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Salmoni in Fiera a Milano
Pubblicato da Marco Respinti in 8 marzo 2018
È nato il primo batterio alieno. Possiede infatti un DNA a sei basi azotate anziché le quattro di tutti gli esseri viventi del mondo e della storia. Lo hanno prodotto artificialmente il biochimico statunitense Floyd E. Romesberg e i suoi colleghi nei laboratori dello Scripps Research Institute di La Jolla, in California: a riferirlo sono il periodico Le Scienze e Leonardo, il telegiornale della scienza e dell’ambiente della Testata Giornalistica Regionale della Rai in onda quotidianamente sul terzo canale (qui al minuto 5,05).
Romesberg e colleghi ci aveva provato già due anni fa, ne avevano dato notizia sull’autorevole periodico Nature, ma quei primi risultati, a coronamento di un ventennio di ricerche e tentativi, non erano soddisfacenti. Adesso invece il batterio alieno è una realtà. Funzionante.
Il batterio “Escherichia coli”: vive nel nostro intestino ed è chiamto “prostituta delle biotecnologie”
Gli scienziati sono intervenuti modificando il codice genetico di alcuni esemplari di Escherichia coli, il batterio che vive nell’intestino degli animali a sangue caldo, tra cui quindi anche l’uomo, svolgendo funzioni indispensabili per la digestione. Sperimentare su quel batterio è del resto da sempre un classico, tanto che gli operatori dell’ingegneria genetica lo definiscono la “prostituta delle biotecnologie”. Il biologo statunitense Richard Lenski, per esempio, conduce ininterrottamente dal 1988 esperimenti su di esso alla ricerca della conferma empirica del processo di speciazione per mutazioni genetiche postulato dall’evoluzionismo neodarwinista, ma tutto ciò che da decenni ottiene sono svantaggi correlati a eventuali vantaggi molto limitati, degrado del patrimonio cromosomico e impoverimento funzionale.
Ebbene, in tutti gli esseri viventi le istruzioni genetiche sono scritte attraverso quattro basi azotate che compongo i nucleotidi, le lunghe catene di molecole elementari che costituiscono i mattoni del DNA, le quali si accoppiano a due a due sempre allo stesso modo. Le quattro basi sono l’adenina, la citosina, la guanina e la timina indicate con le iniziali dei loro nomi: A, C, G e T. Nella famosa raffigurazione del DNA come una scala che si avvolge su stessa a mo’ di elica i due filamenti nucleotidici costituiscono la doppia catena “di supporto” e le basi azotate sono i “pioli” che le tengono assieme: l’adenina si accoppia sempre nello steso modo e solo con la timina e la citosina sempre nello stesso modo e solo con la guanina in miliardi di combinazioni che formano i geni, le unità ereditarie fondamentali dei viventi, le “cabine di regia” della vita, le “fabbriche” di proteine e di enzimi essenziali a tutti gli organismi.
Quel che Romesberg e i suoi colleghi hanno fatto nello Scripps Research Institute è stato intervenire in questo alfabeto, introducendo due lettere nuove: X e Y. Ovvero espandere artificialmente il DNA dell’Escherichia coli con l’inserzione di due basi azotate sintetiche, chiamate d5SICS e dNaM. Se però, per scrivere la vita, la natura si serve sempre e solo di A, C, G e T, allora il risultato ottenuto nei laboratori californiani non è un’altra Escherichia coli, bensì un vivente non attestato in natura: un vero e proprio alieno sulla Terra o – come dice la giornalista Silvia Rosa-Brusin a Leonardo ‒ «[…] una vita innaturale»: «[…] una creatura mai vista», che «[…] ha cambiato completamente il gioco».
