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C’era una volta una principessa, anzi più di una. Un bel dì, dalle belle fiabe di una volta le principesse traslocarono nei lungometraggi della Disney e fu tutto uno sfoggio di strascichi e scarpette, animaletti festanti dei boschi, topini factotum, castissimi principi azzurri in trepida attesa del bacio del vero amore. Ma nell’ombra tramavano in agguato la matrigna rancorosa, la strega malefica, l’orco cattivo. Di solito nelle fiabe finisce che l’ombra del male si fa passeggera, i buoni vincono, e tutti vissero felici e contenti. Una volta, però. Adesso invece le principesse candide debbono fare la vita e marciare al passo dell’oca coi tempi. Per esempio abortendo. No, non è un incubo: è esattamente quello che vuole la Planned Parenthood, il più famoso e famigerato abortificio del mondo tra l’altro pizzicato con le dita nella marmellata a commerciare sottobanco i tessuti umani ricavati dalla mattanza.
Una sua branca, la Planned Parenthood Keystone di Trexlertown, in Pennsylvania, il 27 marzo ha stuprato il cinguettio degli uccellini di Biancaneve distorcendoli in un tweet così: «Abbiamo bisogno di una principessa Disney che abbia abortito. Abbiamo bisogno di una principessa Disney favorevole all’aborto. Abbiamo bisogno di una principessa Disney che sia un’immigrata clandestina. Abbiamo bisogno di una principessa Disney che sia un’operaria sindacalizzata. Abbiamo bisogno di una principessa Disney che sia un trans».
La tiritera interviene a gamba tesa in un trend oggi popolare sul web. In gergo si chiamano snowclone e sono dei template di frasi usate per certi tipi di meme costruiti rimpiazzando alcune parole con altre onde produrre significati surreali in una filastrocca ripetitiva e monocorde. Li potremmo chiamare variazioni su tormentone fisso. In questo caso il tormentone proposto è “We need a Disney princess, appunto «Abbiamo bisogno di una principessa Disney», a cui quelli che evidentemente durante il giorno hanno ben poco da fare attaccano ogni rigurgito gli passi a tiro. Di fatto gli snowclone li ha però inventati senza saperlo Lino Banfi negli anni 1970 interpretando il brigadiere Pasquale Zagaria, barese, il quale la parola d’ordine «Pare che il pompelmo faccia male» la storpiava in «Pere che il pompelmo faccia mele». Purtroppo però stavolta non c’è proprio nulla da ridere. Gli abortisti della Pennsylvania sognano davvero di adulterare i sogni dei più piccoli con unghiate di questo tipo. Sintomatico tra l’altro che gli abortisti della Pennsylvania mettano tutto assieme, aborto, immigrazione clandestina, sinistrismo e omosessualismo dando paradossalmente ragione a noi antiabortisti della Lombardia che non da oggi lo diciamo e lo ripetiamo.
Solo che a tirarle troppo poi finisce che ogni tanto le corde si spezzino. Dopo il tweet malvagio, i disneyani della rete sono infatti insorti. Tanto che l’ufficio centrale della Planned Parenthood ha dovuto fare dietrofront imponendo la cancellazione del messaggio infame.
Tutti è dunque bene quel che finisce bene? Nelle belle fiabe di una volta sì, ma oggi non c’è da giurarci. Perché intanto la bandiera è stata alzata. Scommettiamo che di qui a qualche tempo qualcuno realizzerà quell’idea malsana? Magari non sarà targata Disney, magari non sarà una principessa, ma l’enorme potere economico che la Planned Parenthood sa smuovere non farà certo fatica a trovare il personale adatto.
Del resto, qualche giorno prima, il 1° marzo, la Planned Parenthood dell’Indiana e del Kentucky ha lanciato un altro tweet con la frase «Alcuni uomini hanno l’utero» ripetuta 11 volte. E la lobby LGBT sta premendo da un paio d’anni proprio sulla Disney affinché nel sequel di Frozen. Il regno di ghiaccio (2013), il film animato campione assoluto d’incassi ispirato dal buon vecchio Hans Christian Andersen (1805-1875), che parrebbe in cartellone per quest’anno, Elsa, la regina dell’immaginario regno di Arendelle, la bellissima protagonista del lungometraggio segnata da un destino insolito che rischia di travolgerla, giustamente ammirata e amata dalle più piccole (e anche da qualche grande intelligente) come fulgido esempio di generosità e altruismo, tentata profondamente dal male ma capace coraggiosamente di vincerlo in un contesto dove trionfano l’amore puro e il senso della famiglia (e finalmente qualche ottima gag degna di un bel cartone animato, oltre a disegni sontuosi e a colori sgargianti), si riveli essere lesbica. La Disney sembrerebbe già piuttosto convinta.
L’allarme era del resto già scattato nel 2016, quando sembrava che Alla ricerca di Dory mostrasse una coppia lesbica: due donne che spingono un passeggino. Magari sono amiche o sorelle. Magari. Per la Disney infatti ognuno è libero di vederci quel che vuole, perché, come ha detto il regista Anmdrew Santon, «non c’è una risposta giusta e una sbagliata». Insomma, si tratta solo di pasturare ancora il pubblico e alla fine pagheranno pure il biglietto facendo la fila. La caccia morbosa ai più piccoli è aperta da un bel po’.
Marco Respinti
Adesso il profeta della “teoria del tutto” sa davvero tutto. Stephen W. Hawking, morto ieri 76enne a Cambridge, sa benissimo quanto siano state stupide le parole che a metà del maggio 2011 disse all’intervistatore di The Guardian, Ian Sample: «Considero il cervello come un computer che smetterà di funzionare quando i suoi componenti verranno meno. Non c’è alcun paradiso o vita oltre la morte per i computer rotti; è una fiaba per chi ha paura del buio». Ricordiamoci di lui nelle nostre preghiere.
Fisico e matematico, ha dominato per decenni le scene di una scienza, l’astrofisica, che non esisterebbe se non fosse per il padre gesuita emiliano Angelo Secchi (1818-1878), sbeffeggiato durante il Risorgimento per la sua fede e la sua fedeltà al Papa, il quale l’ha fondata essendo il primo che, studiando la composizione chimico-fisica delle stelle (e fondando così pure la spettrometria astronomica e la classificazione stellare, oltre a una pletora di altre discipline), intuisce quanto l’astronomia debba farsi coscientemente fisica dei corpi celesti per sondare, oltre la semplice osservazione, le proprietà degli astri e investigarne le meccaniche. È se non altro curioso, visto che Hawking è stato un meritatamente famoso nemico giurato di qualsiasi prospettiva teleologica e teologica, di ogni pur minima possibilità, cioè, che la fisica dell’Universo sia compatibile con una prospettiva trascendente e per ciò stesso un propagandista di una delle più grandi fake news della storia occidentale: l’incompatibilità fra scienza e fede cristiana, una bugia inventata a tavolino per motivi propagandistici da due statunitensi dell’Ottocento, il fisico John William Draper (1811-1882), autore, nel 1874, di History of the Conflict between Religion and Science, e il diplomatico Andrew Dickson White (1832-1918), autore, nel 1896, dei due tomi di cui si compone History of the Warfare of Science with Theology in Christendom. Per dimostrargli personalmente che non è vero e che la fede non ha mai paura né della verità né degli anti-Dio come lui, la Pontificia Accademia delle Scienze ha eletto Hawking membro nel 1986.
Nato a Oxford nel 1942, a 17 anni Hawking entra nello University College della medesima cittadina inglese dove poi si laurea in Scienze naturali nel 1962. S’iscrive quindi a Cosmologia nell’Università di Cambridge e nel 1966 consegue il dottorato in Matematica applicata e in Fisica teorica. Dopo avere lavorato a fianco del celebre matematico britannico Roger Penrose sui cosiddetti “buchi neri” ed essere stato, dal 1970, visiting professor al California Institute of Technology di Pasadena, nel 1979 viene nominato titolare della cattedra lucasiana di Matematica nell’Università di Cambridge, dove insegna per 30 anni fino al 2009. Da allora e fino a ieri ha diretto il Dipartimento di Matematica applicata e Fisica teorica.
Nel 1988 pubblica il primo libro che lo rende celebre, basato su studi e ipotesi messe a tema tra il 1965 e il 1970: A Brief History of Time: From the Big Bang to Black Holes, pubblicato in italiano nello stesso anno dalla milanese Rizzoli come Dal big bang ai buchi neri. Breve storia del tempo. È il lavoro con cui lo studioso suggella l’abbandono del concetto metafisico di Dio per sostituirlo con un surrogato panfisicista: l’ipotesi della grande unificazione. Si badi: la chiamano tutti “teoria della grande unificazione”, ma è un errore madornale. Non è affatto una “teoria”, bensì solo una ipotesi, e tale resterà finché, come prescrive il metodo scientifico universalizzato da Galileo Galilei (1564-1642), non sarà provata, riprovata e comprovata empiricamente. Quell’ipotesi, dunque, cerca di unificare in una solo descrizione tutte le forze fisiche fondamentali della natura, soprattutto quella di gravità. I modelli proposti sono diversi e nessuno è universalmente accettato oggi da tutta la comunità scientifica. Fra essi c’è anche quello che è stato chiamato (inizialmente per celia) “teoria del tutto” di cui appunto Hawking è stato un assertore convinto.
Per l’astrofisico, infatti, la “teoria del tutto”, quando dimostrata, sarebbe la conquista definitiva del modo di ragionare di Dio. Per ciò stesso, allora, un trionfo assoluto della mente umana, capace di esaurire per intero quella divina. Che pertanto non è affatto tale, a meno di non intendere “divino” come una metafora. Del resto, la coincidenza fra la mente divina e quella umana farebbe concludere che l’unico vero Dio è l’uomo. Hawking, infatti, se dapprima non esclude in ipotesi l’idea di Dio, dopo averla minuziosamente demetafisicizzata e ridotta a capacità suprema della ragione umana, ne decreta la superfluità totale. Che bisogna c’è di Dio per spiegare l’Universo se l’Universo si spiega con la “teoria del tutto” attingibile perfettamente dalla ragione umana?
Morto il Dio metafisico, entra in scena allora la nuova divinità panfisicista: un Universo che si spiega da sé attraverso le proprie stesse leggi. La formulazione rotonda di questa visione è contenuta in un altro suo libro celebre, The Great Design, pubblicato nel 2010 assieme al fisico statunitense Leonard Mlodinow e tradotto in italiano come Il grande disegno (Mondadori, Milano 2011). Dio è inutile e l’Universo si crea spontaneamente per effetto della legge di gravità: stante che la gravità è la prima delle forze fisiche fondamentali che la “teoria del tutto” cerca di unificare, la sua mera esistenza produrrebbe automaticamente l’essere, cioè l’Universo, invece del nulla. Secondo Hawking, e Mlodinow, Dio è solo un trucco: l’attribuire quel nome a ciò che altro non è se non l’Universo stesso. Il creatore e la creatura, insomma, coinciderebbero. Ma è vero invece il contrario: il trucco è avere spodestato il Dio metafisico per poi sostituirlo con un surrogato, l’Universo che si autogenera. A Hawking ha risposto bene il matematico nordirlandese John C. Lennox, docente nell’Università di Oxford, con un librettino aureo, God and Stephen Hawking: Whose Design Is It Anyway? (Lion, Oxford 2011). Oltre che ateo, Hawking si è sempre professato panteista e Il grande disegno – la summula del suo pensiero – lo mostra bene. Ma Il grande disegno rivela anche un’angoscia terribile: la necessità che Hawking ha proprio di Dio. Deciso a non darla vinta al Dio metafisico, lo scienziato lo ha combattuto sostituendolo con un sosia. Sete di Dio portata fino alla truffa.
Esiste però anche un altro Hawking, anzi ne esistono altri due.
Uno è l’autorità in materia di “buchi neri”. Le sue scoperte in questo campo sono numerose. Nella teoria delle relatività generale einsteniana, un buco nero è una regione dello spaziotempo (la struttura a quattro dimensioni dell’Universo, il palco su cui si muove la realtà fisica tutta) dove l’intensità enorme del campo gravitazionale non permette a nulla di sfuggire all’esterno, nemmeno alla luce, e che sarebbe il risultato del collasso su sé stessa di una stella di massa enorme. Ma sui “buchi neri” molto è ancora allo stadio di mera speculazione, compreso quel che ha affermato Hawking. Per certi scienziati i “buchi neri” forse nemmeno esistono. Come che sia, nel gennaio 2014 è stato proprio Hawking ha portare scompiglio fra le proprie certezze, stravolgendo addirittura l’idea base e nota anche ai profani secondo cui il “buco nero” sarebbe un mostro spaventoso in forma di pozzo senza né fondo né via di uscita in agguato negli spazi siderali. Tutto da rifare. Ma se la scienza, e Hawking per primo, non sa nulla di certo su questi “buchi” che non a caso sono neri, come fa la scienza, e Hawking per primo, a decretare con certezza l’inutilità di Dio?
