Più lo Stato islamico avanza, massacra e distrugge, più monta l’ennesima teoria del complotto, ovviamente antiamericana, antioccidentale, antisraeliana. È vero. Barack Obama manca del tutto, e non da oggi, di una politica estera ragionata e coerente, e le poche volte che è sceso direttamente sullo scacchiere internazionale lo ha fatto puntualmente dalla parte sbagliata, alimentando così i malumori e aumentando i dissapori. Ma questo non significa, come affermano i complottisti hard e soft, che l’Isis (o qualunque sia il l’ultimo nome assunto dall’ultimo incubo islamista) sia un prodotto della Cia. Con questo pensiero sullo sfondo della mente, abbiamo ragionato di Isis e dintorni con Massimo Introvigne, il noto sociologo delle religioni. Perché lui e non un professionista dell’analisi geostrategica internazionale? Perché rispetto a molti altri addetti ai lavori Introvigne non procede mai per compartimenti stagni, pretendendo d’isolare artificiosamente (e quindi erroneamente) il mondo delle religioni dal regno delle politiche economiche e militari.
«L’Isis nasce remotamente nel 2006», ricostruisce il sociologo, «quando Osama bin Laden (1957-2011) rompe, per motivi di strategia e di metodo, con il terrorista Abu Mus‘ab al-Zarqawi (1966-2006) attivo in Iraq e probabilmente fornisce agli americani informazioni su dove trovarlo e ucciderlo. Da allora fra al-Qa’ida e la sua filiale irachena c’è tensione, con occasionali ma temporanee rappacificazioni, finché la rottura si consuma nel febbraio 2014 e nasce quello che oggi viene chiamato Isis. Studi esaustivi su questa nuova organizzazione terroristica ancora non ce ne sono. Un buon libro è Le piège Daech. L’État islamique ou le retour de l’Histoire (La Découverte, Parigi) di Pierre-Jean Luizard, pubblicato in febbraio; intendiamoci, Luizard pensa peste e corna degli americani, ma è il maggiore esperto di cose irachene vivente».
Introvigne, perché Bin Laden ruppe con al-Zarqawi?
«Le cause storiche del dissenso tra al-Qa’ida e Isis sono due. Primo: la violenza estrema di al-Zarqawi ‒ grande fan delle decapitazioni in diretta streaming ‒ per al-Qa’ida non è teologicamente immorale, ma è sbagliata perché politicamente controproducente. Secondo: al-Zarqawi e oggi l’Isis, entrambi musulmani sunniti, pensano che i musulmani sciiti debbano essere semplicemente uccisi. Ripeto, uccisi: neppure cioè essere ridotti alla condizione di dhimmi, i cittadini di “serie B” (come i cristiani e gli ebrei), tollerati perché pagano un tributo, poiché la condizione di dhimmi non è prevista per gli eretici, quali i sunniti al-Zarqawi e Isis considerano gli sciiti. O convertiti o uccisi: questa la sorte che spetta loro. Bin Laden invece, pur venendo da una tradizione anti-sciita, ha sempre mantenuto rapporti con l’Iran della shi’a».
Solo questioni di “guerra civile teologica” intramusulmana, insomma…
«No, non solo quello. Vi è anche una distinzione strategica: al-Qa’ida e Isis pensano entrambi che sia venuto il tempo di trasformarsi da organizzazione terroristica a Stato, ma al-Qa’ida pensa a una costellazione di piccoli staterelli (se cade uno, restano gli altri) mentre l’Isis a un grande califfato mondiale (propagandisticamente seducente, ma se cade non resta più niente). A scanso di obiezioni prevedibili ma speciose, voglio precisare che queste distinzioni sono reali tanto che in Siria al-Qa’ida e Isis non si fronteggiano per mere disquisizioni teologiche, ma per scontri armati che comportano centinaia di morti. Certo, non si può però escludere che le divisioni attuali siano superabili. Nel passato i due gruppi erano uniti e potrebbero rimettersi insieme in futuro. Ma per ora le notizie su ipotetiche “fusioni” tra quei due mondi provengono solo da media arabi in forte odore di disinformazione alimentata da servizi segreti…».
Il successo odierno dell’Isis significa la sconfitta della prospettiva politico-culturale di al-Qa’ida?
«A differenza di al-Qa’ida, che ha governato malissimo i propri sultanati, spesso imponendo dirigenti stranieri, dove l’Isis governa gode di un certo genuino consenso della popolazione sunnita poiché si appoggia su leader tribali locali e perché fa leva su rivendicazioni di sunniti maltrattati da sciiti in Iraq o da alauiti (uno scisma della shi’a) in Siria. A breve, anzi a brevissimo termine, la risposta è dunque un parziale sì. Questo consenso all’Isis si estende infatti al mondo mediorientale in genere, dove molti vedono il Califfato come la prima realtà che ha fatto qualcosa contro la discriminazione dei sunniti a opera degli sciiti. Questo vale per l’opinione pubblica del Qatar e della Turchia, di cui i governi tengono conto. Quelli che vanno a combattere con l’Isis dalla Turchia provengono infatti dal medesimo bacino di utenza degli elettori del premier Recep Tayyip Erdogan».
