A quasi trent’anni dall’abbattimento del Muro di Berlino i conti con il comunismo non sono ancora stati fatti per davvero. Il che ha, di per sé, dell’incredibile. Nessun’altra ideocrazia ha infatti mietuto tante vittime (100 milioni, secondo l’accurato pallottoliere, ma per difetto, de Il libro nero del comunismo), nessun altro regime se non quello sovietico ha avuto la possibilità concreta di polverizzare l’umanità in un soffio, nessun altro totalitarismo è durato tanto (il Terzo Reich ha vissuto 12 anni, l’Unione Sovietica 72).
In ciò, un capitolo speciale è quello della lotta condotta dal comunismo contro le fedi religiose, in special modo il cattolicesimo. La lotta contro la religione è stata il perno centrale del comunismo. Votato a creare l’“uomo nuovo”, il materialismo marxista-leninista ha letteralmente cercato di cambiare i connotati all’umanità a partire dal suo tratto più radicato e identitario, la fede, che nel cattolicesimo ha trovato da un lato la sua forma più renitente al cedimento, dall’altro una organizzazione altamente sviluppata e radicata impossibile da addomesticare. La sua fedeltà al Papa di Roma ha infatti sempre messo in crisi i regimi comunisti, lasciando loro solo la prospettiva dell’annientamento. Ma di questa guerra totale è mancato sino a oggi un censimento complessivo e uno sguardo organico che permettesse di apprezzarne fino in fondo la portata e la gravità. È dunque enorme il merito di don Jan Mikrut nell’avere curato i saggi che compongo le 800 pagine di La Chiesa cattolica e il comunismo in Europa centro-orientale e in Unione Sovietica, pubblicato dall’editore Gabrielli di San Pietro in Cariano (Verona) con la prefazione del cardinale Miloslav Vlk, arcivescovo emerito di Praga.
Polacco, sacerdote cattolico, professore straordinario nella Facoltà di Storia e Beni Culturali della Chiesa della Pontificia Università Gregoriana, don Mikrut ha raccolto 23 saggi di una cinquantina di esperti europei tra autori e traduttori dedicati ai Paesi “sovietizzati” dalla fine della Seconda guerra mondiale: Albania, Bulgaria, Repubblica Ceca, Chiesa cattolica latina e Chiesa greco-cattolica in Slovacchia, Germania dell’Est, Bosnia-Erzegovina, Croazia, Slovenia, Polonia, Chiesa cattolica latina e Chiesa greco-cattolica in Romania, Ungheria, Estonia, Lettonia, Lituania, Bielorussia, Moldavia, Chiesa cattolica latina e Chiesa greco-cattolica in Ucraina e Kazakhstan, nonché le repubbliche Asiatiche e quelle del Caucaso nell’ex Unione Sovietica. Un quadro sinottico e sincronico della persecuzione anticattolica comunista che mai era stato tentato prima. E l’effetto d’insieme che ne risulta mette i brividi.
Quest’«[…] opera scientifica», scrive il cardinal Vlk, è infatti «[…] un’autorevole conferma della persecuzione cui fu sottoposta la Chiesa cattolica e dell’eroismo di molti suoi membri», suffragata «[…] dalla concordanza delle fonti documentali, usate a piene mani […], e dalle testimonianze di coloro che vissero quel periodo in prima persona».
Il volume ripercorre così la presa del potere da parte dei partiti comunisti negli Stati europei centrali dopo il 1945 con il concorso determinante dell’Unione Sovietica, la “sovietizzazione” di mezza Europa, il piano staliniano di annientamento delle Chiese esacerbatosi a partire dal 1948, il dramma speciale della soppressione delle Chiese cattoliche di rito orientale con il concorso delle gerarchie ortodosse, nonché il vero e proprio martirio di milioni di cattolici. Tutto con studiata freddezza: «Al Convegno dei partiti comunisti a Szklarska Poręba in Polonia, dal 22 al 27 settembre 1947», scrive don Mikrut, «il rappresentante russo Ždanov Andriej Aleksándrovič (1896-1948) presentò un piano di eliminazione della Chiesa cattolica in tutti i paesi del blocco sovietico. Il suo progetto si basava sul modello sovietico applicato negli anni venti nell’URSS e consisteva nella distruzione delle gerarchie e poi dei più eminenti tra sacerdoti e laici. Nella prima fase dovevano essere arrestati i vescovi, eliminando così la guida della Chiesa, e si dovevano isolare le persone apprezzate dai credenti. Allo stesso tempo, bisognava creare gruppi dei laici collaborazionisti, fedeli al regime e avversari della gerarchia».
