Non uno spettro, ma una bestia vorace si aggira oggi tra i banchi del Senato che vota il ddl Cirinnà. Lo chiamano “canguro”, ma non ha niente a che fare con i peluche e i teneroni. La sua anima è un buco nero che inghiotte tutto, spazza tutto, cancella tutto. Di professione fa il maxi-emendamento ed è quella cosa che quando il governo si è stancato di trastullarsi con i balocchi e i tweet butta a peso morto sul tavolo come una mannaia. Anzi, una ghigliottina, che fa più giacobino.
Il “canguro” si chiama così perché salta a piè pari tutto, se ne frega di tutto, impone su tutto la propria insindacabile, tirannica volontà. Ruffiano governativo, nella neolingua del pensiero poco che connota il nostro basso impero (e della sintassi brulla, dell’oratoria spoglia, della politica volgare) dicesi “canguro” l’ammucchiata di emendamenti non solo uguali (ché qui s’imporrebbe salubremente il rasoio di Occam) ma anche analoghi che permettono di passare disinvoltamente come uno schiacciasassi sul dibattito parlamentare. Una volta approvato o bocciato il primo emendamento, infatti, automaticamente decadono tutti gli altri. Dice l’Ansa che la neolingua della neopolitica sciatta ha già dato vita a numerosi derivati, come “cangurato”, “incangurabile”. Quattro salti nella realtà ne rivelano però tutta la mostruosità (dal latino monstrum, “portento”, ma per estensione più o meno “fenomeno da baraccone”).
Per definizione, il disegno (o progetto, o proposta) di legge è una bozza che dev’essere analizzata, discussa, eventualmente bocciata e sennò approvata per tradursi in legge. Il luogo dell’analisi e della discussione sono le Commissioni competenti prima e l’aula del Parlamento dopo. La discussione in aula davanti alla forca della bocciatura o dell’approvazione è il sale della democrazia rappresentativa. I cittadini pagano le elezioni, votano scegliendosi dei rappresentanti, e in Senato e alla Camera costoro si fanno latori, in base ai programmi dei partiti nelle cui fila sono stati scelti dai cittadini paganti, di indirizzi politici, orientamenti culturali, scelte civiche. In buona sostanza, i parlamentari sono la bocca dei cittadini paganti; in loro vece discutono e bocciano o promuovono un disegno di legge.
Ma se un “canguro” qualsiasi zompa in mezzo e ammazza lo spazio sovrano e intangibile della discussione la democrazia rappresentativa muore. La democrazia rappresentativa non deve discutere dei massimi sistemi, men che meno se i massimi sistemi esistono, sennò sarebbe lo Stato etico dei fascismi: deve invece litigare in modo maschio su come normare la convivenza tra gli uomini a valle dei massimi sistemi.
Strumento di maschio e libero litigio parlamentare è la contestazione, l’opposizione, la richiesta di chiarimento, la domanda di modifica, tutte cose che si manifestano concretamente nell’istituto dell’emendamento ai disegni di legge. A nome dei cittadini paganti che lo hanno votato, cioè, il parlamentare dice in pubblico che il disegno di legge taldeitali lui non lo voterà a meno che non vengano apportate certe modifiche. La legge non solo lo consente, ma lo caldeggia: altrimenti non vi sarebbe alcun disegno da approvare. Il disegno sarebbe ipso facto legge senza discussione, dibattito, valutazione, contestazione, richiesta di miglioria, voto libero e piena coscienza. Senza lo strumento degli emendamenti, la libertà del parlamentare materialmente non esisterebbe.
A cosa ammonta, dunque, un provvedimento che, posto d’imperio da chi ha i numeri parlamentari e il potere legale per farlo, zittisce la discussione libera attraverso il medesimo strumento che autorizza la libera discussione? A ciò che da che mondo è mondo è il contrario stesso della libertà politica di espressione. Che possa avvenire tranquillamente per via del tutto democratica è segno della malattia grave che affligge la democrazia. Esattamente come il suo contrario. Se la democrazia permette infatti quella caricatura della libertà che è l’ostruzionismo talebano dei milioni di emendamenti tutti cloni di se stessi, vomitabili sul Parlamento grazie un logaritmo matematico, è non meno gravemente malata.
E così, tra bulimia politica e anoressia culturale, l’opinionismo da bar sport o da bouvette avanza a passi da logaritmo o a salti da canguro strangolando la libertà ma usandole la carineria della finta scelta: «La morte o l’esilio?», chiede il tribunale giacobino ne Il cavaliere oscuro – Il ritorno. «Esilio», risponde l’innocente condannato che si sente però replicare: «E sia. Morte per esilio». Nel Parlamento italiano la libertà può scegliere se morire di bulimia o di anoressia.
All’ingresso di casa mia ho appeso una formella che comprai decenni fa al mercatino delle pulci di Ferrara. Una traduzione non identificata del Libro VIII de La repubblica di Platone:
«Quando un popolo, divorato dalla sete della libertà, si trova ad avere a capo dei coppieri che gliene versano quanta ne vuole, fino ad ubriacarlo, accade allora che, se i governanti resistono alle richieste dei sempre più esigenti sudditi, son dichiarati tiranni, e avviene pure che chi si dimostra disciplinato nei confronti dei superiori è definito un uomo senza carattere. Servo: che il padre impaurito finisce per trattare il figlio come suo pari. E non è più rispettato. Che il maestro non osa rimproverare gli scolari e costoro si fanno beffe di lui. Che i giovani pretendono gli stessi diritti, la stessa considerazione dei vecchi, e questi, per non parer troppo severi, danno ragione ai giovani. In questo clima di libertà, nel nome della medesima, non vi è più riguardo né rispetto per nessuno. In mezzo a tanta licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la tirannia». L’Italia s’è mesta. «È così che muore la libertà», dice la senatrice Padmé Amidala nel terzo episodio della saga di Star Wars, La vendetta dei Sith: «sotto scroscianti applausi».
Marco Respinti
Versione completa e originale dell’articolo pubblicato con il medesimo titolo
in l’intraprendente. Giornale d’opinione dal Nord,
Milano 16-02-2016
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