Ora, questo esperimento corre certamente sulla falsariga dell’antico sogno dell’abiogenesi, vale a dire l’idea che la vita nasca per “generazione spontanea” dalla materia inerte grazie a proprietà intrinseche alla materia stessa catalizzate e innescate da particolari condizioni ambientali, dunque senz’alcun bisogno di agenti esteriori volitivi e senzienti, per esempio il Creatore. Ma l’abiogenesi è una superstizione tanto cara agli evoluzionisti quanto smentita definitivamente e a norma di metodo scientifico da scienziati veri del calibro del medico, naturalista e letterato toscano Francesco Redi (1626-1697), uno dei maggiori biologi di tutti i tempi, del biologo e gesuita emiliano Lazzaro Spallanzani (1729-1799) nonché del chimico e biologo francese Louis Pasteur (1822-1895), “padre” della microbiologia. Tra l’altro tre buoni cattolici. Né hanno potuto alcunché le ipotesi fantascientifiche sul “brodo primordiale” del biochimico sovietico Aleksàndr Ivanovič Oparin (1894-1980) o del biologo e genetista marxista inglese John B.S. Haldane (1892-1964). E di fatto a nulla sono valsi gli esperimenti non conclusivi del chimico e fisico statunitense Harold Clayton Urey (1893-1981) – Premio Nobel per la Chimica nel 1934 per la scoperta del deuterio –, e del chimico e biologo statunitense Stanley Lloyd Miller (1930-2007). La vita in laboratorio non è mai stata creata e l’alieno di Romesberg non ne è un esempio.
Il nuovo essere californiano è infatti solo la modificazione di un vivente già esistente, senza che questo dica alcunché sul mistero della vita in sé. In pratica è solo un OGM molto sofisticato, dice a La nuova Bussola Quotidiana il chimico Giulio Dante Guerra, Primo Ricercatore a riposo del Consiglio Nazionale delle Ricerche, Socio Onorario della Società Italiana dei Biomateriali. Appartiene al “sogno faustiano” cui Guerra dedica un capitolo intero del suo recente L’origine della vita. Il “caso” non spiega la realtà (D’Ettoris, Crotone 2016).
Del resto, come sottolineano i suoi “creatori”, il batterio alieno non può affatto vivere al di fuori dei laboratori. Legittimo allora domandarsi a che serva. Ed è qui che Guerra s’incupisce: «Quell’alieno non può vivere fuori dai laboratori per ora. Certo, forse non sarà mai in grado di farlo. Ma è un fatto che questo tipo di esperimenti apra la porta a sviluppi potenzialmente inquietanti. Il rischio, almeno teorico, è infatti che l’obiettivo finale di queste ricerche sia quello di ottenere l’“arma biologica assoluta”. Immaginiamo infatti cosa accadrebbe se certi “pseudo-batteri” o “para-virus” finissero nelle mani sbagliate…». La vita innaturale usata per cancellare la vita naturale?
Marco Respinti
Arrivi in ufficio, sistemi le tue quattro cose, ti siedi alla scrivania, accendi il pc con gesto ormai di rito, di colleghi a Internet e che vedi? Il motore di ricerca più famoso del mondo (quello diventato persino un neologismo, “to google”) che ammicca con un logo nuovo, a tema.
È Nelson Mandela (1918-2013), capelli bianchi, camicia a fiori tipica, volto incorniciato in una motivo a mandorla che pare un santino, cartiglio come in blasone nobiliare, fiori tutt’attorno come una madonna pellegrina. Se clicchi, la kermesse continua in uno scintillio di pannelli mobili da bigino dell’infotainment. Ti chiedi perché, prendi la scorciatoia che porta a Wikipedia e scopri che oggi è il compleanno del defunto presidente del Sudafrica, già canonizzato in International Nelson Mandela Day. Francamente ci era sfuggito, avevamo rimosso, sul calendario siamo usi segnarci date diverse.