Fu uno dei periodi più bui della storia e la leggerezza con cui oggi l’opinione comune se ne disinteressa è allarmante. La storia umana è infatti colma di tragedie che sono solo la ripetizione di altre tragedie non esorcizzate per tempo da un’adeguata educazione vigile della memoria. La vera e propria “ateologia” cui il comunismo volle dare struttura politica potenzialmente permanente andrebbe dunque studiata nelle scuole e il progetto inaugurato da La Chiesa cattolica e il comunismo in Europa centro-orientale e in Unione Sovietica (e a cui seguiranno altri volumi in una collana pensata ad hoc) permette oggi di farlo in modo approfondito. Un quadro vivido dell’impressionante del costo umano di quella stagione maledetta lo ha fornito lo stesso don Mikrut in un articolo di sintesi, Le memorie senza volto del comunismo, che il 30 novembre 2010 per certi versi anticipava su L’Osservatore Romano il grande sforzo corale di questo volume. «Nelle statistiche preparate della Commissione nuovi martiri per il Grande Giubileo del 2000», scriveva don Mikrut sul quotidiano della Santa Sede, «si contano 12.692 martiri, così ripartiti: dall’Europa 8.670, dall’Asia 1.706, dall’Africa 746, dall’America del nord e del sud 333, dall’Oceania 126. Un gruppo particolare è dato dai 1.111 martiri dell’Unione Sovietica. Nella statistica della vecchia Europa si contano 3.970 preti diocesani, 3.159 religiosi e religiose, 1.351 laici, 134 seminaristi, 38 vescovi, 2 cardinali, 13 catechisti. In totale in Europa abbiamo avuto 8.667 testimoni di Cristo. Nel contesto mondiale tra i martiri si annoverano 5.173 preti diocesani, 4.872 religiosi e religiose, 2.215 laici, 124 catechisti, 164 seminaristi, 122 vescovi, 4 cardinali e 12 catecumeni». Sono le vittime dei totalitarismi novecenteschi, in gran parte cattolici e per la maggior parte caduti per mano comunista, giacché «la persecuzione più grande fu la battaglia organizzata contro il cristianesimo dal comunismo internazionale».
Marco Respinti
Oggi al governo i nipotini di Marx
Don Ján Košiar è nato nel 1960. Sacerdote cattolico, vive e opera a Bratislava, capitale della Slovacchia. Ottenuta la laurea abilitante all’insegnamento dalla Pontificia Facoltà Teologica Marianum di Roma, ha lavorato a Radio Vaticana, è stato corrispondente per la BBC e ha prestato servizio diplomatico nel Sovrano Militare Ordine di Malta in Bielorussia.
In che modo, concretamente, il regime comunista cecoslovacco perseguitò i cristiani?
Il 25 febbraio 1948 i comunisti andarono al potere in quella che allora era la Cecoslovacchia con un colpo di Stato, ma la persecuzione era già in atto dal 1945, all’indomani della Seconda guerra mondiale. Nel 1950 il regime comunista imprigionò quasi tutti i vescovi: pensi che la maggior parte delle vescovili diocesi è rimasta vacante addirittura fino al 1990… Poi furono sospesi gli ordini religiosi, prima quelli maschili e poi quelli femminili, e i frati e le suore furono internati in campi di concentramento. L’accesso al seminario interdiocesano di Bratislava, capitale dell’attuale Slovacchia, l’unico del Paese, era regolato dal “numero chiuso” in modo da tenere le vocazioni e le ordinazioni sotto controllo. Per la stampa religiosa non vi era alcuna libertà. Ma la fede si è mantenuta salda grazie al religiosi (gesuiti) consacrati vescovi clandestinamente, mons. Pavol Hnilica (1921-2006) e mons. Ján Korec (1924-2015).
Un ricordo particolare della lotta tra cristianesimo e comunismo?
È legato alla mia persona. Volevo fortemente diventare sacerdote e così mi recai a Roma a studiare senza il permesso delle autorità. Era il 1983. Fui ordinato in Vaticano dal Papa oggi santo Giovani Paolo II.
Quale memoria resta oggi, nella popolazione del suo Paese, in specie tra i cattolici, del regime comunista?
Il ricordo è forte, quello di una stagione tragica. Ma oggi i credenti subiscono la sfida di nuove minacce: soprattutto la cosiddetta “ideologia del gender” e la tentazione islamista, che fortunatamente è ancora geograficamente lontana.
Ciò detto, va ricordato che in Slovacchia il potere è ancora nelle mani dei nipotini dei comunisti. La cosiddetta “rivoluzione di velluto” del novembre 1989 fu una transizione pilotata di potere che servì a mettere in salvo i vecchi gerarchi. Per esempio Vasil Biľak, l’uomo del PC che durante la famosa “Primavera di Praga” del 1968 invitò i carri armati sovietici a invadere il Paese, si è spento di morte naturale a 96 anni nel 2014 senza avere fatto nemmeno un giorno di prigione. I nipotini dei comunisti oggi riciclatisi a Bratislava si tengono ben stretto Il capitale di Karl Marx. Hanno buttato nel cestino soltanto Il manifesto del partito comunista…
Il 30 maggio lei ha partecipato a un importante evento a Bucarest. Di cosa si è trattato?
Nel 1984 sono stato condannato in contumacia a 15 mesi di carcere e pertanto faccio parte dell’Associazione slovacca dei prigionieri politici. Inoltre faccio parte del gruppo di presidenza dell’Associazione internazionale dei prigionieri e delle vittime del comunismo che ha sede a Berlino. Il 30 maggio i colleghi rumeni mi hanno invitato all’inaugurazione del monumento nazionale per le vittime del comunismo, una scultura in acciaio di 100 milioni di tonnellate realizzata dall’artista Mihai Buculei che rappresenta simbolicamente le anime degl’innocenti che salgono al Cielo. C’erano più di 300 invitati, non soltanto uomini di governo, di Chiesa e di politica, ma anche sopravvissuti alla mattanza o i loro figli. I conti con il passato debbono ancora essere fatti.
M.R.
Versioni complete e originali degli articoli pubblicati
con i medesimi titoli
in il nostro tempo, anno 71, n. 25, Torino 26-06-2016, pp. 6 e 7
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