Il terzo e ultimo Hawking è l’uomo a cui nel 1963 diagnosticarono una terribile malattia degenerativa dei motoneuroni che alcuni hanno creduto d’identificare con la sclerosi laterale amiotrofica e che per altri sarebbe invece un’atrofia muscolare progressiva, meno micidiale. Si fa per dire: perché Hawking progressivamente si è rattrappito facendosi un mucchietto informe di ossa, nervi e carne, immobile dagli anni 1980, condannato alla carrozzella e in seguito, a causa di una tracheotomia resasi necessaria dopo una polmonite che nel 1985 quasi lo uccideva, pure incapace di proferire parola se non attraverso un sintetizzatore vocale finito persino in una canzone dei Pink Floyd. Ad averlo saputo, uno così, per il mondo in cui stiamo, nemmeno doveva nascere. E invece è stato uno dei più acuti cervelli del secondo Novecento e rotti. Una volta diagnosticata la malattia, uno così, per il mondo in cui stiamo, avrebbe dovuto farla finita. La prima confutazione di questi sofismi è lo stesso Hawking, al quale nel 1963 avevano dato due anni di vita. Ha vissuto oltre, dando il meglio di sé dopo quella sentenza capitale. Il male ha proceduto in lui in un modo che nessuno avrebbe mai potuto ipotizzare. Appunto. Se Hawking avesse scelto l’eutanasia, il mondo non avrebbe mai conosciuto il suo genio. A dire il vero Hawking al suicidio assistito e all’eutanasia ci ha pensato facendo campagna in loro favore, ma non le ha mai scelte.
Nel 2014 sulla sua vita è uscito un lungometraggio diretto da James Marsch, ovviamente intitolato La teoria del tutto. È tratto dalla biografia Travelling to Infinity: My Life With Stephen (trad. it. Verso l’infinito, Piemme, Casale Monferrato [Alessandria] 2015), pubblicata nel 2007 dalla sua ex moglie, Jane Wilde, madre dei suoi tre figli. Jane e Stephen si sono sposati dopo la malattia di lui, nel 1965, più o meno quando lui avrebbe dovuto morire. Hanno divorziato nel 1995 e si sono risposati entrambi (lui ha divorziato pure dalla seconda moglie nel 2006). Il film è la storia di un uomo e di uno scienziato che non si arrende, che non lascia alla morte l’ultima parola. Un uomo arguto e faceto (trovava l’ipotesi del multiverso interessante ma problematica: se uno non ricorda dove ha parcheggiato l’auto…) diverso dal musonismo eutanasista. Anche il film racconta che quando nel 1985 la polmonite lo stava per uccidere e i medici volevano staccare le spine che lo tenevano in vita Jane ha salvato. È lei che il mondo deve ringraziare per il genio impertinente di Hawking A volte persino le ex mogli ti salvano. Ecco, fra “teoria del tutto” e fame di vita Hawking ha finito per essere un grande testimonial riluttante di Dio.
Marco Respinti
Charles Manson è morto domenica sera alle 20,13 (ora locale) al Kern County Hospital di Bakersfield, in California, dov’era ricoverato per emorragia intestinale. Aveva 83 anni. Nel 1969 aveva massacrato senza una ragione apparente otto persone (anche se tutti ne contano sette perché una era ancora nel grembo di sua madre). Nel 1971 è stato condannato a morte, ma l’hanno dopo lo ha graziato l’abolizione della pena capitale in California. Il resto dei suoi giorni li ha passati nella prigione statale di Corcoran. Chi è stato davvero Charles Manson? Un guru pop. Lo spiega bene la sua storia.
Nel 1934 nasce a Cincinnati, in Ohio. Il padre non sa chi sia, la madre invece sì: una prostituta alcolizzata. Viene su a furti e rapine, diventa un habitué del carcere e in cella inganna il tempo leggendo di occultismo e ipnosi. Intanto, fuori, scoppia il Sessantotto. In realtà il calendario dice che il 1968 è ancora di là da venire, ma negli Stati Uniti quella data fatidica è lunga almeno un decennio di sex and drugs and rock and roll. C’è di più, molto di più nei “Sixties” americani, ma quel motto dello sballo, reso canonico dal cantante punk inglese Ian Dury (1942-2000) con un hit single omonimo del 1977, rende bene il concetto. Sono gli anni della rivoluzione sessuale, del delirio di onnipotenza cheap regalato dalla pillola contraccettiva, della famiglia che inizia a scoppiare, delle autorità contestate per principio a monte di qualsiasi fatto, delle tonache alle ortiche e delle droghe che surrogano la religione. Quella chiamata, cioè, controcultura, che il rock and roll, un termine-magazzino dove ci s’infila di tutto, socializza in uno stile di vita. Manson vive nel luogo adatto, la California dell’utopia psichedelica che rende possibile tutto e leggero il nulla.
Quando il 21 marzo 1967 esce di prigione ha passato più di metà dei suoi 32 anni di allora dietro le sbarre (o in istituti para-carcerari), ma soprattutto è un “alternativo”. Vanno di moda le comuni, i “Macondo”, le ammucchiate e così anche Manson progetta il proprio quarto d’ora di promiscuità psicotropa. A San Francisco fonda “The Family”, una setta. Una setta vera perché ha pressoché nulla a che fare con la religione e tutto invece con l’ideologia: l’ideologia, ovvio, di quegli anni un po’ hipster, un po’ beatnick e un po’ compagni, cioè più pensiero debole che altro, e più pensiero sciatto che pensiero debole. “The Family” è sostanzialmente un gineceo prostrato ai piedi di Manson e sennò una banda. Tirano avanti a rapine, filosofeggiano a botte di droga e contestano i borghesi con sessioni gimnosofistiche e terapeutiche di sesso di gruppo. Manson è il “santone”. A volte si definisce “dio”, altre una reincarnazione di Gesù. E scrive, scrive canzoni “diverse” come fa ogni buon figlio della controcultura, canzoni che però nessuno fila.
Cosa scatti poi nella sua testa forse non lo saprà mai nessuno. Fatto sta che nel 1969 precipita nell’abisso. La sua gang di lestofanti porno-allucinati alza il tiro. La scena del crimine sono le ville dei paraggi della Los Angeles ricca. Il 31 luglio la setta ammazza Gary Hinman, un insegnante di musica, quindi, il 9 agosto l’attrice Sharon Tate, moglie del regista Roman Polanski, il bambino di otto mesi
che ella porta in grembo e quattro amici della coppia. Il giorno dopo tocca a un imprenditore e a sua moglie. Dietro a tutto c’è Manson, organizzatore, regista, demiurgo. Perché? Appunto. Manson vaneggia di trionfo del caos, di guerra razziale (vuol fare incolpare i neri di un massacro di bianchi), di Helter Skelter. La banda scrive queste e altre parole d’ingiuria sui muri e su uno specchio di villa Polanski, col sangue. Helter Skelter è un brano del “White Album” dei Beatles, anno 1968, scritto da Paul McCartney. Brano brutto e confusionario. Manson ci legge la sua “imminente” guerra razziale, il disordine totale (anche se il titolo fa riferimento agli scivoli a tortiglione dei Luna Park) e per lui i “Fab Four” non sono che i quattro cavalieri dell’Apocalisse. La Beatlemania di Manson è del resto una telenovela delirante che non finisce lì.
A confessare Manson non ci ha mai pensato. Lo hanno inchiodato come mandante. In aula arriva con una X che si è scarnificato in mezzo agli occhi; in cella la trasformerà in uno svastica. Nel suo monumentale e onnicomprensivo Satanism: A Social History (Brill, Leida 2016), il sociologo Massimo Introvigne recensisce anche la sua raccapricciante vicenda per concludere che qui il satanismo non c’entra. Se ne parla sempre perché quando gli ammazzano la moglie e il figlio Polanski ha appena finito di girare Rosemary’s Baby, una storia di stregoneria e California in cui una donna partorisce il figlio di Satana, e sua moglie è appunto incinta (la notte dell’omicidio di Sharon lui è a Londra per lavoro). Poi per via di quell’Helter Skelter e per il fatto che alcuni elementi di The Family hanno avuto contatti con Anton LaVey (1930-1997) la cui Chiesa di Satana è però un caso tipico di “satanismo acido”, più che altro, ancora una volta, LSD e orge.
Sociologicamente, infatti, Manson è il prodotto di una famiglia sbalestrata, della droga e del carcere. Storicamente, è l’esito parossistico della controcultura che ha fatto dell’infrazione di ogni norma la regola. Tirare in ballo il satanismo, impedisce cioè di vedere che quella stessa controcultura, una volta scaricato sul “parafulmine Manson” ogni biasimo, è diventata l’industria che ha normalizzato nella quotidianità più banale tutti i capisaldi di sesso, droga e rock and roll dei Sixties, che ha reso unisex il pensiero, che ha transgenderizzato le generazioni (lo spettacolo frusto di giovani vecchi mescolati a vecchi giovanilistici), che ha massificato gl’individui assoluti e che ha socializzato il nichilismo (sempre «nichilismo gaio», come diceva Augusto del Noce).
Manson stesso è un’industria pop: è diventato copertina di Rolling Stone, romanzo, film, commedia, serial tivù, cartone animato, opera teatrale e musical. Le sue canzonacce sono il trionfo vintage del trash, ripescate da discografici e band di oggi. Il cantante dei Guns’n’Roses sfoggiava il famoso sguardo allucinato di Manson sulle t-shirt; il nome d’arte del cantante americano Brian Warner è Marylin Manson, mix tra il fu ergastolano e la Monroe, altra icona della lubricità Sixties; e i Kasabian, beniamini dei teen-ager, si chiamano così in omaggio a Linda Kasabian, una della banda di Manson, il cui cognome, armeno, significa “macellaio”. E poi c’è la storia strombazzata dai media di Matthew Roberts, dee-jay di Los Angeles che nel 2009 scopre di essere figlio di Manson e Manson che in prigione quasi convola a nozze a 80 anni con l’allora 26enne Afton Elaine Burton. O Quentin Tarantino che su di lui sta ultimando le riprese della sua nona pellicola.
Mario A. Iannaccone ha scritto Meglio regnare all’inferno. Perché i serial killer popolano il cinema, la letteratura e la televisione (Lindau, Torino 2017) per raccontare la trasformazione del maligno in eroico di culto con cui si sta dando il colpo di grazia a quel che resta di famiglia, società e ordine naturale. L’anno venturo ricorre mezzo secolo dal Sessantotto, 50 anni di controcultura in cui la rivoluzione ha sfasciato e il riflusso ha messo sotto contratto e serializzato lo sballo. Manson lo spiega certamente più Andy Warhol che un esorcista. Certo, poi il diavolo la coda la mette dove vuole.
Marco Respinti
I martiri del Giappone, oggetto di una persecuzione feroce con davvero pochi pari nella storia, sono il modello per la nuova evangelizzazione di un Paese fortemente secolarizzato, dove peraltro i cattolici sono una minoranza esigua (650mila su una popolazione di 120 milioni di abitanti).
Lo ha detto Papa Francesco nella lettera inviata il 14 settembre ai vescovi del Sol Levante in occasione della visita pastorale del cardinale Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, che si concluderà domani, 26 settembre. «Desidero confidarvi», ha scritto il Pontefice, «che, ogniqualvolta penso alla Chiesa in Giappone, il mio pensiero corre alla testimonianza dei tanti Martiri che hanno offerto la propria vita per la fede. Da sempre essi hanno un posto speciale nel mio cuore: penso a san Paolo Miki e ai suoi compagni, che nel 1597 furono immolati, fedeli a Cristo e alla Chiesa; penso agli innumerevoli confessori della fede, al beato Justus Takayama Ukon, che nello stesso periodo preferì la povertà e la via dell’esilio piuttosto che abiurare il nome di Gesù. E che dire dei cosiddetti “cristiani nascosti”, che dal 1600 fino alla metà del 1800 hanno vissuto in clandestinità pur di non abiurare, ma preservare la propria fede […]?».