Ben più attenti di noi, invece, sono stati il Comune di Milano e il suo sindaco rosso antico Giuliano Pisapia, che hanno benedetto cioè patrocinato l’encomio a Mandela realizzato nientemeno che da PaoPao, Nais, Orticanoodles e Ivan. Non sapete chi sono? Neanch’io, sopravviveremo. Un supplemento d’indagine svela che i quattro (rullo di tamburi) sono degli “street artist” (ciumbia!) e che hanno realizzato (altro rullo di tamburi) addirittura un murale (ciumbia! un’altra volta) per celebrare i 20 anni dalla “sconfitta dell’apartheid” (27 aprile 1994), verniciando il muro esterno della Fabbrica del Vapore, spazio-eventi ben noto a noi milanesi. L’opera sublime è stata inaugurata alla vigilia dell’International Nelson Mandela Day e noi siamo certi che il patrocinio dato dal Comune di Milano, congiuntamente al governo del Sudafrica e con il sostegno di Building Energy (non chiedetemi cosa sia), non sia costato nemmeno un nichelino ai contribuenti milanesi. Ne siamo certissimi: per questo una esplicita conferma in tal senso da parte di Palazzo Marino ci farebbe subito immenso piacere.
Perché il patrocinio di Pisapia a un monumento a Mandela è assolutamente fuori luogo anche gratis. Io infatti sono milanese, sono nato a Milano, amo Milano e stamani mi chiedo perché la mia Milano debba sputtanarsi in questo modo per un soggetto, Mandela, che è sputtanatissimo. Già l’abbiamo detto e lo abbiamo scritto che in carcere Mandela ci finì per terrorismo, legato a doppio filo com’era al Partito Comunista Sudafricano, un partito che l’uguaglianza la predicava a suon di dinamite. Lo abbiamo detto e lo abbiamo scritto che nessuno ce l’ha con “Madiba” perché era nero, ma perché era rosso, amico intimo del bianchissimo leader del suddetto PC sudafricano, Yossel Mashel “Joe” Slovo, con cui si faceva volentieri ritrarre sotto la falce & martello a pugno chiuso. Lo abbiamo detto e lo abbiamo scritto che, presidente dell’African National Congress, Mandela ne ha fondato il braccio armato e ha teorizzato per iscritto la lotta di classe armata. Qualcuno però ci ha detto che abbiamo esagerato, che dopo Mandela si è calmato, democratizzato. Balle. Si sfogli il volume Mandela, l’apartheid e il nuovo Sudafrica. Ombre e luci su una storia tutta da scrivere (D’Ettoris, Crotone 2014), scritto da Giuseppe Brienza, Roberto Cavallo e Omar Ebrahime nel, e prefato da Rino Cammilleri. Anzi, qualcuno nel regali una copia a Pisapia. Perché il Mandela-dopo è persino più agghiacciante del Mandela-prima.
Uscito di prigione nel 1990 dopo 26 anni e mezzo, insignito del Premio Nobel per la Pace nel 1993 ed eletto nel 1994 presidente del nuovo Sudafrica post-apartheid, Mandela ha cercato subito di rientrare nel “salotto buono” prendendo a tifare per Saddam Hussein e stringendo amicizia con Yasser Arafat, Fidel Castro, Muhammar Gheddafi e Robert Mugabe. Poi, da grande statista degno di un murale a Milano, nel 1996 ha varato la nuova Costituzione del Sudafrica: quella che estende come non mai l’aborto a richiesta, e che fa del Sudafrica il primo e sinora l’unico Paese ad avere legalizzato le “nozze” gay. Ma non è finita, fidatevi.
Mandela è stato il “re” del Paese in cui la peste dell’AIDS si è abbattuta come un flagello (il primo caso venne registrato nel 1982). Una peste che ha conosciuto un picco incredibile proprio durante la presidenza di Mandela, nel 1999. Perché? Perché la “nuova libertà” del Sudafrica ha trasformato il Paese in un postribolo on demand e le sue grandi città in un “paradiso dello stupro” dove per i neri violentare una vergine guarisce dal male. Fu allora che Mandela vestì i panni dello “sciamano” per bestemmiare l’Occidente, il suo diabolico capitalismo e la Cia, accusata di complottare con le case farmaceutiche la schiavizzazione dei poveri africani ai famosi e costosi antiretrovirali. Risultato, l’Aids ha continuato a falcidiare, anzi è aumentato; nel 2005 Mandela padre ci ha rimesso pure un figlio, il suo secondogenito, Makgatho Lewanika, stroncato 54 anni.
