Se Hillary Clinton diventasse presidente degli Stati Uniti, gli americani pagherebbero più tasse. Molte di più. Moltissime. Lo dice l’ex Segretario di Stato stesso. L’Americans for Tax Reform (ATR), lo storico watch-dog fondato e diretto a Washington da Grover Norquist che impedisce a chicchessia di aumentare le imposte anche solo di un cent senza finire alla berlina, ha passato minuziosamente al setaccio le sue proposte e il suo programma e ne ha tratto un quadro devastante. Desolante. Deprimente.
Una Hillary eventualmente presidente che mantenesse le promesse elettorali abbatterebbero sui cittadini, sulle famiglie e sulle imprese americane una tempesta di un trilione di dollari di nuove tasse in dieci anni. Un trilione della scala corta dei numeri decimali secondo l’uso americano è un bilione della scala lunga secondo l’uso dell’Europa continentale, un milione di milioni, un tera di milioni, 1012, 1.000.000.000.000, un dollaro per ognuna delle stelle che compongono la galassia Andromeda, per ognuno dei link di Wikipedia, per ognuno dei decimali di π.
Aumento delle tasse sui salari, sul reddito, sulle imprese, sulle plusvalenze, sulle transazioni finanziarie, sulle proprietà, sulle armi, sulle bevande gasate e persino una nuova imposta in più, la “Exit Tax”. E tutto anche se aveva promesso (come più volte le ha rinfacciato anche Bernie Sanders nelle primarie) di non aumentare le tasse per i redditi inferiori a 250mila dollari annui.
Quanto alle tasse sui salari, l’ex First Lady ha spudoratamente promesso che si opporrà a qualsiasi riduzione. Quanto alle tasse sul reddito delle persone fisiche, Hillary prospetta un aumento di 350 miliardi di dollari complessivi fissando al 28% il tetto massimo delle deduzioni fiscali. Quanto alle tasse per le aziende, l’aumento globale prospettato è di 275 miliardi di dollari rastrellati attraverso la…. riforma delle tasse sulle aziende… No, non è uno scherzo: tant’è che la Clinton insiste proponendo altri 400 miliardi di dollari di aumento da rubricare alla voce “Fairness” Tax, vale a dire un aumento delle imposte… che «[…] riporti criteri imprescindibili di equità nel nostro codice tributario».
In specifico, sulle plusvalenze Hillary ‒ scrive John Kartsch dell’ATR ‒, «ha proposto il regime […] più complesso e bizantino di tutta la storia americana, con dieci diverse aliquote» comprese tra il 23,8% e il 43,4%, e sulle transazioni finanziarie ha promesso innalzamenti che penalizzeranno commercio, investimenti e risparmio.
Sulla proprietà, il suo piano originario era di appesantire le imposte di successione fino a raggiungere il 40-45%, ma poi ha incassato l’endorsement elettorale di Sanders e così ha reso finalmente evidente a tutti l’unico motivo per cui l’ex rivale è entrato nella sfida elettorale iscrivendosi al Partito Democratico da senatore indipendente che era, ha corso le primarie sempre senza speranza di spuntarla e vi è rimasto a lungo (nonostante lo sforzo fisico e i costi elevati) anche quando la matematica lo aveva già bocciato: spostare quanto più possibile a sinistra il baricentro della proposta presidenziale dei Dem e imporre a Hillary quanto più socialismo possibile (non che lei non ci avrebbe, e non ci avesse, già messo del proprio, ma dovendo corteggiare il jet-set di Wall Street, l’ex First Lady si è sempre mossa con i guanti di velluto). Il prospettato aumento clintoniano della “Death Tax” (come la chiamano negli USA) ha dunque raggiunto l’assurdità del massimalismo sandersiano: 65%. «La proprietà è un furto», diceva Pierre-Joseph Proudhon, e questo lo ripete oggi il mostro bicefalo Sanders-Clinton: sempre e solo però la proprietà degli altri, visto che Hillary e suo marito Bill hanno spostato l’intestazione della propria abitazione a un trust che li preserverebbe proprio da questi aumenti capestro.
Sulle armi, poi, l’aumento promesso è del 25% sulla vendita di nuovi prodotti: così Hillary disse fornendo una expertise alla Commissione finanze del Senato federale il 30 settembre 1993 e così ha confermato il 5 giugno 2016 in diretta televisiva su ABC. In più, la campionessa dei tassatori prospetta il raddoppio delle accise federali che già gravano sulle armi. Non paga, tasserà anche le bollicine imponendo aumenti che azzopperanno i consumatori di altri $2,16 ogni confezione da 12 lattine di bevande gasate.
Poi c’è la cosiddetta Carbon Tax, l’imposta sulle risorse energetiche che emettono biossido di carbonio nell’atmosfera: a Hillary piace molto e non potrebbe essere altrimenti, visto che la proposta d’introdurla è scritta nella “piattaforma” del Partito Democratico di quest’anno.
Infine c’è il colpo alla nuca chiamato “Exit Tax”, la prospettata imposta sui redditi guadagnati all’estero da quelle multinazionali nate negli Stati Uniti che poi cambiano identità. Non si tratta infatti di sporcaccioni che tirano a fregare il prossimo, ma imprenditori che cercano di sopravvivere al cappio che strozza il business. Le tasse sul reddito delle società, infatti (praticamente la nostra IRES), negli Stati Uniti ammontano al 39,6% (35% di aliquota federale, più una media di circa il 4% di aliquote statali); ovvero ‒ annota Alexander Henrie dell’ATR ‒ sono le più alte dei Paesi dell’OCSE di un 15% di media (per questo Donald J. Trump propone di abbassare l’“IRES americana” proprio del 15%). Dal 2000 a oggi 31 dei 34 Paesi dell’OCSE hanno ridotto proprio le tasse sul reddito delle società, ma Hillary propone di andare nel verso opposto. Ci si meraviglia che sia stata ribattezzata “Hellary”?
Marco Respinti
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