potranno negare l’accesso al praticantato ai laureati di certi istituti cristiani. Quali? Quelli che sono cristiani per davvero.
Tutto ruota attorno al contezioso che ha portato sul banco degl’imputati la Trinity Western University, una università pubblica non statale protestante di Fort Langley, alla periferia di Vancouver, nella provincia della Columbia Britannica. Ora, che la Trinity sia una università cristiana è il dato di fatto di partenza. È la maggiore università cristiana finanziata da privati del Paese, fondata nel 1962 dalla Evangelical Free Church of America, una denominazione di orientamento pietistico nata negli Stati Uniti negli anni 1950 dall’unione di gruppi evangelicali preesistenti legati all’immigrazione scandinava. Il motto esplicito della scuola è «Turris Fortis Deus Noster», ovvero «Il nostro Dio è una fortezza potente», un riferimento al Salmo 46 e a un famoso canto a esso ispirato, Ein’ feste Burg ist unser Gott, composto da Martin Lutero (1483-1546) tra il 1527 e il 1529. Che dunque il suo indirizzo, anche nell’educazione e nell’insegnamento, segua l’orientamento cristiano è il minimo dell’onestà intellettuale a cui la scuola è tenuta di fronte non solo ai cristiani ma a chiunque, ed è pure il minimo che si aspettano le famiglie che pagano rette costosissime per mandare i propri figli a studiare lì. Infatti, le famiglie che eventualmente non fossero d’accordo con l’orientamento cristiano esplicito e preventivo della scuola non potrebbero certo incolparne la scuola, tantomeno pretendere che la scuola cambiasse, anche se la vera domanda sarebbe perché quelle famiglie pagherebbero rette costosissime per mandare i figli a una scuola così.
Fra gli elementi identitari che caratterizzano la Trinity vi è l’impegno a cui la scuola chiama tutta la propria comunità, cioè dirigenti, personale docente, personale non docente e studenti, a mantenere una condotta in cui rientrano anche l’osservanza della dignità propria e altrui, la decenza nel vestire, il linguaggio adeguato, la fedeltà coniugale, quindi il rifiuto di divorzio, pornografia, alcol ma anche tabacco, poi il «[…] riservare le espressione sessuali dell’intimità al matrimonio» e l’astensione «[…] da forme d’intimità sessuale che violino la sacralità del matrimonio tra un uomo e una donna». Certo, il patto fa ovviamente parte dell’orientamento cristiano della scuola, ma è anzitutto una proposta di buon senso. Fra le regole stabilite c’è per esempio pure l’impegno a non rubare. Quale famiglia vorrebbe pagare rette costosissime per mandare il proprio figlio a studiare in una scuola dove il furto fosse ammesso? O dove ubriacarsi fosse lecito e fare sesso nei dormitori con il primo e la prima che passa incoraggiato? Non bisogna insomma essere una famiglia cristiana per ritenere che i propri soldi sarebbero meglio spesi altrove che non in una scuola così.
Ma non così l’ha pensata, nel novembre 2012, la Conferenza dei presidi delle facoltà di Diritto canadesi che si è per l’appunto rivolta agli ordini degli avvocati del Paese domandando di non ammettere alla pratica forense i laureati in legge della Trinity Western University. Perché, infatti, confinare il sesso alle persone sposate, e perché riservarlo solo a coppie di genere diverso, e perché ancora ritenere matrimonio, per giunta sacro, soltanto quello fra un uomo e una donna? In Canada il “matrimonio” omosessuale è legale, dunque perché queste limitazioni? I laureati che abbiano insomma sottoscritto un patto come quello predisposto dalla Trinity sono tipi pericolosi, da evitare, marginalizzare, espellere dalla società. Sono infatti bigotti pericolosi rei di omofobia. Fa nulla se codici di comportamento minimale così siano piuttosto diffusi negli atenei nordamericani e se qualsiasi scuola ti mette alla porta quando ti comporti in maniera lesiva della comunità.
Mentre a suo tempo quasi tutte le provincie canadesi si sono rifiutate di discriminare i laureati della Trinity (Alberta, Saskatchewan, Isola del Principe Edoardo, New Brunswick, Yukon e Nuova Scozia), l’Ontario ha aderito alla richiesta dei presidi di facoltà e per questo il Trinity è ricorso in appello nel settembre 2015, perdendo la causa nel giugno successivo. Nella Columbia Britannica è accaduto invece l’inverso e a ricorrere in tribunale è stato l’ordine locale degli avvocati il 24 agosto 2015, il quale ha perso la causa il 19 dicembre, per poi ricorrere in appello e perdere nuovamente il 5 gennaio 2016. Adesso la Corte Suprema federale ha messo fine a tutto, sia al caso dell’Ontario sia a quello della Columbia Britannica.