Lo aveva del resto già detto il 20 marzo 2015 allo stesso episcopato giapponese, ricevuto ad limina apostolorum: «La Chiesa in Giappone ha sperimentato abbondanti benedizioni ma ha anche conosciuto sofferenze. A partire da queste gioie e dolori, i vostri antenati nella fede vi hanno trasmesso un’eredità viva che oggi adorna la Chiesa e incoraggia il suo cammino verso il futuro. Tale eredità si fonda sui missionari che per primi raggiunsero queste sponde e proclamarono la Parola di Dio, Gesù Cristo. Pensiamo in particolare a san Francesco Saverio, ai suoi compagni, e a tutto coloro che nel corso degli anni offrirono la propria vita al servizio del Vangelo e del popolo giapponese. La testimonianza a Cristo portò molti di questi missionari, come pure alcuni dei primi membri della comunità cattolica giapponese, a versare il proprio sangue e, attraverso quel sacrificio, recò molte benedizioni alla Chiesa, rafforzando la fede del popolo. Ricordiamo in particolare san Paolo Miki e i suoi compagni, la cui salda fede in mezzo alle persecuzioni divenne un incoraggiamento per la piccola comunità cristiana a perseverare in ogni prova». Aggiungendo: «Quest’anno celebrate un altro aspetto di questa ricca eredità, ossia la comparsa dei “cristiani nascosti”. Anche quando tutti i missionari laici e i sacerdoti vennero espulsi dal paese, la fede della comunità cristiana non si raffreddò. Anzi, i tizzoni della fede che lo Spirito Santo accese attraverso la predicazione di quegli evangelizzatori e sostenne con la testimonianza dei martiri restarono al sicuro, grazie alla sollecitudine dei fedeli laici che conservarono la vita di preghiera e di catechesi della comunità cattolica in una situazione di grande pericolo e di persecuzione».
Di questa epopea gloriosa si sa purtroppo ancora poco; gli stessi cattolici conoscono a mala pena la storia di questi lontani fratelli coraggiosi come non mai. Qualche squarcio si è aperto con la beatificazione di Takayama Ukon (1552-1615), il “samurai di Cristo”, il 17 febbraio scorso. Qualche spiraglio ulteriore lo ha permesso il film Silence di Martin Scorsese, ma lì la vicenda, com’è noto, è controversa, persino scabrosa. È infatti la storia di un’apostasia, dolorosissima, che rischia di scoraggiare. Una volta tanto, però, la realtà è più bella dell’immaginazione. Tra coloro che abiurarono Cristo nel dolore della sofferenza c’è infatti un “infiltrato”; uno, cioè, che fu solamente scambiato per un apostata, ma che invece la fede la conservò.
Nel 1582, su iniziativa del missionario gesuita italiano Alessandro Valignano (1539-1606), tre daimyō giapponesi convertiti al cristianesimo inviarono l’ambasciata Tenshō alle corti d’Europa. La missione diplomatica era composta da quattro giovani giapponesi e dal gesuita portoghese Diogo de Masquita (1551-1614); durò otto anni e mezzo nel corso dei quali incontrò anche i Papi Gregorio XIII (1502-1585) e Sisto V (1521-1590). Al rientro, nel 1590, quei legati vennero accolti come eroi, ma il vento era cambiato. Dal 1587, infatti, il daimyō Toyotomi Hideyoshi (1536-1698) aveva bandito i missionari cristiani, anche nel tentativo di sottomettere gli altri signori feudali convertiti, e presto la tragedia si abbatté violenta. Il 5 febbraio1597 toccò al gesuita san Paolo Miki (1556 ca-.1597) e ad altri suoi 25 compagni, crocifissi a Nagasaki.
Ora, una volta rientrati in patria, i quatto componenti giapponesi della famosa spedizione del 1582 si fecero anch’essi gesuiti. Si è sempre ritenuto, però, che uno di loro, Miguel Chijiwa (1569?-1633) avesse alla fine abbandonato la fede, ma non è così. Nella sua tomba sono state ritrovati i grani (fatti di perline, alcune confezionate in Europa) del rosario con cui fu sepolto. Ecco perché Papa Francesco ammira e ama l’esempio dei martiri e dei testimoni giapponesi: quella che in loro il Pontefice vede e addita a tutti è la santa ostinazione del cattolico che non si arrende, la vocazione del cristiano chiamato a essere sempre niente di meno che un eroe. Piccoli, grandi samurai di Cristo in ogni momento e frangente a prezzo del ridicolo, della persecuzione, della morte. È la spiritualità adatta a questi tempi, la spiritualità cristiana di sempre.
Marco Respinti
L’uragano Harvey ha devastato il Texas. Le immagini di morte e distruzione che ha seminato sul proprio cammino sono state trasmesse in mondovisione. Il cordoglio è stato unanime. Per un attimo (sì, soltanto un attimo) si sono fermate, come sospese a mezz’aria, persino le polemiche scatenate quotidianamente contro il presidente Donald J. Trump, peraltro subito accorso sui luoghi del disastro. L’unico che invece non ha rallentato la propria lena è il demonio.
Venerdì l’altro era il 1° settembre, inizio del nuovo mese. Data perfetta per reclamizzare il lancio di un sensazionale saldo stagionale della durata appunto del solo mese di settembre. La catena texana di abortifici Whole Woman’s Health (un nome la cui ipocrisia mortale proferita col sorrisetto sulle labbra fa prudere le mani) offre a tutte le donne incinte travolte dalla furia di Harvey di uccidere il bimbo che hanno in grembo senza sborsare un cent. Solo a loro. Per il limitato periodo di trenta giorni. Occasione unica, offerta imperdibile: mancano solo gli sconti per comitive. Il claim pubblicitario recita così, sloganistico come impone il prendere-o-lasciare del “tutto è business”, gelido come si trattasse di peperoni venduti a cassette intere: «Per il mese di settembre forniamo aborti gratuiti per pazienti colpite dall’uragano Harvey. Vogliamo aiutare. Chiamaci». «Vogliamo aiutare»? «Pazienti»? Sì, perché “ovviamente” la gravidanza è una malattia, una iattura, a cui gli angeli della morte pongono rimedio. Non centra un fico secco, l’aborto, con l’uragano Harvey, ma gli alacri zeloti del nichilismo sono attentissimi a non perdere un colpo. Sbirciano da dietro l’uscio, origliano, bisbigliano; e appena si presenta l’occasione buona, saltano fuori gridando a pieni polmoni: “Venghino, venghino siore. Qui si dan via aborti come i soldati americani distribuivano la cioccolata ai sciuscà dell’Italia liberata”.
La presentazione della mortale campagna texana prosegue così: «Sfortunatamente, sappiamo tutti sin troppo bene che in alcune parti del Paese può essere difficile accedere all’aborto, specialmente in Texas». Vero. Per merito dell’Amministrazione Trump che alle strutture abortive ha chiuso i rubinetti pubblici lasciati invece scrosciare per otto anni da Barack Obama, motivo per cui molti abortifici sono finito sul lastrico chiudendo i battenti. Particolarmente in Texas, dove il governatore, cattolico, Greg Abbott, ha applicato localmente la direttiva nazionale con grande celerità. «Già ci sono tante barriere che ostacolano l’accesso a questa procedura necessaria», prosegue la campagna della Whole Woman’s Health, «poi arrivano i disastri naturali a mettersi di mezzo alle donne che cercano di arrivare al proprio appuntamento e/o cercano di permettersi le cure». Sembra di essere su “Scherzi a parte”. L’aborto è una «procedura necessaria»? Le intemperie cattive che fanno fare tardi dal macellaio di bambini? Cure, quali cure, l’aborto è una cura?
Le cliniche di Houston hanno chiuso per allagamento e dunque, dice la Whole Woman’s Health, urgono aiuti: quelli del Lilith Fund for Reproductive Equity di Austin e quelli dello Stigma Relief Fund. La seconda è la “finanziaria” della Whole Woman’s Health che raccoglie dollari per pagare gli aborti ai poveri. La prima paga pure gli aborti di chi non se li può permettere, ma perché diamine porta il nome di un demone femminile degli antichi culti mesopotamici? Lilith infatti, ritenuta portatrice di sciagure, malattie e morti (originariamente legati alle tempeste, curioso visto il frangente dell’uragano Harvey), era identificata nei testi cabalistici e talmudici ebraici prima come la moglie originaria poi ripudiata di Adamo poi come un demone notturno, nel Medioevo associata all’adulterio, alla stregoneria e alla lussuria, prezzemolo di un certo occultismo moderno, nel neopaganesimo contemporaneo associata all’inquietante culto della Grande Madre e in certa pop culture descritta come la madre di tutti i vampiri.
La Society for the Protection of the Unborn Child, la più grande e antica organizzazione pro-life britannica, ricorda del resto che forse l’iniziativa dell’abortificio texano di uccidere bambini gratis è stata imbeccata il 31 agosto da una femminista che, nel mezzo dello scempio, mentre in Texas si precipitavano solerti i primi soccorritori, non ha trovato di meglio che twittare così: «Posso suggerire, tra le vostre donazioni per l’#Harvey relief, di prendere in considerazione anche l’idea di donare a un fondo texano per l’aborto? C’è bisogno pure di questo». Lo stesso 31 agosto, infatti, il Lilith Fund ha lanciato la campagna di raccolta. Di più ancora.
Oggi Abby Johnson ha 37 anni. È diventata famosa per avere abbandonato nell’ottobre 2009 la direzione di una clinica della Planned Parenthood (il maggior abortificio del mondo) dopo esserne stata nominata “impiegata dell’anno” nel 2008. Ciò che l’ha trasformata nell’indomabile attivista pro-life che è oggi è stato l’avere assistito in diretta a un aborto guidato dagli ultrasuoni. Abby ricorda che i suoi vecchi datori di lavoro, appunto la famosa e famigerata Planned Parenthood già coinvolta nel traffico di resti fetali esito di aborti, fece lo stesso quando l’uragano Katrina devastò la Louisiana nell’agosto 2005. Il diavolo probabilmente, s’intitola quel vecchio film di Robert Bresson.
Marco Respinti
Versione completa e originale dell’articolo pubblicato con il medesimo titolo
in La nuova Bussola Quotidiana, Monza 09-09-92017
Francamente l’unico dubbio è se rubricare il nuovo furore iconoclasta che ha scatenato la “guerra delle statue”, le voglie degli anticattolici e il cupio dissolvi dei cattolici adulti alla voce “comiche” o alla voce “scemenza”.
La cronistoria di questo delirio registra infatti una nuova vittima eccellente: nientemeno che una pietra miliare della storia del cinema, quel Via col vento (Gone with the Wind) vincitore di otto Oscar che nel 1939 il regista David O. Selznick (1902-1965) trasse dall’omonimo romanzo di Margaret Mitchell (1900-1949) ‒ la quale ci vinse il Pulitzer nel 1937 e fu candidata al Nobel l’anno dopo ‒ che tutti hanno visto e rivisto senza scandalo, ma che adesso un cinema di Memphis, in Tennessee, l’Orpheum Theater, ha deciso di eliminare dalla programmazione perché “razzista”.
Ci vuole però un pelo sullo stomaco lungo così. Davvero qualcuno pensa che le nostre nonne e le nostre mamme, estasiate dal beffardo e aitante Rhett Butler interpretato da Clark Gable (1901-1960), siano state delle suprematiste bianche? E allora perché bloccare il film? Forse per la ragione esattamente opposta.
Forse perché il Sud dei “sudisti” che ne esce è diverso dall’inferno descritto dai professionisti dell’antirazzismo; forse perché quella rappresentazione pur cinematografica è un tantino più vera di ciò che i liberal millantano. Per la verità la trama privilegia il filone rosa: il complicato rapporto di amore e odio che la frivola e intrigante Rossella O’Hara, interpretata da Vivien Leigh (1913-1967), intrattiene con molti maschi della pellicola. Ciononostante qua e là emerge un mondo di gentiluomini e tradizioni, orgoglio e patriottismo, e più servaggio che schiavitù. Sempre una cosa brutta, per carità: ma quel che al film non si perdona sono per esempio certi siparietti gustosi e verosimili come quelli in cui “Mamy”, sostanzialmente la tata della famiglia, nera, interpretata dalla cantante e attrice Hattie McDaniel (1895-1952), figlia di ex schiavi, la prima afro-americana premiata con l’Oscar e proprio per quel ruolo, cazzia di brutto “la padrona” Rossella insegnandole come si comporta una vera signora e ricacciandole scorbutica in gola le sue petulanze. Una scena verosimile, sì. Perché spesso i neri a servizio dai bianchi venivano educati, apprendevano a leggere e a scrivere, e imparavano persino un mestiere. Tant’è che il presidente Abraham Lincoln (1809-1865), uomo ben diverso da come lo si descrive (si veda il Dizionario elementare del pensiero pericoloso, curato da Gianpaolo Barra, Mario A. Iannacconne e il sottoscritto [Istituto di Apologetica, Milano 2016], ne temeva fortemente la concorrenza a danno dei bianchi.