Molti affermano, anzi gridano evidente che, pur avendo la possibilità concreta, i nemici dell’Isis esitano a fermarne la sanguinosa avanzata. In pratica, sarebbe un complotto. Cosa ne pensa?
«Penso piuttosto che ci sono diversi snodi politici che spiegano la difficoltà statunitense di fermare l’Isis. I principali sono due. Il primo riguarda i curdi. I turchi ‒ e per altri verso gl’iraniani (che però ovviamente sono sciiti e giocano dunque una partita diversa) ‒ non sostengono i curdi che stanno in prima linea contro l’Isis per due motivi. Il primo è che sono convinti che ai curdi non interessi fermare l’Isis, ma perseguire l’ideale di uno Stato curdo indipendente. A questo scopo, del resto, i curdi trattano occasionalmente anche con l’Isis, del che ci sono ampie prove. Il secondo è che per la Turchia, per l’Iran e anche per il governo di Baghdad la nascita di un Kurdistan indipendente è la peggiore delle sciagure, rispetto alla quale tenersi il califfato dell’Isis è di gran lunga preferibile. Dell’Iraq sarebbe infatti distrutta la (artificiale) integrità territoriale ‒ ogni componente etnica vorrebbe andare per conto proprio ‒ e, quanto alla Turchia e all’Iran, le regioni curde che si trovano all’interno dei loro confini comincerebbero ad agitarsi per unirsi al Kurdistan. Il secondo snodo politico riguarda il premier siriano Bashar al-Assad. La famiglia Assad, alauita, ha massacrato almeno 100mila sunniti, forse di più. Nessun politico sunnita che abbia bisogno del consenso perché ha ambizioni internazionali (Qatar) o perché a casa sua si tengono elezioni sostanzialmente “vere” (Turchia) può permettersi piani per la Siria che non contemplino la destituzione di Assad. Se li può permettere invece l’Egitto, perché lì le elezioni sono fasulle. La posizione della Turchia può non piacere, ma ha il pregio di essere chiara: noi interveniamo e spazziamo via l’Isis, ma ci lasciate arrivare a Damasco e impiccare Assad…».
Niente complotto, insomma. Perché altrimenti ne farebbe inevitabilmente parte Israele…
«Israele sostanzialmente ricava vantaggi dallo status quo. Il Califfato non lo minaccia direttamente giacché le sue priorità sono altre. Inoltre costringe gli sciiti libanesi di Hezbollah a mobilitarsi in forze per combattere l’Isis onde impedire che esso vinca in Siria con conseguente massacro di sciiti e alauiti anziché rivolgere le proprie attenzioni a Israele. Peraltro Israele gode di una vecchia sapienza politica: quando i musulmani si ammazzano tra loro si dedicano meno ad ammazzare gli ebrei».
E gli Stati Uniti, la cui schiacciante superiorità aerea spazzerebbe via l’Isis in un baleno?
«Gli Stati Uniti sono influenzati dalla posizione di Israele, che sostanzialmente non favorisce un intervento risolutivo contro l’Isis. Inoltre sono tra l’incudine e il martello perché si stanno convincendo che l’opposizione laica e democratica ad Assad non esiste. Intervenendo contro l’Isis irriterebbero Israele e favorirebbero una vittoria di Assad, che sarebbe nel contempo una vittoria di altri tre soggetti che non sono affatto amici degli Stati Uniti: l’Iran, Hezbollah e la Russia. Non intervenendo contro l’Isis si tengono il Califfato e le critiche dell’opinione pubblica. Può darsi che alcuni strateghi del Partito Democratico considerino la seconda situazione preferibile alla prima. Anche un’ipotetica amministrazione Repubblicana però si troverebbe di fronte agli stessi problemi, che sono oggettivi».
L’Isis però minaccia il nostro mondo anche da sud, dalla Libia…
«In Libia il Califfato controlla per ora una zona relativamente piccola. Il problema è quello dei due governi, il governo di Tobruk riconosciuto da Stati Uniti e Unione Europea, e il governo di Tripoli riconosciuto dalla Turchia e da vari Paesi arabi. Tra i due litiganti il terzo, l’Isis, gode».
Un vespaio immane da cui sembra impossibile uscire…
«La questione Isis non ha soluzioni facili. L’unica prospettiva seria è mettere attorno al tavolo tutti gli attori significativi ‒ comprese Russia e Turchia ‒ e trovare una soluzione condivisa alla “miccia” della situazione mediorientale, che è la Siria, con l’allontanamento possibilmente incruento di Assad e la transizione a un qualche governo gradito a russi, turchi, israeliani (silenziosamente) e americani, e per di più non male accetto alla popolazione. Ovviamente è molto difficile. In Iraq è necessario che siano date garanzie a sunniti e curdi da parte della maggioranza arabo-sciita, con una qualche soluzione di tipo genuinamente federale. In Libia non si sa neppure dove mandare delle truppe e contro chi, ma anche qui si tratta di far parlare le due parti con un misto di bastone e carota. Insomma, difficoltà enormi che però il continuo procrastinare non rimpicciolirà di certo. Anzi».
Marco Respinti
Versione completa e originale
dell’articolo pubblicato con il titolo
Introvigne: «Tutti i problemi di una vera guerra all’Isis»
in l’intraprendente. Giornale d’opinione dal Nord,
Milano 12-06-2015
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