Ne ha bisogno Milano di un tipo così?
Marco Respinti
La chiesa del politicamente corretto ha canonizzato Nelson Mandela (1918-2013) già da vivo, puntando tutto sulla memoria corta del conformismo dominante; ma, si sa, le bugie hanno le gambe corte. A strappare indignati l’aureola speciosa che cinge la testa del leader sudafricano sono Giuseppe Brienza, Roberto Cavallo e Omar Ebrahime nel volume Mandela, l’apartheid e il nuovo Sudafrica. Ombre e luci su una storia tutta da scrivere (D’Ettoris, Crotone, pp.140, €12,90), prefato da Rino Cammilleri.
Liberato nel 1990 dopo 26 anni e mezzo di carcere, insignito del Premio Nobel per la Pace nel 1993 ed eletto nel 1994 presidente del nuovo Sudafrica post-apartheid, Mandela detto “Madiba” aveva infatti un pelo sullo stomaco lungo così. In carcere ci finì per terrorismo, legato com’era al Partito Comunista Sudafricano, bombarolo, e al suo leader, bianco, Yossel Mashel “Joe” Slovo. Presidente dell’African National Congress e fondatore del suo braccio armato, Mandela teorizzò la lotta di classe armata scrivendo cosucce tipo Come essere un buon comunista. I neri, infatti, li difendeva solo se erano rossi, e la lotta all’apartheid era un mero pretesto: «Il bianco», dichiarò a La Stampa il 23 agosto 1985, «deve essere completamente vinto e spazzato dalla faccia della terra prima di realizzare il mondo comunista». Attorno ebbe sempre un codazzo di estremisti, fra cui la prima moglie Winnie (ripudiata dopo la scarcerazione) che la giornalista Laurell Boyers (erede delle battaglie di Mandela) ricorda «come una volgare criminale», dedita solo a «una sequela di atrocità».
Da libero Mandela ha tifato per Saddam Hussein, stringendo amicizia con Yasser Arafat, Fidel Castro, Muhammar Gheddafi e Robert Mugabe. La nuova costituzione da lui varata nel 1996 estende come non mai l’aborto a richiesta, e fa del Sudafrica il primo e sinora l’unico Paese ad avere legalizzato le “nozze” gay.
E quando scoppiò truce la peste dell’aids, Mandela guardò altrove. Il primo caso registrato nel Paese è del 1982, e per Mandela e soci è sempre stato facile incolpare del cronico ritardo nel farvi fronte i segregazionisti incuranti dei neri, ma le realtà è ben diversa. L’aids s’impennò infatti proprio nel Sudafrica post-apartheid, quando la nuova libertà trasformò il Paese in un vero e proprio bordello a cielo aperto, e le grandi città divennero le capitali dello stupro soprattutto perché fra i neri si diffuse la credenza che il violentare una vergine li avrebbe guariti dal male. Il buon Mandela, allora, tetragono alfiere dell’antioccidentalismo, gran nemico degli organismi sovranazionali e torvo culture della teoria del complotto, accusò la CIA di cospirare con le case farmaceutiche per propagare l’idea che l’HIV fosse la causa dell’AIDS e spingere così la gente a farsi schiava dei costosi farmaci antiretrovirali mentre i suoi concittadini (fra cui uno dei suoi figli, nel 2005) morivano come mosche.
No, la faccia vera di Mandela non è quel santino che ancora gira come una madonna pellegrina.
Marco Respinti
Versione originale e completa dell’articolo pubblicato con il tittolo
Il lato oscuro del santificato Mandela, teorico delal violenza e amico dei tiranni
in Libero [Libero quotidiano], anno XLIX, n. 101, Milano 29-04-2014, p. 33
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