Se non fosse vero non si capirebbe infatti perché Frank Loper, nero, nato nella piantagione di Briarfield, vicino a Natchez in Mississippi, ex schiavo del primo e unico presidente degli Stati Confederati d’America, Jefferson Davis (1808-1889), fosse amato e adorato dai nipoti del suo “padrone” i quali si facevano fotografare accoccolati sulle sue spalle e sulle sue ginocchia. La Guerra di secessione (1861-1865), che non venne affatto combattuta dai “nordisti” per debellare la schiavitù, era già finita da un pezzo quando Frank restava ancora legato da amicizia profonda con i Davis; e il presidente Davis era già morto da un pezzo quando Frank restava legato da amicizia profonda con la di lui famiglia. Né si capirebbe come gli ex schiavi di tale signora Shelby di Vicksburg, in Mississippi, possano essersi fatti fotografare come amici al suo fianco più o meno nel 1885, cioè 20 anni dopo la fine della guerra e 22 dopo l’emancipazione dei neri proclamata il 1° gennaio 1863 da Lincoln (un decreto che però non liberò nemmeno uno schiavo nero). Né ancora come mai tanti neri abbiano volontariamente vestito la divisa “sudista”, come per esempio racconta Black Confederates curato da Charles Kelly Barrow, J. H. Segars e R. B. Rosenburg (Pelican, Gretna [Louisiana] 2004). Tra loro vi era Bill Yopp, che dopo il conflitto tornò a trovare il proprio antico “padrone” nella Casa di riposo per i veterani confederati di Atlanta, in Georgia, con doni per tutti gli ospiti. Di questi bozzetti parlano i libri e ci sono persino foto, pubblicate pure nell’“indigesto” ma utilissimo The South Was Right! di James Ronald Kennedy e Walter Donald Kennedy (Pelican, 1994).
Insomma, Via col vento fa paura solo a chi ha la coda di paglia. Come altro definire infatti i fanatici che, già da qualche anno, hanno censurato la popolare serie tivù degli anni 1980 Hazzard (The Dukes of Hazzard), quelle puntate light prodotte dalla Warner Bros. in cui i cugini Bo e Luke si beffano dello sceriffo Rosco Coltrane e del trafficone Boss Hogg sfrecciando su una Dodge Charger R/T rossa fiammante che sul tetto ostenta una bandiera “sudista” e il nome “General Lee”?
Piccolo e grande schermo a parte, quello che è in gioco davvero è la riscrittura della storia secondo un piano preciso che parte addirittura da Cristoforo Colombo (1451-1506), che aprì la strada all’evangelizzazione del Mondo Nuovo, ma che ora viene accusato d’“indianicidio” e prossimo allo sfratto dal Central Park di New York.

Andrew Goldkuhle dei Goldkuhle Studios di Hanover, in Virginia., sostituisce l’imamgine della bandiera confederata da uan delle vetrate della cattedrale nazionale di Washington. Photo courtesy of Danielle Thomas / Washington National Cathedral
Nel settembre 2016, il contagio di questa follia ha colpito anche la cattedrale nazionale di Washington, episcopaliana ‒ la cattedrale dei santi Pietro e Paolo ‒, che ha provveduto a rimuovere un vetrino con la bandiera confederata dalle magnifiche vetrate in cui si raccontano gli episodi salienti della storia americane e si onorano gli eroi della nazione, tra cui pure i “sudisti”.
Ma cosa faranno i nuovi talebani del politicamente corretto quando scopriranno che vi sono stati anche padroni neri di schiavi neri (vedi Larry Koger, Black Slaveowners: Free Black Slave Masters in South Carolina, 1790-1860, University of South Carolina Press, Columbia, 1985) e prima ancora padroni bianchi di schiavi bianchi (vedi Don Jordan e Michael Walsh, White Cargo: The Forgotten History of Britain’s White Slaves in America, New York University Press, New York 2008)?
Marco Respinti
I cattolici giapponesi sono una realtà minuscola che viene dalla persecuzione più crudele, ma il Cielo premia chi è fedele. Il 22 gennaio Papa Francesco ha approvato il decreto di beatificazione del Servo di Dio Dom Justo Takayama Ukon (1552?-1616) e così il “samurai di Cristo” salirà presto alla gloria degli altari. Per i credenti del Sol Levante è una gioia senza precedenti perché quel grande eroe è l’emblema della nipponicità e al contempo un cristiano esemplare. Quale bandiera migliore per chi ha perseverato nella fede “straniera” senza rinunciare alla propria identità?
Nato di “sangue blu”, battezzato a 12 anni con il nome di Iustus quando il padre si convertì al cattolicesimo, Takayama divenne daimyo (feudatario) del castello di Takatuski e governò da buon cristiano assieme al padre. Ma la vera fede, dapprima bene accolta, venne giudicata una congiura occidentale e quindi perseguitata spietatamente. Takayama rinunciò a tutto, ma non si piegò. Poi nel 1614 il cristianesimo venne bandito dal Paese e Takayama fu espulso, l’8 novembre, con 300 compagni della cattolicissima Nagasaki. Giunto il 21 dicembre a Manila, nelle Filippine, fu accolto trionfalmente dai gesuiti venuti dalle Spagne la cui corona propose subito al samurai cattolico di rovesciare lo shogun. Ma il daimyo era un uomo d’onore e si oppose al progetto. Dopo soli 40 giorni morì di malattia. Il popolo dei kakure kirishitan (i cattolici clandestini giapponesi) lo ha sempre considerato un “martire bianco” e oggi la Chiesa Cattolica dà ragione al popolo.
Il popolo dimenticato dei kirishitan insomma torna, e torna anche per merito del cinema. Martin Scorsese hai infatti completato le riprese a Taiwan dell’annunciatissimo film Silence, interpretato da Andrew Garfield, Adam Driver, Liam Neeson, Tadanobu Asano e Ciarán Hinds. Voci sempre più insistenti lo danno presente alla 66esima edizione del Festival di Berlino, che si terrà nella capitale tedesca dall’11 al 21 febbraio, anche se altri rimandano tutto al Festival di Cannes in maggio.
Sia come sia, sarà un evento memorabile. La storia è quella dell’omonimo romanzo firmato nel 1966 dal controverso scrittore cattolico giapponese Shusaku Endo (1923-1996), tradotto in italiano a Milano come Silenzio da Rusconi nel 1982 e riedito con il medesimo titolo da Corbaccio nel 2013. Nella Nagasaki del 1633, il padre gesuita portoghese Cristóvão Ferreira (1580?-1650), già coraggioso missionario nel pieno della persecuzione, cede alla violenza e rinuncia alla fede. Quando la notizia giunge a Roma, due giovani confratelli, Sebastian Rodrigues e Francisco Garrpe, increduli, si mettono sulle sue tracce. In Giappone si scontrano però con la dura realtà della cristianofobia e del tradimento. Finirà tutto in silenzio, il silenzio sperimentato da Gesù sulla Croce: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?».

L’attore Liam Neeson interpreta il padre gesuita portoghese Cristóvão Ferreira (1580?-1650) nel film “Silence” di Martin Scorsese
Una storia vera e drammatica per un film non facile come non certo facile è il romanzo di Endo. Nessuno sa ancora come Scorsese tratterà un argomento tanto delicato tra disperazione e fede. Potrebbe essere l’occasione per un capolavoro, oppure un flop totale. Certo è che il realismo crudo di questa vicenda rosica il famoso cineasta da 25 anni (da tanti sognava infatti di girare Silence), tormentandolo con la domanda chiave di tutto: Dio dov’è?
E così, mentre il pubblico dovrà per forza prendere coscienza di una testimonianza rimossa di martirio, interrogandosi seriamente sul senso della fede qualunque sia l’esito che la pellicola vorrà dare alla storia, la storia correrà il rischio, questa volta sano, di ripetersi. Il dramma dei kirishitan, costretti per secoli a nascondersi come topi in una patria ostile chiusasi ermeticamente a guscio, e la sfida dell’apostasia sono stati i motivi di una continua conversione a Cristo durata tutta l’esistenza terrena del romanziere Endo. Su influsso di Endo, un altro scrittore giapponese, Otohiko Kaga, nato nel 1929, vivente, già docente universitario di Psicologia, si è convertito al cattolicesimo a 58 anni. Memorabile è il suo romanzo storico sulla Seconda guerra mondiale, Ikari no nai fune, del 1982, tradotto in inglese negli Stati Uniti come Riding the East Wind, ma importantissimo è il suo Takayama Ukon, del 1999, tradotto in tedesco e in russo, il romanzo della vita appunto del futuro beato che in quest’“anno giapponese” non mancherà di guardare giù. È così che magari per qualcuno questa storia potrebbe ripetersi, persino attraverso un film.
Marco Respinti
«Dio è morto», diceva Friedrich Nietzsche. Ma immaginiamoci la faccia del filosofo a sentirsi rispondere «Non lo credo» dai Black Sabbath, i campioni del rock pesante “demoniaco” che nel 2013 hanno inciso God Is Dead?, e oggi persino da un film, il campione d’incassi God’s Not Dead.
Diretto da Harold Cronk, e interpretato da Kevin Sorbo (Hercules, Andromeda) e Shane Harper (High School Musical 2), God’s Not Dead è uscito negli Stati Uniti nel 2014 ma da noi arriva solo oggi. Merito della Dominus Production di Federica Picchi, la stessa che l’anno scorso ha vinto la scommessa con Cristiada (2012), la pellicola sui cristeros cattolici che negli anni 1920 si ribellarono alla persecuzione del governo social-massonico messicano.
God’s Not Dead mette in scena la sfida intellettuale tra una matricola universitaria, Josh Wheaton, e un professore di filosofia, Jeffrey Radisson, brillante, ateo, spocchioso e dispotico. Coerente fino al midollo, Radisson esige che i suoi studenti chiudano Dio in soffitta. Ma Josh non ci sta, e unico della sua classe, tiene testa al prof. a colpi di logica. Le sorprese non mancheranno.
Il film viaggia sulle note energiche e orecchiabili dei Newsboys, il gruppo pop-rock australiano che ne firma la colonna sonora e che si guadagna da vivere con la Christian Music senza vergognarsi; in Italia sono sconosciuti, ma fuori vendono come star, soprattutto tra i giovani. Nella pellicola appaiono anche Willie e Korie del clan Robertson, quello protagonista del famoso Duck Dynasty (trasmesso da Discovery Channel), il reality ambientato nelle paludi della Louisiana che ha fatto il giro del mondo e parecchio scalpore (fino alla censura) per le testi fondamentaliste e politicamente scorrette di una famiglia patriarcale che vive di Bibbia e caccia alle anatre.
Sì, da poi una pellicola così sarebbe impensabile. Ma negli Stati Uniti no. Film così ce ne sono, sono spesso di buona qualità e quando sono ben fatti guadagnano anche un mucchio di soldi. La ricetta del successo sta infatti negl’ingredienti.
Ma in Italia? Be’, il precedente del fortunatissimo Cristiada parla da solo. Snobbato dai grandi distributori nonostante un cast eccezionale (Andy García, Eva Longoria, Eduardo Verástegui Peter O’Toole) e relegato per anni in un cantuccio in attesa di passare definitivamente nel dimenticatoio, il film ha invece fatto sold out grazie al passaparola e al circolo virtuoso di gruppi e gruppetti di spettatori tanti forti da spuntarla anche nei multisala. Quali gruppi? Il mondo cattolico, che non è morto, che non tutto è “adulto” come diceva Romano Prodi intendendo “adulterato” e cha va pure al cinema. Non un potere forte, ma un potere reale.
God’s Not Dead prova allora a fare il bis. Il 25 febbraio sparerà il primo colpo in 26 città campione tra cui Milano (e Firenze, Genova, La Spezia, Cagliari, Bari, Messina; info e prenotazioni: www.godsnotdead.it). Poi entrerà nel circuito distributivo il 10 marzo. E la Dominus Production crede così tanto in questa “nicchia”, dove la nicchia è però una folla, da uscire subito con un altro titolo, Risen, storia, toccante, di una conversione con un occhio ai kolossal biblici di Hollywood, diretto da Kevin Reynolds e interpretato da Joseph Fiennes, Tom Felton e Maria Botto. Uscirà il 17 marzo in contemporanea con gli Stati Uniti.