Due giudici, Russell Brown e Suzanne Côté, hanno firmato l’opinione dissenziente di minoranza affermando che, pur con tutte le eventuali buone intenzioni di cui si possa anche tenere conto, in questo modo una maggioranza ha imposto in maniera illiberale il proprio liberalismo a un minoranza. Dare ragione al Trinity non avrebbe comportato infatti una violazione della laicità dello Stato: avrebbe semplicemente riconosciuto che tra i doveri primi di uno Stato vi è la non discriminare di alcuno, in specie per motivi di fede. Cosa invece che i giudici supremi del Canada si sono ben guardati dal fare.
Sono del resto anni che il Canada rotola lungo il piano inclinato. Nell’aprile 2012, la conferenza episcopale cattolica pubblicò una lettera apostolica denunciando una situazione gravissima in cui gli ordini dei medici imponevano agli obiettori di coscienza di fissare appuntamenti con colleghi disposti a praticare l’aborto per i pazienti che lo richiedessero, ai farmacisti contrari di vendere contraccettivi o pillole del giorno dopo e ai funzionari pubblici di dimettersi qualora si fossero rifiutati di celebrare i “matrimoni” omosessuali.
Marco Respinti
Versione originale dell’articolo pubblicato con il medesimo titolo
in La nuova Bussola Quotidiana, Monza 19-06-2018
La cosa ha un precedente, occorso esattamente tre anni fa, nell’aprile 2012, che è utile rievocare. Allora successe che un parroco di Ferrara avesse umiliato un bimbo disabile davanti a tutta la chiesa e ai suoi amici, rifiutando di accettarlo alla prima comunione perché «stupido e incapace di capire». O così affermavano i giornali con gran concorso di laici, laiconi e laicisti, subito lanciatisi in una improbabile “crociata” a favore dell’Eucarestia (sic) e del denegato diritto a Essa che tutti hanno…Ma era una bufala. Tutto era infatti stato serenamente e preventivamente concordato con la famiglia e violazioni di “diritti” non ve n’era stata alcuna.
Ma il fatto si rese allora propizio per considerazioni importanti che vale la pena di riprendere oggi a commento dei fatti del miranese. Tre anni fa accadde che i genitori del ragazzo disabile scelsero di portarlo negli ambienti parrocchiali onde farlo sentire parte della comunità. Il vescovo, mons. Paolo Rabitti, spiegava però che i genitori in parrocchia il ragazzo ce lo avevano portato solo un paio di volte. All’inizio di aprile si svolse poi l’incontro in Curia in previsione della cerimonia della Prima Comunione del disabile; il sacerdote offrì al ragazzo un’ostia non consacrata (per sondare la situazione) e quegli la respinse bruscamente, sputandola. Con i genitori si decise allora che alla Messa della Prima Comunione il ragazzo avrebbe trovato posto in parrocchia nelle panche con i coetanei senza però ricevere la particola consacrata, ma una carezza del parroco e la benedizione, e solo per attendere, propiziandoli con dovuta attenzione e profonda carità, tempi più maturi.
Ebbene, il principio che vale anche oggi nel nuovo caso che riguarda il bimbo autistico veneto è che la sublimità della Comunione è, per un cristiano, così eccelsa che nessun potere umano, nemmeno vestito in abiti sacerdotali, può negarla, se vi sono le condizioni spirituali giuste affinché un cristiano la riceva. In tesi, è difficilissimo, anzi impossibile stabilire, per esempio, come invece facciamo purtroppo tutti a cuor leggero, se un tizio fa la Comunione solo per “farsi vedere” o davvero per autentica devozione. Del resto, non spetta a noi stabilire la sincerità del cuore del prossimo. Compete a Dio, e sarà Dio a giudicare. Un sacerdote ha il diritto e pure il dovere di accertarsi che vi siano le condizioni spirituali affinché un fedele riceva la Comunione: ovvero la confessione, la contrizione e la remissione dei peccati. Nel caso di un peccato pubblico, non confessato, non ricusato e anzi propagandato, il sacerdote può rifiutare sì la Comunione, ma non perché sia in suo potere arbitrario decidere l’esclusione di qualcuno dal Sacramento, quanto perché la condizione oggettiva di peccato (visibile, pubblica, conclamata, persino rivendicata) esclude automaticamente tal fedele dalla Comunione. Fu questo il caso della nota con cui Papa Benedetto XVI ricordò a suo tempo ‒ in pendenza di elezioni per la Casa Bianca e mentre imperversavano i cattolici ultra-liberal John F. Kerry e Nancy Pelosi ‒ ai vescovi statunitensi che non è possibile dare la Comunione agli uomini politici che pubblicamente sostengono cose come per esempio l’aborto. Ed è questo il caso odierno dell’impossibilità di dare la Comunione ai divorziati “risposati”.
