Israele è colpevole di genocidio contro i palestinesi. No, non è un proclama dell’ISIS, ma il programma, A Vision for Black Lives, del “Movement for Black Lives”, un cartello di 50 e più organizzazioni che in maniera unilaterale si proclama rappresentante non solo dei neri ma pure di donne, gay, lesbiche, transessuali, “sessualmente non conformisti”, musulmani, carcerati ex e attuali, poveri, operai, “diversamente abili”, illegali privi di documenti e immigranti. Ce l’ha con Israele, ma pure con capitalismo, razzismo, colonialismo, schiavitù, cambiamenti climatici e sfruttamento (mancano solo le cavallette e gli alieni). “Black Lives Matter” (perché di questo si tratta) è insomma un movimento di tipo ideologico che mira a una cosa sola: la rivoluzione.
Chi lo spiega bene è Philip Carl Salzman, antropologo della McGill University di Montreal, in Canada, su Middle East Forum, il portale web diretto da Daniel Pipes. Salzman parla d’«intersectionality»: intraducibile, è l’idea secondo cui tutti gli “oppressi” del mondo sono, secondo gli “oppressi”, portati a unirsi contro il nemico comune. Ecco dunque i neri a fianco dei palestinesi contro chi vuole (dice “il movimento”) spazzarli dalla faccia della Terra. Ma è una bugia, funzionale solo a ingrossare l’esercito della multinazionale della sovversione. Già il comunismo ha conquistato Paesi interi in Africa e in Asia fingendo di stare dalla parte di quei movimenti indipendentisti che, nazionalisti, di per sé il marxismo nemmeno sapevano cosa fosse. Già il famoso terrorista “Carlos” (in carcere in Francia dove si è convertito all’islam) predicava negli anni 1970 l’unione di tutte le forze anti-americane cercando di forzare la connivenza tra comunisti e jihadisti che in realtà stavano assieme come il diavolo e l’acquasanta.
Dopo l’ennesimo fatto di cronaca questa strategia è più che evidente. In North Carolina Keith Lamont Scott è stato ucciso dall’agente Brentley Vinson del dipartimento di polizia di Charlotte-Mecklenburg capitanato da Kerr Putney. Ovvero un poliziotto nero agli ordini di un capo nero ha ucciso un nero. Dov’è il razzismo? E, inoltre, come molti americani si chiedono da mesi, perché se un bianco spara a un nero tutti gridano subito al razzismo mentre se un nero spara a un bianco (magari un poliziotto) il razzismo non passa nemmeno per l’anticamera del cervello a nessuno?
La realtà, infatti, è chiara a tutti, ma nessuno se la sente di dirla. In molte città americane certi quartieri sono delle casbe. Sono le giungle dove dominano incontrastate quelle gang di cui cominciamo ad avere qualche prima, pallidissima idea anche nelle nostre città. Desolazioni dove ci si scanna tra latinos e neri, tra bande rivali di spaccio e smercio di carne umana. E soprattutto gli antri dove regna Acab, acronimo di “All cops are bastard”, “tutti i poliziotti sono bastardi”, e i poliziotti tremano al solo pensiero di metterci piede. Ma poi, “to serve and protect”, per servire e proteggere” quelli che lo meritano, e ce ne sono, lo fanno, entrano nell’inferno e così capita pure che a volte sbaglino. O che tra loro ci sia qualche montato, ma cosa cambia? I poliziotti neri non fanno strage di vite nere.
Chi aveva capito alla perfezione la necessità strategica di passare dai ghetti razziali alla militanza per la rivoluzione era Saul Alinsky (1909-1972), archeologo mancato e agit-prop comunista che, resosi conto dell’impossibilità di radicare il marxismo di stretta osservanza negli USA, si reinventò una carriera come organizzatore di minoranze etniche. Scrisse manuali di radicalismo urbano, uno lo dedicò nientemeno che a Lucifero e a Chicago ebbe due allievi importanti. Uno fa il presidente degli Stati Uniti e si chiama Barack Obama; l’altra, letteralmente infatuata di lui, incentrò sul suo “modello organizzativo” la tesi di laurea e il presidente degli Stati Uniti vorrebbe farlo. Si chiama Hillary Clinton.
Marco Respinti
Versione originale e completa dell’articolo pubblicato con il medesimo titolo
in Libero [Libero quotidiano], anno LI, n. 267, Milano 27-09-2016, p. 13
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