Resta comunque tutta un’“americanata”? Sbagliato. Due dei più recenti film cristiani, anzi cattolici, maggiormente meritevoli vengono dalla Spagna. Un Dios prohibido, diretto nel 2012 da Pablo Moreno, narra la storia vera dei martiri claretiani di Barbastro, uccisi nel 1936 dagli anarco-comunisti durante la Guerra civile 1936-1939. E Bajo un manto de estrellas, diretto nello stesso anno da Óscar Parra de Carrizosa, racconta il sacrificio dei 19 domenicani del Convento de la Asunción de Calatrava di Almagro. Visto che quest’anno sono gli 80 anni della mattanza rossa di Spagna qualcuno potrebbe fare un pensierino anche da noi.
Marco Respinti
Versione originale e completa dell’articolo pubblicato con il medesimo titolo
in Libero [Libero quotidiano], anno LI, n. 36, Milano 06-03-2016, p. 26
A Hollywood c’è un eroe conservatore che riesce a sbancare il box office ogni volta che sforna un capolavoro, e in quella palude liberal non è mica roba da poco. Si chiama Christopher Nolan, è nato a Londra nel 1970, ha doppia cittadinanza britannica e statunitense, e il suo nome è legato a memorabilia come Memento (2000), Insomnia (2002), The Prestige (2006), la trilogia-reboot di Batman (2005, 2008, 2012), Inception (2010) e Interstellar (2014). Il suo terzo (e ultimo) Batman, Il cavaliere oscuro. Il ritorno (The Dark Knight Rises), è un’allegoria della Rivoluzione Francese da Oscar del pensiero reazionario e il suo ultimo parto, il distopico Interstellar, è la difesa morale dei valori della civiltà Occidentale: l’uomo è un essere unico, non è un prodotto casuale dell’evoluzione, non è il problema ma la soluzione ai mali del mondo e la storia del Dio cristiano che dà il proprio figlio per riscattare l’umanità (il film lo sussurra morbidamente ma distinguibilmente) conquista ancora i cuori e le menti. Insomma, Nolan «è (diventato) un conservatore nel senso di chi si e dato il compito di ristrutturare il cinema hollywoodiano nella sua grandiosità mitopoietica». Una definizione icastica che, scomodando elegantemente portenti come la magia, i sogni, il sacrificio, il doppio, il tempo, la memoria, il labirinto, la paura, l’orrore, il rapporto padre-figlio e i segreti dell’universo (l’amore manca apposta per eccesso d’inflazione), sunteggia alla perfezione il libro-quadro Christopher Nolan. Il tempo, la maschera, il labirinto (prefazione di Roy Menarini, Bietti, Milano 2015, pp. 290, euro 17,00) con cui Massimo Zanichelli già evoca l’empireo degli Alfred Hitchcock, dei Fritz Lang e dei Douglas Sirk («in fondo Hollywood è sempre stata intuita al meglio dagli stranieri») per restituirci la rotondità di un personaggio e l’opera di un cineasta che a soli 45 anni è già un classico.
Ogni volta che entra in sala, e che buca il grande schermo, il regista anglo-americano fa sobbalzare il pubblico sulla poltroncina, spesso scatenando polemiche anche accese. A pennello gli calza quel che J.R.R. Tolkien disse de Il Signore degli Anelli, o esclami wow! o vomiti un bleah!, e Zanichelli ne illustra magnificamente il perché e il percome (motivo per cui gli va perdonato anche lo svarione di definire “neoconservatori” i “Tea Party” americani…).
Perché l’opera di Nolan sia superlativa Zanichelli la spiega richiamando i fantasmi dell’inconscio e della morale che sono la trama d’Insomnia per raccontarci del sonno della ragione e delle false veglie del razionalismo in cui resta fortunatamente la profondità della coscienza a vigilare, allegoria nobile e monito costante della condizione umana al suo meglio. Esattamente come nel momento della lotta suprema contro il nichilismo dei Ra’s al Ghul, dei Joker e dei Bane in cui i personaggi di Batman e di Jim Gordon si sublimano divenendo la medesima persona in un tourbillon di emozioni: l’amicizia, la giustizia, il dono di sé, il martirio, la carità (il caso Harvey Dent). Ed eccola dunque ancora una volta qui, palese, imponente, la cifra autenticamente conservatrice di un moderno racconteur di metafore che sono più vere della cronaca quotidiana. Il libro di Zanichelli (legato al regista anche da ragioni biografiche) è già un meritato premio alla carriera tutta in fieri di Nolan, e il suo pregio maggiore è quello di farci intuire che con tutta probabilità il meglio lo dobbiamo ancora vedere. Al cinema.
Marco Respinti
S’intitola Humandroid, lo ha diretto Neil Blomkamp, lo interpretano anche nomi eccellenti come Hugh Jackman e Sigourney Weaver, ma è un filmaccio da evitare.
In una Johannesburg del futuro prossimo la criminalità è tale che la polizia si sente perduta finché un geniaccio delle industrie Tetravaal, Deon Wilson, non sfodera la soluzione: agenti dell’ordine completamente robotizzati, detti scout. Hanno una prerogativa. Sono in grado di elaborare una pur parziale autonomia di giudizio. Subito impiegati massicciamente per le strade, gli scout si prendono i proiettili destinati agli uomini e in breve tempo ristabiliscono l’ordine con il plauso dell’universo mondo. Ma c’è un ma, anzi due. Il primo è che gli scout di Wilson suscitano l’invidia di Vincent Moore (l’attore Hugh Jackman), ex militare che non si fida dell’indipendenza degli scout in loro vece proponendo, ma inascoltato, il goffo Moose, uno sparatutto azionato dall’uomo. Il secondo è che Wilson accarezza l’idea di perfezionare i suoli scout con una vera e propria intelligenza artificiale.
Potevate scommetterci e avreste vinto: basta una notte passata a far calcoli trangugiando lattine di Redbull e l’intelligenza artificiale Wilson la realizza sul serio. Corre allora dal boss (l’attrice Sigourney Weaver) con l’invenzione del millennio, lo scout numero 22 dotato d’intelligenza sovraumana, ma questi lo mette alla porta senza nemmeno concedergli un test. Wilson allora s’inalbera, raccatta i suoi circuiti intelligenti e fa di nascosto da sé. Ma una banda di criminali mezzi tossici ‒ Ninja, Yolandi e Amerika ‒, che deve un mucchio di soldi ad altri criminali invasati, e che ovviamente odia sia gli scout sia il suo progettista, rapisce Wilson senza sapere nulla dell’intelligenza artificiale e si ritrova con la meraviglia delle meraviglie al proprio servizio.
La prima metà abbondante della pellicola barcolla tra il ridicolo e il patetico. E così, mentre sprofonda nella poltrona per la vergogna di essere entrato in sala, lo spettatore assiste al maldestro tentativo del trio di masnadieri anfetaminici di allevare il robot senziente come un bambino-bandito, con questi che risponde agl’input caracollando con andatura e gestualità hip hop al costante fracasso di musica house. La parte restante del film mette poi in scena il triangolo tra Yolandi, improvvisatasi “mamma” del robot “battezzato” Chappie (che è il titolo originale della pellicola), Wilson, che cerca di sottrarre il robot al Gatto e alla Volpe come un improbabile Geppetto postmoderno, e lo stesso Chappie che impatta la vita e s’impaurisce. Le batterie che lo alimentano, infatti, stanno per esaurirsi. Morirà. Proprio mentre il padre putativo, Ninja, gli confessa di averlo usato solo per una rapina. Creatore, strilla allora Chappie a Wilson, perché mi hai dato la vita se è per la morte? È l’unico sussulto di autenticità del film: uno crede che lì la storia potrebbe pure farsi intrigante e invece tutto viene risucchiato nel nulla degli effetti speciali, del turpiloquio e del chiasso della colonna sonora.
Lo sforzo maggiore chiesto all’attenzione dello spettatore sono a questo punto le scritte sulle magliette di Yolandi (ne cambia più di una fotomodella, pur vivendo di mezzucci in un lurido buco di Soweto) o le sagome dei tatuaggi che Ninja (che non invidiano nulla alle toilette degli autogrill). Ma è il momento di Moore. Scoperto il segreto di Wilson, ne resta inorridito e mette fuori uso tutti gli scout. La criminalità riprende subito il sopravvento, Wilson si prende invece un proiettile, Chappie è furente, malmena Moore e corre dal suo “creatore” con una idea. Facciamo il backup della coscienza e poi la reimpiantiamo in un corpo nuovo. Tre minuti ed è tutto fatto. Anzi, c’è pure tempo per il bis; e così Chappie, un attimo prima di spegnersi, rinasce. Ma non basta. Nello scontro finale tra il Moose di Moore e tutti i criminali del film messi assieme una pallottola colpisce “mamma” Yolandi: pianti di Ninja e di Chappie, ma lieto fine. Chappie ha fatto il backup anche di lei.
Terribile. Terribile perché non c’è mai nemmeno l’ombra di un pensiero su “vita”, “morte” e “creatore”, che comunque sono le parole più usate nel film. Il tema portante della reincarnazione/clonazione è cacciato in gola alla platea con la banalità di un sorso d’acqua. I “buoni” sono i tagliagole interpretati da Die Antwoord, gruppo musicale sudafricano di elettrorap. E l’unico cattivo, una vera carogna, è guarda caso anche l’unico cristiano del film (invita i colleghi ad andare in chiesa la domenica, si fa il segno della croce e atterrito apostrofa Chappie come “mostro senza Dio”). Un incubo da dimenticare subito, se non fosse per l’autorevolezza che proprio sulle questioni più serie hanno oggi per le masse la pop culture quando va bene e invece il trash quando va male come in questo caso.
Marco Respinti
Napa, capoluogo dell’omonima valle della California famosa per il buon vino, ha dato i natali, 45 anni fa, a Joseph C. Sciambra, uno dei più noti porno-attori della galassia omosessuale. Oggi però è un ex, amaramente pentito e attivissimo sul fronte opposto, un vero apostolo della fede da che, nel 1999, avendo seriamente rischiato la vita, si è convertito, anzi riconvertito al cattolicesimo.
Cattolico Sciambra ci è infatti nato, allevato in una solida famiglia cattolica, allievo di scuole cattoliche dall’asilo alle medie, insomma nulla poteva far presagire ciò che sarebbe successo. Apparentemente. Perché segretamente Joseph dubitava di tutto, dalla fede alla vita. A 18 anni ‒ dice oggi raccontandosi a Jim Graves sulle pagine di The Catholic World Report ‒ si sentiva completamente disorientato.
«La pornografia dà dipendenza, ed è progressiva», spiega lucidamente. «La si può paragonare alla droga. Quando cominci ad assumerla, non inizi con l’eroina, ma con l’alcool o con la marijuana. Poi perdi il senso di ciò che stai facendo e passi a droghe più pesanti». Uguale con il porno. «Cerchi le cose soft. Per la mia generazione era la rivista Playboy». Sciambra la vide in mano al fratello maggiore e poi la ritrovò “normalmente” sfogliabile dal barbiere o nei posti più impensabili. Adesso, dice, c’è Internet, e tutto è più rapido. I video, le cantanti, la pubblicità ammiccano disinvoltamente alla sessualità e instillano nei giovanissimi l’idea che il sesso facile sia bello, desiderabile. Questo «ricodifica il modo in cui gli adolescenti pensano alla sessualità».
Appena maggiorenne, Joseph lasciò la famiglia e, forse senza nemmeno sapere come, si trovò catapultato dalle ridenti colline delle provincia californiana alla babele di Castro, il torbido e torrido quartiere cuore del mondo LGBT di una delle città a più altra concentrazione omosessuale del mondo, San Francisco. Un posto, insomma, dove il lunario lo sbarchi solo se sei del giro: Sciambra lo capì sulla propria pelle subito e per 11 anni ne è rimasto schiavo, passando dalle prostitute dei sex club e dei bordelli legali della non lontana Las Vegas al fiele della vita gay e del suo corollario di set pornografici. «Quando sono entrato a far parte della cultura omosessuale, ho scoperto che è una società fondata sul porno. Nel mondo gay il porno era il collante che ci teneva uniti». Una esistenza, spiega adesso, di mestizia e tristezza, in cui il naturale desiderio umano di essere accolto e amato veniva invece costantemente frustrato da un’agghiacciante realtà quotidiana di miseria. A chi gli ribatte che ciò che gli mancava era solo un rapporto omosessuale stabile, risponde secco: «Nei miei 11 anni di vita gay, e oggi nell’attività di apostolato che svolgo verso quel mondo, non ho mai incontrato una coppia gay felice. Le relazioni sono passeggere, fluttuanti e basate sul rapporto fisico».