Tornando in diocesi di Venezia-Mestre, un sacerdote non può rifiutare la Comunione se la condizione spirituale del fedele non lo “costringe” a ratificare l’autoesclusione dall’Eucarestia in cui una situazione pubblica di peccato inchioda detto fedele, e a maggior ragione non può farlo accampando ragioni di menomata intelligibilità del gesto da parte di quel fedele.
A suo tempo, inquadrò alla perfezione la questione padre Giorgio Carbone, dei domenicani di Bologna, ottimo teologo e direttore di quel gioiello che sono le Edizioni Studio Domenicano. Scusandomi con i lettori per la lunghezza della citazione, e chiedendo al Direttore de L’Intraprendente venia per abuso di così tanto spazio, riporto sue parole decisive di allora che sembrano scritte per il caso di oggi.
«Certamente […] se la disabilità psichica fosse così grave da rendere la persona incapace di intendere e di volere e se questa persona ha ricevuto il battesimo, non c’è alcun serio motivo per negarle la comunione eucaristica. È stata battezzata nella fede della Chiesa e dei genitori, è stata battezzata nella sua condizione di disabilità che fa supporre l’inesistenza di ostacoli o rifiuti da parte sua, perciò in queste stesse condizioni (disabilità psichica che fa supporre a noi la non-esistenza di ostacoli o rifiuti volontari) può ricevere l’Eucaristia. Può riceverla, ma non è necessario per la sua salvezza […]. Se poi la persona disabile avesse problemi di deglutizione, va ricordato che di fatto è possibile dare la comunione, non solo con il Corpo di Cristo, ma anche solo con il Sangue di Cristo. Sono sufficienti poche gocce, o anche una sola, del Sangue di Cristo per comunicare la realtà della sua presenza e della sua grazia. […] Tutto ciò rende possibile realizzare quanto Benedetto XVI insegna con l’Esortazione Postsinodale Sacramentum Caritatis del 2007, n. 58: trattando dell’attiva partecipazione degli infermi all’Eucarestia e dei disabili in generale, scrive “venga assicurata anche la comunione eucaristica, per quanto possibile, ai disabili mentali, battezzati e cresimati: essi ricevono l’Eucaristia nella fede anche della famiglia o della comunità che li accompagna”».
Ecco, il valore divino dell’Eucarestia non dipende dalla capacità umana di comprendere con la ragione quel gesto soprannaturale. Se Dio dovesse far dipendere la Sua grazia dalla nostra capacità umana di comprenderne la divina sublimità nell’Eucarestia, saremmo tutti fritti, santi compresi. Fortunatamente, però, se Dio non è un illusionista, non è nemmeno un ragioniere. Il massimo della consapevolezza anche razionale del divino mistero dell’Eucarestia che ci chiede nel riceverLa è lo stato di grazia ottenuto con la contrizione e la remissione dei peccati. E che in assoluto quello stato di grazia non lo possa vivere anche un disabile, commisuratamente alla condizione in cui il mistero del male fisico lo costringe (ma pur sempre secondo quando Dio altrettanto misteriosamente permette al male di farlo), è una responsabilità che personalmente non mi assumerei. Dopo di che, il sacerdote ha una coscienza; di essa risponde a Dio e giustamente non a noi. Sempre che la notizia sul rifiuto della Comunione nel miranese non sia un’ennesima bufala buona per gli asini come quella di Ferrara tre anni fa.
Marco Respinti
Pubblicato con il medesimo titolo
in l’intraprendente. Giornale d’opinione dal Nord, Milano 12-03-2015