I giorni scorrevano uguali a se stessi, e i giorni diventavano settimane, mesi e anni di una routine sordina e deludente. «Molto dei amici morirono di AIDS, suicidio o droga». Lui stesso era sempre ammalato, avendo nella sua vita contratto tutta la gamma delle malattie veneree. Per colmare il vuoto del cuore si gettò persino nel New Age e da lì approdò a culti neopagani, talvolta addirittura satanisti. Senza fondo.
Ma il fondo invece c’era, bastava volerlo, avere la capacità di riconoscerlo, d’invertire la marcia. Certo, pressoché impossibile a farsi da soli. Ed è stato qui che è entrata in gioco Courage, l’organizzazione cattolica che ha sede centrale a Norfolk, nel Connecticut, e che privilegia l’apostolato verso chi si sente attratto da persone del proprio sesso. «Il giorno che decisi di mutare vita ero impegnato in un film porno. Mi sentii male e mi trovai in ospedale, sicuro di morire. Ma mi resi conto che la morte mi avrebbe portato all’inferno. E io all’inferno non volevo andarci. Volevo uscire da quella vita». Quando ancora faticava a tornare pienamente nella Chiesa, fu persino aiutato da un sacerdote la cui preghiera lo fece «sentire liberato da molteplici influssi demoniaci».
Con gli amici di Courage Sciambra ha dunque finalmente scoperto un altro se stesso; uno Sciambra vero, che in qualche modo era sopravvissuto. Oggi è tornato a casa, vive a Napa e si guadagna modestamente da vivere mandando avanti un piccola libreria cattolica. La sua lunga prigionia non l’ha però scordata. «C’è tutta una vita oltre l’essere gay», dice, e per mostrarlo concretamente si è impegnato in una crociata di testimonianza e di apostolato ‒ forte anche di un’autobiografia, Swallowed by Satan (SOS Publishing/Next Century Publishing, Las Vegas 2013) ‒ per aiutare chi ancora non se ne rende conto a smettere di buttarsi terribilmente via. Sì, se ne può uscire: Joseph Sciambra ne è un’altra, ennesima prova vivente.
Marco Respinti
Versione completa e originale dell’articolo pubblicato con il titolo
Da pornodivo gay a testimone della fede
in La nuova Bussola Quotidiana, Milano 20-04-2015
Leonard Nimoy, famoso attore americano conosciuto soprattutto per aver interpretato il ruolo del signor Spock nella popolare serie televisiva Star Trek e nei film successivi della saga, è morto venerdì a Los Angeles, a 83 anni. Sabato 28 febbraio l’astronauta americano Terry Virts, che da fine novembre si trova sulla Stazione Spaziale Internazionale insieme, tra gli altri, all’astronauta italiana Samantha Crisoforetti, ha postato su Twitter una foto della Terra, mentre con la mano fa il famoso saluto vulcaniano, gesto caratteristico di Spock in Star Trek.
da il Post, 1-03-2015
…singing The Ballad of Bilbo Baggins…
Shaitan Al-Ramadi: Chris Kyle lo chiamavano “il diavolo di Ramadi” ed era il serviceman americano che in Irak pare avere steso più nemici di tutti (dicono 250 persone). Poi nel 2009 si congedò dalla Marina degli Stati Uniti, rientrò in patria e il 2 febbraio 2013 venne abbattuto con un gesto banale da un reduce svalvolato cui prestava assistenza.
Kyle non era un supereroe che non sbagliava mai; era un uomo che evitava di sbagliare sempre. Quel che Clint Eastwood vuol dirci con il suo nuovo film che ne racconta la storia, American Sniper (lo stesso titolo dell’autobiografia che Kyle pubblicò nel 2012 con la Harper Collins di New York), è semplicemente questo. Chi sceglie tra bianco e nero, a volte sbaglia; chi non sceglie perché nemmeno sa cosa siano il bianco e il nero, sbaglia sempre.
Ma il nostro mondo irresponsabile che si droga quotidianamente con mille sfumature di grigio non capisce. E non capendo, odia. Quindi vitupera, vilipende, offende. Pare infatti che diversi membri dell’Academy of Motion Picture, vale a dire la giuria che assegna gli Oscar per i quali American Sniper è in concorso, siano già pronti alla bocciatura. A prescindere. Perché? Perché American Sniper non è un film in linea con il progressismo culturale dominante e perché il “salotto buono” non ha mai perdonato a quel cane sciolto di Eastwood la gag con cui, alla Convention del Partito Repubblicano nel 2012, l’attore-regista prese sonoramente in giro Barack Obama in mondovisione.
Intendiamoci però. Non è che American Sniper non piaccia a sinistra perché è un film di destra, guerrafondaio, apologetico della violenza, neocon; non è che un pezzo grosso di Hollywood non possa sbeffeggiare Obama; non è che Eastwood sia odiato perché politicamente nemico. Quel che del suo film resta sul gozzo è solo l’uomo Kyle, in arte cecchino: l’uomo di cui in guerra c’è sempre bisogno in carne e ossa e di cui in pace non possiamo fare metaforicamente mai a meno. L’uomo che sceglie. L’uomo che vive un morale chiara e distinta. L’uomo che onora dei principi. L’uomo che agisce. L’uomo (appunto) che a volte sbaglia per non sbagliare sempre. La religione del nostro tempo è il politicamente corretto, il conformismo è la sua Chiesa e dispensatori di melassa sono i suoi preti. Il primo e unico comandamento è “ci pensino gli altri”, e il paradiso un immenso welfare. American Sniper è una bestemmia perché mette in scena il dramma di un uomo che, nonostante tutto, c’è; e Clint Eastwood è un eresiarca perché il 30 agosto 2012, a Tampa, in Florida, rappresentò Obama con una sedia vuota. Muto, sordo, cieco e soprattutto assenteista.
All’Academy of Motion Picture odiano la gente vera che può popolare anche la buona fiction; detestano gli uomini che tengono gli occhi aperti come faceva il Navy Seal Chiristopher Scott Kyle, may he rest in peace, anche quando gli occhi bruciano, anche quando gli occhi piangono, anche quando i morti-in-piedi negli occhi gettano fumo.
Marco Respinti
Pubblicato con il medesimo titolo
in l’intraprendente. Giornale d’opinione dal Nord, Milano 03-01-2015
È nata a Valence, in Francia, nel 1976 da genitori che non la volevano affatto e che quindi l’hanno abbandonata che aveva solo tre mesi, avendo però nel mentre trovato il tempo per maltrattarla. Si chiama Cheyenne Carron-Royer e oggi, a 38 anni, è una donna bellissima nonché una delle più originali e se vogliamo controverse registe-sceneggiatrici di Francia. Anzi, è un’artista polivalente, completa, che sa cimentarsi con gusto e talento anche con la scrittura e con la moda oltre che con la macchina da presa. Controversa lo è perché sa affrontare con nonchalance (che non vuole affatto dire con leggerezza) temi scottanti come quello che sta al centro del suo nuovo film, il quinto, L’Apôtre (clicca qui), uscito il 1° ottobre, assieme un bacio di dolcezza e un pungo nello stomaco.
Una famiglia di musulmani di origine algerina viene colpita dall’impensabile. Uno dei ragazzi, Akim, avviato a diventare imam, si converte al cattolicesimo. E, come i diversi altri maghrebini ex musulmani che conoscerà semiclandestinamente nel cuore di uno dei Paesi più disinvolti del mondo, viene braccato, pestato e insultato, spesso dagli amici più vicini e immancabilmente dal fratello integralista. È questa storia, che la regista si è inventata con grande facilità perché è uguale a mille altre vere che accadono tutti i giorni nel cuore dell’Occidente, a fare di lei una donna controversa, ma lo è anche il fatto che Cheyenne è una che a certe domande risponde d’un fiato con tanto di punto esclamativo: lei è cattolica? «Certamente!». La nuova famiglia che l’ha accolta l’ha circondata subito di grande affetto, ma soprattutto sempre di grande fede. Cattolica. Vera. Tenace. Una famiglia speciale, imperniata su una mamma catechista che a Cheyenne ha dato tanti fratelli e sorelle: due naturali e tre adottati come lei, di cui uno affetto da trisomia. Da ragazza Cheyenne non perdeva una Messa anche se non era battezzata, e uno dei fratelli (son ragazzi…) si ostinava sempre a dividere con lei l’Eucarestia anche se lei (Dio perdonerà certamente) la Comunione non poteva riceverla. Perché, vi chiederete, una famiglia tanto cattolica non aveva battezzato Cheyenne? Perché così stabilisce la legge francese: una famiglia che adotta non può imporre la religione all’adottato… Bisogna che questi diventi maggiorenne e decida da sé.
Oggi Cheyenne dice che per anni si è sentita straniera in casa propria, clandestina nella sua Chiesa. Poi è venuta l’adolescenza, e assieme le sirene che ingannano; quindi il cinema, e così altre sirene. A momenti, insomma, la bella Cheyenne la perdiamo. Ma ci ha pensato il buon Dio. Oramai maggiorenne, ha ripreso in mano vita e fede, si è fatta catechizzare e a 20 anni ha chiesto il battesimo. Chi immaginerebbe, vedendola in foto che pare una modella, lunghi capelli corvini, intrigante, che sia un’indomita “combattente di Cristo”? Un’artista controcorrente che con il cinema racconta il miracolo della conversione, il dramma della persecuzione, l’assurdità della cristianofobia?
Scusi l’ardire, Cheyenne, ma come fa una donna giovane e graziosa a conservare la fede in un mondo viziato com’è quello del cinema?
La fede è ciò che mi permette di andare sempre oltre, a ogni livello. È proprio la mia fede cattolica che mi aiuta a svolgere al meglio il mio mestiere, che mi fa essere ogni giorno migliore nella vita accanto al prossimo, quale che il prossimo sia. Contraddizioni tra “fare cinema” da cattolica e l’essere “giovane” e “graziosa”? Nessuna…
La cristianofobia, lei lo dice nei suoi lavori, è una minaccia, anche in Occidente…
Lo avverto io come lo avvertono molti altri. Penso però che la persecuzione sia una prova: permetterà ai cattolici di rafforzarsi e di guadagnare in fierezza. È importante che i cattolici ritrovino uno spirito combattente. La Francia? È la “figlia primogenita della Chiesa”. Oggi da noi la Chiesa viene spesso attaccata, ma i fedeli stanno incominciando a uscire dal torpore. Manifestano per le strade, sono capaci di dire “no” se serve… Sono segnali decisivi, questi. Noi cristiani dobbiamo tornare a essere più fieri della fede che ci anima. Nel mondo la gente rispetta solo chi si mostra sicuro e fiducioso di sé; se tutti i cattolici ritroveranno questa forza, allora il dialogo si rafforzerà. Anche con i musulmani.
Com’è nato il suo nuovo film, L’Apôtre?
Da molte ispirazioni. Ne rievoco la principale, un dramma che vissi a 19 anni. La sorella di un sacerdote del mio borgo fu uccisa. Strangolata dai figli dei suoi vicini di casa. Conoscevo quella donna, era di una bontà rara. Dopo la sua morte, il fratello restò a vivere in quella stessa zona per aiutare spiritualmente la famiglia di quegli assassini a tirare avanti pur con quel dolore in petto. Era una famiglia musulmana di origine marocchina. Le parole e i gesti di quel prete mi hanno segnata profondamente. Quel suo gesto di carità, così bello, è, nel mio film, il punto da cui prende avvio il desiderio di conversione del protagonista, Akim.
Un film coraggioso… come lo è lei…
Non ho paura di nulla; è ora che i cattolici smettano di avere paura. Certo non sono un’esperta d’islam, però conosco bene la mia fede cattolica. Nel cattolicesimo al cuore di tutto c’è Dio, che è amore. Noi cristiani non siamo sottomessi a Dio. Al contrario, Dio ha inviato il suo unico figlio, Gesù, per mettersi al nostro “livello” e tenderci la mano. Con il motore dell’amore, possiamo fare tutto; e rialzarci ogni volta che cadiamo.
Cosa significa testimoniare la fede anche attraverso l’arte?
Il mio lavoro creativo mi permette di crescere nella fede. Faccio film perché mi aiutano a crescere e forse persino ad avvicinarmi di più a cioè che è essenziale: Dio.
Progetti per il futuro?
Il mio prossimo film s’intitolerà Boloss. Parlerà di una forma di razzismo mai portata sugli schermi cinematografici: il razzismo contro i bianchi. La mia pelle non è né bianca, né nera, ma beige; non ho mai subito il razzismo dei bianchi o dei neri. Quindi ho la distanza giusta per trattarne serenamente. Esistono film magnifici sul razzismo contro i neri, ma nessuno sul razzismo che colpisce i bianchi anche in un paese come il mio, la Francia. Dunque tocca a me.
Marco Respinti
Pubblicato con il medesimo titolo
in La nuova Bussola Quotidiana, Milano 20-10-2014
Leggi anche Esce oggi «L’Apôtre» di Cheyenne Carron.
Un bel film contro la cristianofobia islamista
S’intitola L’Apôtre ed è il quinto lungometraggio realizzato dalla giovane (e bellissima) Cheyenne Carron-Royer, regista, sceneggiatrice e produttrice cinematografica. Da oggi è nei cinema di Francia, una bomba. Politicamente e religiosamente scorretto, spavaldo senza mai andare sopra le righe e coraggioso una volta tanto per davvero, narra la storia del giovane algerino Akim e della sua famiglia, tutti musulmani praticanti integrati nella società francese a parte il fratello maggiore Youssef, il più testone, sostanzialmente un integralista. Un lavoro come un altro per campare come tutti, una vita da buon musulmano come tutti i buoni oriundi del Maghreb. Akim studia da imam: prenderà in consegna il centro islamico dello zio materno, Rashid. Sembra un giorno come un altro quello in cui Akim esce per una commissione, ma non è così. Se ne accorgerà parecchio dopo, ma il risultato non cambia. È un attimo, una frazione di secondo. Sarebbe bastato ritardare distrattamente l’uscita, o anticiparla casualmente di un soffio, e Akim quel dì il suo fato lo avrebbe scansato. Invece no. Puntuali come un orologio svizzero, il giovane musulmano e il suo destino s’incontrano all’ora esatta nel luogo esatto; ignoti, ma esatti. E quel destino quel giorno ha la faccia da prete, anzi la talare (brava la regista che veste il sacerdote di lungo come il Dio cattolico comanda). Scende lento, don Fauré, i gradini esterni di un villino; segue gl’infermieri che portano sua sorella all’obitorio, strangolata da una ignoto maghrebino per una manciata di euro al grido, ovvio, di «putaine». Procede compunto ma senza mestizia, e per un secondo incrocia lo sguardo di Akim.
Cadenzato ma non pizzoso, lemme quanto basta e inconfondibilmente francese nelle inquadrature lontane anni luce dai cliché di Hollywood, L’Apôtre è lo sviluppo di quel primo sguardo. Tra amicizie improbabili, il prete ritrovato “per caso”, l’astio del fratello invasato e la vicinanza di Brahim (un tunisino convertito dall’islam al cattolicesimo e per ciò malmenato), Akim diventerà un altro. Ripudierà Allah, abbraccerà Cristo e gli ex compagni di moschea gli cambieranno i connotati. Sono francesi (anche naturalizzati), sono cittadini come gli altri, ma i musulmani son così: ogni cosa ha la sua sura e gli apostati doppia razione.
A tratti sembra un documentario, il re-enactment di uno dei molti episodi d’intolleranza islamica che la cronaca ci consegna oramai quasi quotidianamente. La Francia in cui si ambienta (una cittadina qualunque) potrebbe benissimo essere il quartiere dietro casa nostra.
L’Apôtre (già ricco di premi e nomination) è stato girato per denuncia. La cristianofobia è una realtà tragica in troppi Paesi, anche europei, va fermata. Cheyenne (cattolica, cattolica seria) crede che anche il cinema possa dare una mano. In una scena del suo nuovo film alcuni convertiti si radunano di soppiatto in un parco per scambiarsi foto di cristiani arabi ammazzati da compatrioti islamici a motivo della fede: sono foto vere anche se è fiction. Tutto il film è così, a partire dall’assassinio della sorella del prete: Cheyenne assistette a un caso simile a 19 anni nel paesello dove abitava, e quel prete vero di allora decise di non abbandonare tutto perché voleva testimoniare la misericordia divina anche alla famiglia dell’ignoto assassino; proprio come il don Fauré nato dalla fantasia di Cheyenne, la cui misericordia ha trasformato Akim.
Quei tempi sono lontani, ma non la scintilla che hanno acceso. Oggi Cheyenne di anni ne ha 38. Oltre che cineasta, è poetessa, scultrice e stilista; famose sono le borsone di stoffa con versetti del Vangelo o frasi di santi che vende online. Cheyenne ha il coraggio da “guerriera” che il suo nome pellirossa evoca. Se l’è dato da sola, del resto, essendo stata abbandonata a tre mesi e legalmente adottata a 20 anni. Immaginatevi la faccia che farà oggi la Francia, contesa tra il laicismo degli uni e il talebanismo degli altri, nel vedersi sfidare da questa femmina credente e avvenente. Nell’ultima sequenza del film il cattolico Akim prega con l’imam Youssef; sono fratelli, non c’è fatwa che tenga. Oh la la, che scandalo ai tempi dell’ISIS…
Marco Respinti
Versione originale e completa dell’articolo pubblicato con il titolo
Islamico che diventa cristiano. Un film sconvolge la Francia
in Libero [Libero quotidiano], anno XLIX, n. 230, Milano 1-10-2014, p. 26
Finalmente l’attesa è finita. Cristiada, l’oramai famosissimo film sull’epopea dei cristeros messicani, approderà anche nelle sale cinematografiche italiane. Accadrà nel mese di ottobre. Il merito è tutto della Dominus Production, la casa di distribuzione cinematografica fondata e diretta a Milano/Firenze da Federica Picchi che ne ha acquisito i diritti di doppiaggio e distribuzione nel nostro Paese. Al sito Internet www.dominusproduction.com è già possibile prenotare la proiezione del film nei cinema italiani, così come il DVD o la visione in streaming che saranno disponibili a partire dal gennaio 2015.
Un giallo finito bene
Quello di Cristiada è stato a lungo un po’ un giallo. Tutto ha avuto inizio tra il 2010 e il 2011, quando la pellicola fu realizzata come coproduzione messicano-statunitense (il film è girato in Messico ma in lingua inglese) sulla base degli studi condotti dalla principale autorità scientifica in materia, lo storico franco-messicano Jean Meyer Barth. È peraltro opportuno ricordare qui che il figlio di questi, Matías Meyer – nato nel 1979 a Perpignano, in Francia –, ha realizzato nel 2011 un altro capolavoro di 90 minuti, Los últimos cristeros, che si basa sul romanzo Rescoldo. Los últimos cristeros. Opera del 1961 dello scrittore Antonio Estrada Muñoz (1927-1968) – egli stesso figlio di un comandante cristero dello Stato federato di Durango all’ora della seconda, “disperata” ribellione, dal 1934 al 1941, il colonnello Florencio Estrada, caduto in combattimento nel 1936 –, il romanzo è stato recentemente, nel 2010, ripubblicato a Madrid dalle Ediciones Encuentro, arricchito da una introduzione dello stesso Meyer figlio e curato da Angel Arias Urrutia, specialista dell’Universidad San Pablo nella capitale spagnola.
Ma torniamo a Cristiada. L’impresa ha avuto un costo, pare, di almeno 12 milioni di dollari americani. Diretto dallo statunitense Dean Wright (già responsabile degli effetti speciali de Il Signore degli Anelli e de Le cronache di Narnia) e prodotto dalla Dos Corazones Film diretta a Los Angeles da Juan Pablo Barroso, è interpretato da veri fuoriclasse quali Andy García (l’attore di origine cubana noto per non essere esattamente un estimatore di quel comunismo che gli ha distrutto la patria e costretto la famiglia all’esilio degli Stati Uniti), l’avvenente ex modella statunitense Eva Longoria, il cattolicissimo messicano Eduardo Verástegui e l’intramontabile irlandese Peter O’Toole. E la colonna sonora, avvincente e suggestiva è di James Horner, una specie di Ennio Morricone d’Oltreatlantico che non sbaglia mai un colpo.
Eppure, nonostante un cast eccezionale come questo, e una serie davvero promettente di premesse che annunciavano un successo sicuro anche al botteghino, il film si è bloccato. Mancava clamorosamente qualcuno che si assumesse il compito di distribuirlo nelle sale. E così Cristiada si è trasformato in una specie di spettro da racconto del brivido: tutti ne parlavano, se ne avvertiva qua e là la presenza, qualcuno giurava persino di averlo veduto con i propri occhi, ma tutto restava costantemente sospeso fra verità e leggenda. Così, dopo qualche tempo, su Internet è comparso un “timido” trailer, con alcuni spezzoni del girato. E l’attesa, di fronte a quelle poche ma coinvolgenti immagini, è cresciuta a dismisura.
Ci sono comunque voluti altri lunghi mesi prima che il lungometraggio uscisse da quel suo strano limbo ed entrasse trionfalmente nei teatri del Messico il 20 marzo 2012 e poi degli Stati Uniti il 1° giugno successivo, grazie rispettivamente a 20th Century Fox e ad Arc Entertainment, per poi divenire facilmente acquistabile da tutti in formato DVD. Eppure ancora una volta il pubblico italiano (e in genere quello europeo) è rimasto a bocca asciutta, frenato dalle barriere linguistiche a tratti e per molti davvero insormontabili. Per questo hanno cominciato a diffondersi sul web versioni adattate alla bell’e meglio, sottotitolate e diffuse privatamente attraverso circuiti sostanzialmente amicali. Da ottobre, invece, il film lo potremo finalmente vedere davvero tutti anche in Italia.
Storie verissime
La trama è nota. Durante la rivolta detta dei cristeros (i “cristi-re”, come li canzonavano i sanguinari avversari per via di quel loro uso di combattere e di morire al grido di «¡Viva Cristo Rey!»), allorché tra il 1926 e il 1929 la popolazione cattolica del Messico cercò di scrollarsi definitivamente di dosso il gioco laicista di un governo nazional-social-massonico stabilito attraverso la Costituzione del 1917 e in quel momento incarnato dal despota Plutarco Elías Calles (1877-1945) che li perseguitava con asprezza, un giovane 13enne, José (interpretato da Mauricio Kuri), finisce per affezionarsi a un sacerdote, padre Christopher (Peter O’Toole), finché i governativi non lo uccidono. Quando l’intera popolazione messicana insorge per difendere i preti e i religiosi vessati senza motivo e con raffinata cattiveria, il giovane José decide, con alcuni amichetti, di unirsi alle schiere dei “soldati di Cristo”. Intanto Calles ha concluso un vantaggioso accordo con i suoi vicini “nemici-amici” di sempre, gli Stati Uniti, barattando petrolio per armi: le stesse armi con cui, mentre Washington gira il capo dall’altra parte, il governo messicano reprime spietato gl’insorti. Anche José muore tra i patimenti dopo essersi rifiutato di abiurare la fede in Dio. E alla fine i Federales hanno la meglio, soffocando per sempre la rivolta nel sangue.
Il film, come si sa, è strettamente aderente al vero; oramai la storia della “Crociata messicana” è nota fortunatamente anche in Italia, attraverso serie opere di ricostruzione storiografica. Si sa bene anche dell’appoggio che la Chiesa diede agl’insorti e della recisa condanna che il Papa lanciò contro il governo omicida con diverse encicliche. Ebbene, anche i due eroi protagonisti del film sono personaggi realmente esistiti. Enrique Gorostieta y Velarde (1890-1929), interpretato sullo schermo da Andy García, è un ufficiale a riposo, ateo, che però finisce per entusiasmarsi alla causa dei ribelli, guidandoli in battaglia con maestria e abnegazione fino alla fine, fino a quando cioè cade anche lui martire per quanto “riluttante”. E il giovane volontario José altri non è se non José Sanchez Del Rio (1913-1928), martirizzato come narra la pellicola e per questo beatificato, con altri 12 compagni, da Papa Benedetto XVI il 20 novembre 2005, aggiungendosi in questo modo ai 25 martiri canonizzati il 21 maggio 200 da san Giovanni Paolo II e al padre gesuita Miguel Agustín Pro Juárez (1891-1927). Ma i caduti cattolici messicani, laici e consacrati, furono molti di più, una cifra calcolata tra i 70 e gli 85mila.
Speriamo sia solo l’inizio
Ora, questa straordinaria epopea è oggi appunto piuttosto nota al mondo cattolico, almeno nei suoi contorni generali; ma con tutta evidenza essa merita di essere conosciuta anche dagli altri, così che tutti conoscano sul serio il prezzo pagato dai testimoni della fede nel mondo moderno e inizino a comprendere davvero cos’ha significato difendere con generosità e a ogni costo la verità. Un film intrinsecamente bello e sicuramente appassionante per tutti come Cristiada non può dunque che contribuire sensibilmente a quest’opera doverosa, ed è per questo che la sua comparsa, alla fine, anche sui grandi schermi italiani va salutata con enorme soddisfazione.
Adesso sarebbe peraltro bello e importante che altre pellicole di valore e d’indubbia utilità potessero arrivare, debitamente doppiate, nelle nostre sale cinematografiche. Il pensiero va senz’altro almeno a Un Dios prohibido, con cui nel 2012 il regista spagnolo Pablo Moreno ha narrato la storia vera dei martiri claretiani di Barbastro, uccisi nel 1936 dagli anarco-comunisti durante la Guerra civile spagnola, e a Bajo un manto de estrellas, diretto sempre nel 2012 dallo spagnolo Óscar Parra de Carrizosa, dedicato al sacrificio compiuto in nome della fede, nel 1936, sempre durante quello scontro epocale, dai 19 domenicani del Convento de la Asunción de Calatrava di Almagro.
Ma intanto gli spettatori italiani possono trarre profitto e sana ricreazione con storie magari dure ma sempre colme di speranza autentica quali October Baby (2012, di Andrew e Jon Erwin) sulla storia vera di Gianna Jessen, sopravvisuta all’aborto salino; oppure 11 settembre 1683 (2012, di Renzo Martinelli) sulla battaglia di Vienna che salvò l’Europa cristiana dalle orde musulmane; o ancora There Be Dragons (2011, di Roland Joffe) su san Josemaría Escrivá de Balaguer ancorché occorra accontentarsi dei sottotitolo italiani presenti nei DVD spagnolo o inglese. E perché no Duns Scoto (2010, di Fernando Muraca) a difesa della verità dell’Immacolata Concezione; Fireproof (2008, di Alex Kendrick), la storia vera di come è possibile salvare un matrimonio in crisi tra gesti di grande altruismo; e Bella (2006, di Alejandro Gomez Monteverde), la pellicola contro l’aborto interpretata da Eduardo Verástegui, lo stesso di Cristiada, bello, aitante e devotissimo.
Marco Respinti
Pubblicato con il medesimo titolo in
il Timone. Mensile di informazione e formazione apologetica
anno XIV, n. 136, Milano settembre-ottobre 2014, pp. 16-17
E finalmente anche in Italia esce il bel film «Cristiada». Ma per favore basta con le copie “pirata”
La notizia è ufficiale. L’oramai stranoto film sull’epopea dei cristeros messicani, Cristiada, il kolossal del regista statunitense Dean Wright interpretato da star come Andy García, Eva Longoria, Eduardo Verástegui e Peter O’Toole, è stato finalmente doppiato anche in lingua italiana. Uscirà con grande spolvero nelle sale cinematografiche a metà ottobre, per la precisione il 15. Tutto a posto, allora… No, non proprio.
Il grande problema adesso, proprio mentre noi stiamo scrivendo e voi leggendo, è che da tempo circolano in Italia copie non autorizzate del film, sottotitolate alla bell’e meglio e visionate dal pubblico attraverso circuiti amicali quali parrocchie, centri culturali e affini. Ebbene, questa circolazione parallela non ufficiale è oggi il nemico numero uno del successo di Cristiada in Italia. Vediamo perché, non prima però di avere sottolineato una premessa importante. La circolazione parallela in Italia della pellicola è stata ed è, per quanto non ortodossa, solo l’escamotage che molte brave, anzi bravissime persone hanno adottato per supplire all’indisponibilità nel nostro Paese della pellicola (vedere il film in inglese o in spagnolo resta ancora per moltissimi italiano un problema insormontabile), e questo al semplice scopo di “fare del bene” diffondendo un bel film pieno di contenuti sani: la denuncia della crudele persecuzione dei cattolici messicani, l’impossibilità di non reagire in difesa dei perseguitati, il martirio riconosciuto dalla Chiesa Cattolica di molti dei protagonisti di quell’epopea. Le copie non ufficiali di Cristiada sono sempre infatti circolate e sono sempre state distribuite a titolo totalmente gratuito.
Ciò detto, resta il fatto che il danno prodotto dalla circolazione parallela di copie non autorizzate del film è enorme. Il doppiaggio italiano è stato realizzato dalla Dominus Production, la casa di distribuzione cinematografica fondata e diretta tra Milano e Firenze da Federica Picchi. Per questa impresa la Dominus ha investito una quantità di denaro davvero ingente. Se Cristiada avrà successo anche in Italia, è presumibile che la Dominus possa e voglia investire ancora in pellicole belle, cattoliche, ma proprio per queste snobbate dai grandi canali di distribuzione. Questo però sempre a patto che l’investimento fatto per Cristiada abbia un senso, cioè rientri almeno in parte sul piano economico. E questo sarà possibile solo se il pubblico affluirà abbondante nei cinema; motivo per cui la Dominus ha stretto un importante accordo con uno dei circuiti distributivi più prestigiosi e di qualità del nostro Paese, l’UCI-Cinemas.
Ebbene, esiste un criterio oggettivo per stabilire il successo di pubblico di un film, misurandolo attraverso i suoi introiti al botteghino: contare il numero degl’ingressi staccati dalla biglietteria come per qualsiasi film fa la SIAE, l’ente pubblico preposto alla protezione e all’esercizio dell’intermediazione dei diritti d’autore. Insomma, ufficialmente avranno visto Cristiada solo il numero di persone corrispondenti al quantitativo di biglietti staccati, vidimati e contati dalla SIAE. «In base al numero di spettatori nelle sale cinematografiche», spiega Federica Picchi a La nuova Bussola Quotidiana, «vengono compilate le classifiche di apprezzamento del film e parallelamente l’uscita televisiva. Mettiamo il caso che il film sia stato visionato da 100mila spettatori illegalmente e solo 10mila ufficialmente: ecco, sebbene il film sia stato un successo (cioè visto in totale da più di 100mila spettatori), nelle statistiche esso risulta però un flop perché contano solo i dati della distribuzione ufficiale. Il successo o meno di spettatori decreta anche la presenza o meno nei palinsesti televisivi e la fascia oraria di trasmissione. Inoltre se il produttore non riesce a recuperare i soldi investiti nel progetto, il film si trasforma anche in un flop finanziario, che spinge l’intera catena del cinema (dagli investitori ai distributori) a non investire più su quelle tipologie filmiche ritenute “scomode”». Ovviamente dal 28 maggio scorso, data in cui Dominus Production ha acquisito i diritti esclusivi di distribuzione sul territorio italiano, «qualsiasi utilizzo di quel materiale filmico e qualsiasi proiezione privata o pubblica di versioni non autorizzate dalla Dominus Production (per esempio le versioni “pirata” sottotitolate in italiano) sono considerate illegali e penalmente perseguibili».
È dunque assolutamente importante che la circolazione parallela di Cristiada s’interrompa ora, canalizzando tutto il pubblico interessato nei cinema.
Marco Respinti
Pubblicato con il titolo Esce “Cristiada”, ma niente copie “pirata”, per favore
in La nuova Bussola Quotidiana, Milano 09-09-2014
Il 6 giugno il primo ministro del Giappone, Shinzō Abe, ha incontrato Papa Francesco e in dono gli ha portato uno specchio speciale, “magico”, fabbricato da un artigiano contemporaneo ma uguale a quelli usati dai cristiani clandestini del secolo XVII. Sembra uno specchio comune, ma, esposto al sole, mostra una croce e una immagine di Gesù; così il Papa, appena ricevutolo, ha guadagnato una finestra e, portandosi dietro Abe, ha contemplato il volto del Salvatore in piena luce.
Ora, la drammatica e gloriosa epopea del cristianesimo in Giappone non è ancora conosciuta quanto merita ‒ un primo approccio lo consente Rino Cammilleri, autore nel 2012 del “quaderno” Shimabara no ran. La grande rivolta dei samurai cristiani e del romanzo storico Il crocefisso del samurai (Rizzoli, Milano 2009) ‒; ma a squarciare la coltre del silenzio arriverà presto un film, diretto nientemeno che da Martin Scorsese.
Tra eroismo e sacrificio, la vicenda dei kirishitan (i cristiani giapponesi perseguitati e poi ridotti alla clandestinità) “tormenta” il famoso regista americano sin da quel lontano 1989 in cui per la prima volta prese nella sua mente forma, seppure ancora vaga, l’idea di metterla in scena. Qualcosa di decisivo si è sbloccato però solo nel 2007, tanto da spingere Scorsese a dire pubblicamente di voler mettere mano alla macchina da presa per quel progetto quanto prima; il cineasta sperava nel 2008, ma ancora una volta ha dovuto ritardare. Nel 2009 è però riuscito a scritturare nel cast attori del calibro di Daniel Day-Lewis e di Benicio del Toro, e nel 2013 anche Andrew Garfield, Ken Watanabe e Liam Neeson nei panni del protagonista, un missionario gesuita per cui si sente adattissimo: «Sono stato cresciuto», dice Neeson, «da cattolico irlandese bello tosto». E ora finalmente, dopo aver trovato tutti i fondi necessari attraverso la compagnia Emmett/Furla Films, Scorsese inizia a girare a Taiwan, contando d’impiegarci tutti i prossimi mesi estivi e dando così appuntamento al pubblico per l’anno venturo.
La pellicola ha già un titolo, Silence. Anche perché s’ispira a quell’omonimo romanzo storico del 1966 che viene universalmente considerato il capolavoro del giapponese Shusaku Endo (1923-1996). Endo ‒ rara avis ancora oggi in Giappone ‒ era cattolico, battezzato attorno agli 11 o ai 12 anni per volontà della madre, a sua volta divenuta cattolica dopo avere subito il divorzio, o forse, come dicono altri, da una zia cui il piccolo era stato affidato. Ma questo non ha impedito alla critica di riconoscere in lui un talento indiscusso della cosiddetta “terza generazione” di scrittori successivi alla Seconda Guerra Mondiale pur in una Paese dove il cattolicesimo è stato a lungo perseguitato con raffinata crudeltà, è rimasto fuorilegge fino al 1850 e poi è stato sostanzialmente percepito come corpo estraneo. A Endo è stato persino dedicato un museo letterario personale nella “cattolica” Nagasaki (al sito, in giapponese, selezionare l’opzione di traduzione offerta dal motore di ricerca Google) e più volte il suo nome è stato sussurrato per il Nobel.
Quel suo romanzo, pluripremiato, ha ispirato nel 2002 la Sinfonia n. 3 Silence del musicista scozzese James MacMillan, è stato tradotto in moltissime lingue ed è disponibile anche in italiano, pubblicato a Milano come Silenzio da Rusconi nel 1982 e riedito da Corbaccio nel 2013. Del resto, tutte le opere di Endo tengono sempre, sottotraccia, la persecuzione dei cristiani, e le problematiche annesse, anche se praticamente mai affrontano il tema direttamente; il lettore italiano ha peraltro a disposizione soltanto un altro romanzo dello scrittore giapponese, Il samurai (trad. it. Luni, Milano 2013), anch’esso ruotante attorno al motivo forte della fede proibita.
Endo è però giudicato un cattolico molto problematico, costantemente alle prese con l’argomento spinoso dell’inculturazione della fede (una questione per lui personalissima, non certo una divagazione teorica), dell’incontro con la cultura nipponica che è quasi sempre uno scontro e con una Croce che dà scandalo. A dimostrarlo bene è proprio il capolavoro Silenzio che ha ispirato Scorsese, là dove a essere stuzzicata è una storia controversa e dolorosa: la missione del gesuita Sebastião Rodrigues ‒ modellato su una figura storica, il gesuita siciliano Giuseppe Chiara (1602-1685) ‒ che viene inviato in Giappone durante le persecuzioni del primo Seicento per indagare sull’apostasia del confratello portoghese Cristóvão Ferreira (1580 ca.-1650), un personaggio realmente esistito che, per sottrarsi al martirio, rinnega la fede, aderisce a una “setta” zen (anche se i suoi scritti pare rivelino soprattutto una filosofia fondata sul diritto naturale) e si sposa. Padre Rodrigues si rende insomma conto che, almeno in Giappone, la fede in Cristo è soprattutto la Passione.
Dopo che il regista giapponese Masahiro Shinoda, collaborando con lo stesso Endo, già ne trasse nel 1971 un film, Chinmoku (come suona il titolo giapponese originale anche del romanzo), dopo che nel 1996 la vicenda dell’apostata Ferreira ha ispirato una seconda pellicola al portoghese João Mario Grilo, Os Olhos da Ásia, ora è dunque la volta di Scorsese. C’è materiale sufficiente per farne un vero scandalo, ovvio; ma ne potrebbe invece pure uscire qualcosa di davvero buono. I martiri kirishitan se lo meriterebbero.
Marco Respinti
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